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La Brera bolognese

1778 | 1881

Schede

Dopo il 1796, con l’arrivo dei francesi, Bologna entra a far parte dell’orbita culturale transalpina. L’annullamento dei confini doganali e l’appartenenza a un unico stato favoriscono un intenso scambio tra le istituzioni artistiche di Bologna, Milano e Venezia. Tuttavia la storia dei rapporti tra l’Accademia di Brera e quella Clementina, rifondata nel 1803 come Accademia di Belle Arti, comincia almeno due decenni prima del nuovo corso politico. Nel 1778 infatti il bolognese Carlo Bianconi (1732- 1802), architetto, pittore, scultore, raffinato intellettuale, si trasferisce a Milano per ricoprire la carica di Segretario dell’Accademia, che manterrà fino a un anno prima della morte, avvenuta nel 1802. I suoi metodi didattici, improntati sullo studio della modellistica, favoriscono la fortuna della grafica bolognese. Tra i 35 disegni di accademia di autori vari, che entrano a far parte del corredo didattico tra il 1776 e il 1798, un certo numero rispecchia «le preferenze del Bianconi stesso», orientate al «gusto emiliano o classicistico»: un Correggio, due Guercino (probabilmente copie) e quattro Mengs (Scotti 1979, p. 46). Il bolognese inoltre aveva costituito una raccolta personale di oltre ventimila stampe, che viene così descritta: «Il Bianconi si è fatto un dovere di adunare libri e stampe per potere dare i lumi alla gioventù studiosa de’ quali potesse abbisognare. In ciò ha speso una cura grandissima e basti dire che ha raccolto da ventila stampe a mille e più volumi di libri spettanti alle belle arti. Per questo ha diminuita e, si può dire, impegnata tutta la sostanza paterna» (Scotti 1979, pp. 47-48). 

Il ritorno di Napoleone dopo la battaglia di Marengo (14 giugno 1800) e la riconquista del Nord Italia, sancita dalla pace di Luneville (9 febbraio 1801), inaugurano un periodo di stabilità politica, durante il quale Milano diviene una sorta di «capitale delle arti» (Marelli 2019, p. 113). Dopo la proclamazione del Regno d’Italia (17 marzo 1805) fu lo stesso Napoleone a promuovere una serie di sforzi per rendere la città all’altezza del confronto con i maggiori centri europei. Egli infatti approvò da Parigi diversi progetti architettonici, dando continue disposizioni al figlio adottivo Eugenio di Beauharnais, nominato viceré d’Italia. In questo contesto si inserisce la figura di Giovanni Antonio Antolini (1753-1841), trait d’union tra Bologna e Milano. Nato a Castel Bolognese, in provincia di Ravenna, lavora a Roma e Faenza come architetto. Tra il 1800 e il 1803 mette a punto il progetto del Foro Bonaparte, oggi testimoniato da un volume conservato presso la Bibliotèque Nationale di Parigi e costituito da 25 tavole, 15 disegnate a penna e acquarellate e 10 incise all’acquaforte. Il complesso architettonico, ideato dall’Antolini, doveva sorgere a Milano nell’area del Castello Sforzesco, che i francesi volevano abbattere insieme ad altre fortezze italiane. Al centro di una piazza circolare doveva sorgere un edificio dall’aspetto classicheggiante, rivestito di marmi e colonne. Intorno, un lungo colonnato avrebbe collegato quattordici edifici di pubblica utilità, sale riservate ad assemblee per il popolo, le terme, la dogana, la borsa, il teatro, il museo, il pantheon, botteghe con i magazzini e abitazioni per i negozianti (Marelli 2019, p.113-114). Il progetto, che dal punto di vista politico doveva rappresentare le «speranze di rinnovamento che avevano accompagnato la Rivoluzione» (Scotti 2003, p. 200-201), si rivelò immediatamente molto costoso e alla fine non fu realizzato. Tuttavia il progetto del Foro finì comunque per «influenzare i giovani allievi dell’Accademia milanese, che avevano frequentato lo studio dell’Antolini. Tra questi Alessandro Sanquirico, Francesco Taccani, Carlo Caimi, Pietro Pestagalli, Ferdinando Albertolli (Ricci 2003, p. 278). Negli stessi anni Antolini è attivo anche a Bologna, dove a partire dal 1803 ricopre l’incarico di docente di architettura. La sua attività didattica si svolge in parallelo tra le due città, favorendo un processo di scambio. Un manuale per l’insegnamento dell’architettura dal lui redatto, Idee elementari di Architettura Civile, viene pubblicato a Bologna nel 1813 e successivamente a Milano nel 1829. Il testo, fresco dell’edizione bolognese, venne presentato nel 1813 nelle sale di Brera, in occasione della pubblica esposizione. Il volume rispondeva alle «preoccupazioni relative alla carenze di libri elementari» che Giuseppe Bossi aveva denunciati già nella Relazione al Piano del 1803.  

La celebrazione del nuovo assetto politico comporta anche l’avvio di concorsi pubblici, come quello bandito nel 1802 dall’accademia milanese per un dipinto dal tema: «La Riconoscenza della Repubblica italiana a Napoleone». A risultare  vincitore è il dipinto, poi donato a Brera, di Giuseppe Bossi, prossimo alla nomina a segretario dell’istituto braidense. Per quanto riguarda la destinazione delle opere, prodotte per il concorso, si verifica un curioso scambio tra le città di Milano e Bologna. L’opera del riminese Francesco Alberi viene inviata a Verona (oggi si trova presso la Galleria comunale scaligera), mentre l’anno seguente l’artista ottiene la nomina a docente di Pittura presso l’accademia bolognese. A quest’ultima viene invece destinata la grande tela di Domenico Aspari, «che non aveva mai goduto di grande notorietà, soprattutto a Bologna, essendo stata la sua carriera essenzialmente lombarda». L’opera, ancora oggi presso le collezioni  dell’Accademia bolognese, è accolta con una certa freddezza, motivata anche dalle «straordinarie dimensioni» e rimane a lungo accantonata in qualche magazzino, anche «nel momento di maggio fervore napoleonico», quando il figlio stesso di Domenico Aspari, Carlo, ottiene la nomina ad «aggiunto» alla cattedra di Architettura di Giovanni Antonio Antolini (Farneti in Catalogo della Quadreria, 2012, p. 77-79). Negli anni successivi si moltiplicano le occasioni di confronto tra le città (e le relative istituzioni culturali) del neo-proclamato Regno d’Italia. Nel 1808 una disposizione impegna i professori di Belle Arti a esporre, ogni due anni a Milano, almeno una o due opere di loro composizione, a garanzia del livello dell’attività scientifica svolta. Tra questi c’è Antonio Basoli, che nella sua Vita artistica ricorda di aver inviato a Brera nel 1808 un «quadro di fiori fatti a olio nella mia convalescenza e quattro rosoni acquerellati che avevo fatto per la scuola». Un altro fattore che favorisce moltissimo i rapporti tra le accademie di Milano e Bologna è, a partire dal 1804, l’istituzione delle «pensioni artistiche», sovvenzioni statali che consentono agli studenti più brillanti di soggiornare a Roma per un quadriennio. Nel 1808 il regolamento viene modificato, includendo anche l’Accademia di Venezia. I «pensionati» sono tenuti a inviare annualmente all’istituzione le loro opere a garanzia dei progressi raggiunti nell’arte. 

La pittura | All’istituzione del «pensionato romano» si deve la presenza nella moderna Pinacoteca di Brera di due dipinti del bolognese Gaetano Tambroni (1763-1841), Un Paesaggio di composizione che rappresenta una natura idilliaca attraversata da un corso d’acqua con edifici classici sullo sfondo e due figure in primo piano vestite all’antica, e un Paesaggio con macchiette (Leda), una vasta scena naturale dove è ambientato l’episodio mitologico di Leda e il cigno ai piedi di un enorme albero. «Lo schema analogo della composizione, con con il grande albero sulla destra in posizione speculare all’altro dipinto, che introduce al vasto panorama con vedute di architettura sullo sfondo», rende plausibile che i due quadri siano stati «concepiti insieme» (Pulejo, in Pinacoteca di Brera, 1993). E’ dunque probabile che si tratti di saggi inviati da Roma negli anni nei quali Tambroni risultava «pensionato straordinario» dell’Accademia di Brera. L’ipotesi è avvalorata anche dal fatto che nel 1810 Gaetano Tambroni presenta un suo dipinto all’esposizione di Brera, un «quadro a olio con vedute d’architettura» (Pulejo, in Pinacoteca di Brera, 1993). Nello stesso anno una sua opera, Veduta della città di Bologna presa da Mezza Ratta, viene premiata al Salon di Parigi, mentre altri suoi paesaggi figuravano nella collezione del ministro bolognese Ferdinando Marescalchi. Alla consuetudine del pensionato artistico e al vivace ambiente cosmopolita romano si può ascrivere anche la tela del romagnolo Giovanbattista Bassi, Veduta della valle dell’Aniene, entrato nella collezioni della Pinacoteca di Brera nel 1900 con la donazione Stampa. L’artista si era formato a Bologna presso la bottega del paesaggista Vincenzo Martinelli e nel 1810 era partito per Roma, dopo essersi aggiudicato il pensionato triennale presso l’Accademia bolognese. La tavola braidense costituisce una «replica o più probabilmente un bozzetto preparatorio» del dipinto Paesaggio fluviale o Foresta presso un corso d’acqua, commissionato a Bassi nel 1816 dallo scultore Bertel Thorvaldsen (Musiari, in Pinacoteca di Brera, 1993). L’opera differisce dalla tela, oggi presso il Museo Thorvaldesn di Copenaghen, per l’aggiunta di un particolare aneddotico, la fanciulla che si bagna nel fiume e il cacciatore che assiste al lavacro. Tale scelta va ricondotta «all’influenza dello scrittore Pietro Giordani», pro-segretario dell’Accademia bolognese fino al 1815 e sostenitore del giovane artista. Giordani infatti «raccomanda al suo protetto di eseguire schizzi dal vero nella compagna romana e di completarli con episodi di citazione letteraria» (Musiari, in Pinacoteca di Brera, 1993), in questo caso un riferimento al mito di Diana e Atteone, narrato nelle Metamorfosi di Ovidio. Il pittore partecipa anche alle esposizioni di Brera. E’ quasi certamente lui il «Bassi, bolognese», che presenta nel 1821 una «Veduta di Roma a olio», di proprietà del «marchese Trotti» (Atti dell’Accademia, 1821, p.46). Nel 1824 espone due dipinti, Le cascatelle di Tivoli e una Veduta del tempio della Sibilla con cascata grande di Tivoli, entrami di proprietà del marchese Antonio Visconti (Atti dell’Accademia, 1824, p. 48). Nel 1831 presenta altri dei dipinti, La cascata di Tivoli e La cascata di Terni, entrambi su commissione del marchese Giorgio Raimondi. Un altro paesaggista bolognese attivo a Milano è Gaetano Burcher (1781-1828), del quale si conservano in Pinacoteca due dipinti, una Cascata, che richiama il «pittoresco romantico» e un Paesaggio, improntato a un più marcato gusto classicista. Entrambi i dipinti, giunti in collezione attraverso il «fondo esposizioni», possono essere quindi identificati con le opere esposte a Brera nelle mostre annuali (Lazzaro, in Pinacoteca di Brera, 1993). La presenza di Burcher viene segnalata nel 1812 con «due paesi dipinti a tempera» (Atti dell’Accademia, 1812, p. 59), nel 1813 e infine nel 1818. L’artista incontrò nell’ambiente milanese una certa fortuna, tanto che «copie dei suoi paesaggi classicisti alla romana» compiano alle esposizioni braidensi fino al 1844 (Lazzaro, in Pinacoteca di Brera, 1993). Burcher, a differenza di Giovanbattista Bassi, non ebbe l’opportunità di studiare a Roma, rimanendo così estraneo all’aggiornamento della pittura di paesaggio, in termini di realismo atmosferico, che si andava là affermando. Il suo stile rimane ancorato al filone del vedutismo ideale, del quale offre una particolare e raffinata interpretazione. A condurlo a Milano, dove  fu per qualche tempo istruttore della principessa Amalia di Baviera, furono probabilmente i rapporti con il conte Carlo Filippo Aldrovandi, influente segretario dell’accademia bolognese, che considerava Burcher suo «scolaro». Non è da escludere che qualche stimolo al trasferimento a Milano gli sia arrivato anche dai contatti con gli Antolini. Un disegno di sua mano, datato 1809 e realizzato per il principe Eugenio de Beauharnais, presenta la dedica «all’amico Filippo Antolini», figlio dell’architetto Giovanni Antonio, convinto assertore dell’estetica neoclassica. 

Ancora a Roma, nel secondo decennio del secolo, si creano occasioni di confronto tra artisti provenienti da diverse parti d’Italia. Nel 1811 nasce infatti l’Accademia di Palazzo Venezia, che raccoglie sotto lo guida dello scultore Antonio Canova gli studenti delle accademie di Bologna, Brera e Venezia. Oltre a Tommaso Minardi, spiccano i nomi di Pelagio Palagi e Francesco Hayez, questi ultimi destinati a diventare gli indiscussi protagonisti della scena milanese. Nel 1810 a Roma Pelagio Palagi dipinge il Ritratto di Gaetano Cattaneo, fondatore e poi direttore del Gabinetto Numismatico di Brera. L’opera, oggi in deposito alla Galleria d’Arte Moderna di Milano, costituisce un «limpido e lucido esempio della ritrattistica neoclassica italiana sfiorata da fremiti protoromantici» (Arrigoni, in Pinacoteca di Brera, 1993)  e permette di istituire un confronto con l’intrigante dipinto di Giuseppe Bossi, l’Autoritratto con Gaetano Cattaneo, Giuseppe Taverna e Carlo Porta (1809), noto anche come Cameretta Portiana, fotografia della classe intellettuale milanese. Cattaneo diverrà «personalità illustre negli ambienti culturali del capoluogo lombardo, amico e biografo di Giuseppe Bossi, intimo di Carlo Porta, Tommaso Grossi e Alessandro Manzoni. Altra opera pelagiana, oggi presso le collezioni braidensi, è la tavola Sisto V rifiuta di riconoscere la sorella e i nipoti presentati in abiti principeschi, versione in formato minore della della grade tela commissionata dal conte di Schonborn e presentata alla mostra annuale del 1926. Il dipinto illustra la qualità del «Palagi pittore di storia», impegnato su «un fronte moderato e conservatore», con una predilezione per «temi di un’assoluta neutralità ideologica», dove la rappresentazione si distingue per l’ «irreprensibile fedeltà storica e filologica» (Arrigoni, in Pinacoteca di Brera, 1993). Un’interpretazione del tema storico molto diversa da quella fornita da Francesco Hayez, «democratico e patriottico, irruente e romantico colorista», pittore del sentimento nazionale, come viene invocato da Giuseppe Mazzini nel 1841 (Poppi, 1996, p. 43). ll rapporto tra Palagi e Hayez nell’ambiente milanese si configurò fin da subito non solo nei termini di una "solida amicizia», ma anche di un «continuo confronto e scambio». Scriveva il pittore veneto nelle sue Memorie nell’anno 1822: «Sentivo con piacere i consigli del buon Palagi, che erano franchi e leali e che mi furono di grande vantaggio […] Io ammiravo in quest’uomo la fantasia per la composizione, ma mi sembrava che stesse troppo attaccato alle regole e qualche volta gli palesai questo pensiero; pure erano così armoniche e ben combinate le linee, che nel mirarle mi servivano da scuola» (Poppi 1996, p. 45-46). Del resto va ricordato che fu proprio il bolognese a favore inizialmente l’inserimento di Hayez a Milano, nell’ambiente di aristocratici e ricchi borghesi che avevano già avuto modo di apprezzare la pittura palagiana, quale linguaggio pittorico in grado di tradurre le loro aspirazioni. Hayez infatti arrivò nella città lombarda nel 1820, quando Palagi si trovava già lì da quattro anni. In seguito il confronto tra i due venne alimentato dalla sistematica partecipazione alle esposizioni braidensi e dalla consuetudine di importanti committenti milanesi di richiedere ad entrami gli artisti «l’esecuzione di un’opera che fosse una il pendant dell’altra» (Poppi 1996, p. 42). E’ il caso dei dipinti Diana cacciatrice di Palagi e Venere che scherza con due colombe (Ritratto della ballerina Carlotta Chabert), quest’ultimo realizzato da Hayez nel 1830 per il conte trentino Girolamo Malfatti. La lettura del carteggio del bolognese rende plausibile l’ipotesi che anche la Diana cacciatrice sia stata realizzata per lo stesso committente come pendant della Venere hayeziana intorno al 1828-1830. Le misure quasi uguali delle tele e la somiglianza delle figure femminili descritte lascino pensare che «la ballerina Carlotta Chabert sia stata modella sia per la Diana palagiana che per Venere di Hayez» (Poppi 1996, p. 178). Se per Palagi il soggetto mitologico diviene un semplice pretesto per l’esecuzione di un «ritratto dalle forti valenze erotiche» (Poppi 1996, p. 178), la Venere di Hayez, presentata alla mostra di Brera del 1830 (Atti dell’Accademia 1830, p.50), fa un’ulteriore passo verso un’audace realismo, ricevendo fortissime critiche. Le forme conturbanti della modella, dai glutei abbondanti, fecero sì che la dea, come ricorda l’artista stesso nelle sue Memorie, venisse definita la donna «più schifosa del volgo». All’ultimo anno milanese del Palagi, il 1832, si può ricondurre la realizzazione del Ritratto di Carlo Zardetti, direttore del Gabinetto Numismatico di Brera dopo la scomparsa di Gaetano Cattaneo. L’opera, oggi nelle raccolte braidensi, offre uno «specchio fedele della personalità proba, positivista anzitempo» del personaggio rappresentato (Arrigoni, in Pinacoteca di Brera, 1993). Palagi a Milano diventa un punto di riferimento per una generazione di artisti. A raccogliere la sua lezione ci saranno Carlo Bellosio e Vitale Sala e altri allievi, che ne hanno diffuso la maniera in tutto il nord Italia (Poppi, 2004, p. 15). 

Un caso particolare è quello di Francesco Alberi, che nel 1812 presenta a Brera la tela Radamisto in atto di spingere Zenobia ferita nel fiume Arasse. Il pittore, dal 1803 docente presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna, non riuscirà negli anni successivi ad imporsi nella capitale lombarda, a differenza del conterraneo Pelagio Palagi. La sua pittura rimane infatti ancorata al «classicismo bolognese», distante tanto «all’intellettualismo di Giuseppe Bossi» quanto dalla «vibrante spezzatura di Andrea Appiani», i protagonisti di quegli anni sulla scena lombarda (Musiari, in Pinacoteca di Brera, 1993).  

Dovrà passare mezzo secolo prima che un altro bolognese possa rivestire un ruolo da protagonista sulla scena del capoluogo lombardo. Sono numerosi i dipinti di Luigi Busi  segnalati alle esposizioni braidensi: Amore e voto (1867), La visita di cordoglio (1868), Una confidenza (1869), Incertezza!, Gioie materne, La commendatizia (1874), Conseguenze di un matrimonio celebrato col solo rito religioso, Compiacenze materne (1875), Povero Lelio!… (1878), Ricreazioni materne, Gioie materne (1879), L’onomastico di Bebè (1881). Un percorso artistico costellato da prestigiosi riconoscimenti ma interrotto prematuramente dalla grave malattia che colpirà l’artista portandolo alla morte. Nel 1875 Busi viene premiato per l’opera Conseguenze di un matrimonio celebrato col solo rito religioso, mentre quattro anni dopo è nominato Socio onorario dell’Accademia di Brera (Ingino 2018, p. 150). Nelle raccolte braidensi si conserva La commendatizia, dipinto presentato all’esposizione del 1874. La tela, che rappresenta una scena quotidiana «ambientata in uno scintillante salotto giallo oro stile secondo Impero», riscuote un «vasto successo di pubblico», orientandosi sulla scia della pittura di Alfred Stevens e Jean-Louis Meissonier in Europa, Silvestro Lega e Gaetano Chierici in Italia (Ferri, in Pinacoteca di Brera 1993). Negli stessi anni, insieme a Luigi Busi, espongono altri bolognesi, Alfonso Savini, Raffaele Faccioli, Augusto Sezanne, Coriolano Vighi. Un confronto si può stabilire con Alfonso Savini, che è quasi sempre presente insieme a Busi. All’esposizione braidense del 1868 Savini svolge il tema storico con Le ultime ore del Tasso, già affrontato da Busi nel dipinto Torquato Tasso e il cardinale Cinzio Aldobrandini (1863-64), oggi preso la Pinacoteca Nazionale di Bologna. Al Tasso di Savini, noto attraverso una fotografia conservata presso l’Album Belluzzi del Museo del Risorgimento di Bologna, Busi contrappone una scena ambientata nel presente, La visita di cordoglio. Tuttavia è comune ai due artisti il gusto per la dettagliata descrizione degli interni e la scelta di soggetti letterari. Savini dipinge Nidia e Glauco, personaggi del romanzo «Gli ultimi giorni di Pompei» di Bulwer  (Esposizione del palazzo Nazionale di Brera, 1869, p.  9) e la dantesca Lia, citata nel ventisettesimo canto del Purgatorio (Esposizione nel palazzo di Brera, 1874, p. 19). Busi, pur prediligendo gli affetti domestici e le scene di vita borghese, non è estraneo a suggestioni poetiche, come nelle numerose varianti delle Gioie materne, cantante anche dal poeta Giuseppe Giusti nella lirica Affetti di una madre (Chia, 2019,  p. 58). Un altro dipinto di Savini, esposto a Brera nel 1874, Il profumo. Costume pompeiano, è noto attraverso una fotografia dell’Album Belluzzi del Museo del Risorgimento di Bologna. Una variante, The frangrance maker, si segnala sul mercato antiquario.                     

La scultura | Uno degli artisti bolognesi più attivi a Milano nei primi due decenni del secolo è Giacomo De Maria (1760-1838). I suoi rapporti con l’Accademia di Brera si stabiliscono già alla fine degli anni Novanta, grazie al confronto con i colleghi Francesco Rosaspina e Giacomo Rossi, presenti sulla scena milanese con incarichi politici. Sono inoltre documentati contatti con i pittori Andrea Appiani e Giuseppe Bossi (Mampieri 2020, p. 52). De Maria partecipa sistematicamente alle esposizioni di Brera a partire dal 1808, quando su richiesta del governo centrale i professori delle accademie sono invitati a presentare a Milano le loro opere più significative. Il bolognese in quell’occasione espone un busto di Luigi Galvani e il rilievo con le Tre Arti, parte del fusto della memoria al duca di Curlandia. Nel 1809 presenta i rilievi in marmo le Virtù e nel 1810 giunge all’esposizione il modello in scagliola del San Mattia, commissionato all’artista per una fiancata esterna del Duomo di Milano. Nel 1813 De Maria è presente con due lavori, il medaglione cammeo con il ritratto dell’aeronauta Francesco Zambeccari, destinato alla cimasa del suo monumento alla Certosa e un modello in scala del frontone di Villa Aldini, rappresentante l’Olimpo (Mampieri 2020, p. 53-54). Una lettera, scritta da De Maria in accompagnamento all’opera, chiarisce il messaggio affidato all’immagine. Giove e Giunone sono infatti personificazioni di Napoleone e Maria Luigia d’Austria, la collina dell’Osservanza diviene metafora del monte Olimpo e la Villa di Antonio Aldini della reggia degli dei. Gli altri personaggi, che affollano la scena, rimandano anche loro a una complessa simbologia (Mampieri 2020, p. 297-298), in un costante confronto con l’attualità. Il 1813 è un anno che vede una significativa partecipazione di artisti bolognesi alla mostra di Brera: oltre ai già citati Giovanni Antonio Antolini per l’architettura e Gaetano Burcher per il paesaggio, in architettura a Giacomo De Maria si affianca Luigi Acquisti con una «Flora in marmo» (Atti dell’Accademia 1813, p. 54). Un altro assiduo delle esposizioni è Democrito Gandolfi (1797-1874), figlio del pittore Mauro. E’ probabilmente su consiglio del padre, che collaborava con i milanesi fratelli Vallardi, che il giovane Democrito si iscrive ai corsi dell’Accademia di Brera. E’ ancora seguendo le orme del padre, presente alle mostre in diverse occasioni (Atti dell’Accademia 1812,  p. 57; 1819, p. 44), che lo scultore si presenta costantemente alle esposizioni con pezzi dalle dimensioni più disparate, da piccoli ritratti in cera e grandi gruppi in marmo (Martorelli 2008, p. 19). Nel 1822 tra le sue opere figurano «undici ritratti in cera», mentre l’anno successivo è la volta di un gruppo in gesso Ercole che soffoca Anteo. Nel 1824 espone la figura colossale in gesso dell’Arcangelo Michele «nell’atto di dire Resurgite» (Atti dell’Accademia 1824, p. 40). L’opera fa parte di un più vasto numero di sculture che ornano il cimitero del Vantiniano a Brescia, tra cui spiccano le due dolenti e i due leoni posti all’ingresso del Pantheon (Martorelli 2008, p. 19). Nel 1825 Gandolfi è di nuovo presente con il busto di Antonio Fenaroli Avogadro, commissionato dal nobile bresciano Luigi Fenaroli Avogadro a ricordo del fratello scomparso (Conconi Fedrigolli 2010). L’incarico testimonia come i lavori presso il Valentiniano abbiano permesso al bolognese di farsi notare, attirandogli diverse commissioni da parte dell’aristocrazia locale. Nel 1828 l’artista presenta un nutrito nucleo di opere: un busto colossale in marmo di Canova, un ritratto dedicato a Dante, due studi dall’antico (Puttino dormiente e Testa di Venere), un’ Artemisia, una statua grande al vero con «una femmina che desolata s’abbandona sopra un sarcofago» e infine un modello in gesso con Zefiro che incorona Flora su commissione del conte Trissino dal Vello d’oro di Vicenza (Atti dell’Accademia 1828, pp. 44-45, 60, 63). Opere che attirano il favore della critica, soprattutto la dolente, descritta come una «donzella che con una corona di fiori in una mano, oppressa dal dolore per la perdita di qualche consanguineo, od altra persona teneramente amata, si abbandona sull’urna». Il recensore sembra difendere l’artista dalle critiche contenute in un «opuscolo», sostenendo che l’atteggiamento disordinato e scomposto della figura sia teso ad esprimere qualcosa di sublime (Biblioteca Italiana, 1828, pp. 215-216). Lo scultore si afferma con decisone sulla scena milanese, tanto da ricevere nel 1829 riceve la commissione per la realizzazione di due delle otto statue per la Barriera di Porta Orientale, Cerere e Vulcano, che dovevano rappresentare rispettivamente l’Agricoltura e l’Industria. Firmate e datate 1833, al momento dell’inaugurazione vengono aspramente criticate. Il «timido tentativo di naturalismo» avanzato dallo scultore non viene capito e la figura di Vulcano viene paragonata a quella di un «rozzo mascalzone, goffo, pingue, moscio» (Martorelli 2008, p. 20). Il parziale insuccesso non impedisce all’artista di ricevere altre commissioni da parte della nobiltà, che poi vengono presentate alle mostre braidensi. Si può citare nel 1837 il  busto della Principessa Albani; nel 1838 la statua della Primavera, commissionata dalla contessa Samoyloff, e il busto della contessa Gismondi, poetessa d’Arcadia conosciuta con il nome di Lesbia Cidonia, oggi a Bergamo, presso la Biblioteca Angelo Mai (Conconi Fedrigolli 2010). 

Partecipa regolarmente alle esposizioni di Brera, dal 1829 al 1847, Cincinnato Baruzzi (1796-1878), coetaneo di Democrito Gandolfi. Lo scultore inaugura la sua attività milanese nel 1829, inviando i due busti di Teodoro e Marco Arese e una versione della Psiche con la farfalla, che verrà lodata dalla critica. E’ «l’inizio del lungo rapporto con Milano che attraverso importanti committenti lombardi, gli Arese, i Serbelloni, Ambrogio Uboldo, Paolo Tosio, Enrico Mylius e Francesco Cavezzali, si prolungherà attraverso le varie esposizioni di Brera fino agli anni ’40» (Mampieri 2014, p. 27). Dopo una lunga pausa, lo scultore riprende a esporre a Milano con una certa regolarità a partire dal 1835. In questa occasione riesce a polarizzare su di sé l’attenzione del pubblico con due statue, una Leda, di cui si conserva il gesso a Villa Baruzziana, e una Silvia, oggi alla Pinacoteca Tosio e Martinengo di Brescia. Il 1837 si rivela un anno decisivo per la carriera milanese dello scultore. Il riconoscimento di pubblico e critica gli deriva dalla presentazione di tre opere: Salmace, la Timpanista ed Eva. La prima, destinata al collezionista Ambrogio Uboldo, farà bella mostra di sé nella galleria del ricco banchiere contrapposta alla Betsabea di Hayez. La Salmace non viene apprezzata soltanto dal committente, che la definisce «il più bell’ornamento della piccola mia raccolta di belle arti», ma anche da un più vasto pubblico. «Continuamente viene visitata- scrive l’Uboldo- e mezza Milano ne parla». L’opera, ispirata alle Metamorfosi di Ovidio, ottiene all’esposizione un grande successo, tanto che le viene dedicata una pagina sull’Album Canadelli, a firma di Giovanni Sacchi (Mampieri 2014, pp. 101-105). Tuttavia per Baruzzi il vero trionfo è determinato dall’Eva, sia per le critiche positive apparse sui giornali sia per le commissioni che gli deriveranno. Il fascino emanato dalla figura femminile arriva a oscurare la Fiducia in Dio di Lorenzo Bartolini, che nella pagine dedicate all’esposizione non riceverà critiche altrettanto entusiastiche. Tra gli ammiratori del bolognese figura anche Massimo d’Azeglio (Mampieri 2014, pp. 190-197). Nel 1838 Baruzzi riceve il diploma di accademico d’onore a Brera, intrattenendo stretti rapporti con personaggi di spicco dell’ambiente culturale milanese. E’ stato poi osservato come lo scultore sia stato abile nello sfruttare tali rapporti, al fine di ritagliarsi «un ruolo predominante all’interno dell’Accademia di Bologna che gli permetterà di proporre, o forse meglio di imporre, l’assegnazione del titolo di accademici onorari alla maggior parte dei suoi committenti, ottenendone nuovo favori» (Mampieri 2014, p. 32). Nel 1841 lo scultore presenta a Brera un altro dei suoi capolavori, la Nerina, scolpita per il conte torinese Bertolazzone d’Arache. Come nel caso della Salmace, Baruzzi si propone «in veste di artista letterato», scegliendo un soggetto tratto da una canzonetta anacreontica, improvvisata a Parigi nel 1806, da Francesco Gianni, antagonista di Vincenzo Monti, a quel tempo piuttosto noto (Mampieri 2014, pp. 33). La statua della Nerina compare anche nel Ritratto di Cincinanto Baruzzi, realizzato nel 1833-34 dal russo Karl Brjullov (Mampieri 2014, pp. 133), segno del fatto che l’artista la considerava una delle sue opere più rappresentative.

Ilaria Chia

Bibliografia: Roberto Martorelli, 1796-1896. Scultori bolognesi e committente pubbliche, in «Bollettino del Museo del Risorgimento», LIII (2008); Aurora Scotti, Brera 1776-1815. Nascita e sviluppo di una istituzione culturale milanese, Firenze, 1979; Isabella Marelli, Milano capitale della arti, in Jean Auguste Dominque Ingres e la vita artistica al tempo di Napoleone, catalogo della mostra a cura di Stéphane Guégan e Florence Viguier-Dutheil (Milano, Palazzo Reale, 12marzo - 23 giungo 2019), Venezia, 2019; Aurora Scotti, Giovanni Antonio Antolini e Felice Giani: riflessioni sui disegni del Foro Bonaparte, in Architettura e urbanistica in età neoclassica. Giovanni Antonio Antolini (1753-1841). Atti del 1° Convegno di studi antoliniani, Faenza, 2003; Giuliana Ricci, L’insegnamento dell’architettura nell’Accademia brandente ed il contributo di Giovanni Antonio Antolini, in in Architettura e urbanistica in età neoclassica. Giovanni Antonio Antolini (1753-1841). Atti del 1° Convegno di studi antoliniani, Faenza, 2003; Fabia Farneti, Vincenza Riccardi Scasselati Sforzolini (a cura di), La vita artistica di Antonio Basoli, Bologna, 2006,p. 30v-31; Pinacoteca di Brera. Dipinti dell’Ottocento e del Novecento.  Collezioni dell’Accademia e della Pinacoteca, Milano, 1993, Vol. I;  Atti dell’Accademia di Belle Arti in Milano, Milano, 1821, 1824, 1830, 1831; Ilaria Chia, Paesaggio e scenografia (1807-1850). Opere di artisti bolognesi nelle Collezioni del Gabinetto dei Disegni e delle Stampe delle Gallerie degli Uffizi, Tesi di specializzazione, Università di Bologna (2018-2019), relatore prof. Marzia Faietti, correlatore dott.ssa Roberta Aliventi; Da Antonio Basoli a Luigi Busi, Bologna... Ottocento senza Macchia!, catalogo della mostra a cura di Claudio Poppi, 2005, Bologna, 2005; Pelagio Palagi pittore. Dipinti dalle collezioni delle raccolte del Comune di Bologna, catalogo della mostra a cura di Claudio Poppi (Bologna, Galleria d’Arte Moderna), Milano,1996;  Carlo Poppi, Pelagio Palagi: un pittore romanticamente accademico, in Pelagio Palagi alle Collezioni Comunali d’Arte, mostra a cura di Carla Bernardini (Bologna, Palazzo Comunale), 2004; Antonietta De Fazio (a cura di), Catalogo della Quadreria. Accademia di Belle Arti di Bologna, Rimini, 2012; Luigi Busi: l’eleganza del vero (1837-1884), catalogo della mostra a cura di Stella Ingino (Bologna, Palazzo d’Accursio 2018-2019), Bentivoglio, 2018; Ilaria Chia, Atmosfere letterarie nella pittura bolognese del secondo Ottocento, in Da Bertelli a Guidi. Vent’anni di mostre dell’Associazione Bologna per le Arti, mostra a cura di Stella Ingino e Giuseppe Mancini (Bologna, Palazzo d’Accrusio, 8 dicembre 2019 - 16 febbraio 2020), Bentivoglio, 2019; Antonella Mampieri, Giacomo De Maria (1760-1838), Bologna, 2020;  Biblioteca Italiana o sia Giornale di Letteratura, Scienze ed Arti, anno XIII (1828), Milano; Giacomo Lechi, Adriana Conconi Fedrigolli, Piero Lechi, La grande collezione. Le Gallerie Avogadro, Fenaroli-Avogadro, Maffei-Erizzo: storia e catalogo» 2010; Antonella Mampieri, Cincinnato Baruzzi (1796-1878), Bologna, 2014.