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Il gioco del pallone

1555 | 1946

Schede

Il gioco “classico degli italiani” come lo definì lo storico del Rinascimento Jacob Burckhardt ha probabilmente antiche origini. Vari indizi fanno però ritenere che abbia raggiunto un grado di formalizzazione elevata solo nell’epoca rinascimentale. Lo testimonierebbe anche la pubblicazione, nel 1555, del primo trattato conosciuto: Trattato del giuoco della palla di Messer Antonio Scaino da Salò, In Vinegia, Appresso Gabriel Giolito De’ Ferrari et Fratelli. Inizialmente praticato all’interno dei palazzi e riservato alle classi nobiliari, il gioco si trasferisce, a partire dalla fine del Seicento, nelle piazze dei centri cittadini. Già da questo periodo alcuni documenti ci testimoniano che il gioco era praticato da professionisti e la forma di contesa più comune era quella che veniva ingaggiata fra cittadini che investivano somme considerevoli di danaro per procurarsi i più valenti campioni. Nelle cronache vengono ricordate con particolare enfasi le disfide fra bolognesi e fiorentini e quelle fra genovesi e milanesi con forti premi in palio.

Tuttavia, a partire dal Settecento, non sono solo i grandi campioni a contendersi le partite. Il gioco infatti coinvolge un numero di appassionati sempre più ampio fino a divenire, per le cittadine del centro e del Nord della penisola italiana, uno dei momenti più importanti della socialità ludica urbana. In questa metamorfosi la piazza diviene il luogo di elezione del gioco e il coinvolgimento popolare che questo provoca è testimoniato anche da proteste, sotto forma di petizioni scritte, che i cittadini avanzano per il disturbo che il gioco arreca. Processi e vertenze per danni provocati alle case, impedimenti al transito e agli accessi, liti fra i giocatori e fra il pubblico testimoniano l’elevato indice di popolarità di questo gioco nel Settecento. A dirimere le controversie che sorgevano le autorità cittadine emettevano spesso sentenze a favore dei giocatori, tanto più che il gioco era protetto dalla consuetudine dell’immemorabile, un diritto in base al quale se i giocatori potevano dimostrare che in una determinata piazza si era da lungo tempo giocato, lo si poteva considerare come una consuetudine inalienabile. Le autorità proteggevano il gioco presumibilmente convinte della sua utilità come deterrente contro il disordine sociale. Per questo talvolta non solo finanziavano l’organizzazione di partite ma esigevano che gli organizzatori ingaggiassero valenti professionisti affinché il pubblico non si sentisse defraudato.

Il cambiamento fisico del luogo di svolgimento del gioco, dai palazzi nobiliari alle piazze, procede di pari passo alla sua metamorfosi sociale: “da svago aristocratico e riservato ai giovani di nobili natali si trasforma in passatempo borghese e popolare”. Già nel Settecento, ad esempio, vari documenti ci testimoniano che la discriminante all’accesso al gioco non è più, come in precedenza, l’appartenenza sociale, bensì l’abilità del giocatore. La definitiva popolarizzazione del gioco avviene tuttavia a partire dai primi anni dell’Ottocento, allorché dalle piazze si trasferisce negli sferisteri, vere e proprie anticipazioni degli stadi dell’età contemporanea. Questo nuovo cambiamento del luogo fisico del gioco, favorito e incoraggiato dalle autorità pubbliche, fu certamente determinato dalla volontà di liberare le piazze dagli inconvenienti che precedentemente lo svolgimento delle partite aveva provocato, ma fu determinato anche dalla volontà di formalizzare compiutamente un gioco divenuto assai popolare. Sferisteri monumentali vennero costruiti, solitamente a spese delle autorità municipali, a Macerata, Firenze, Bologna, Torino, Forlì, Perugia. Altri, di minor mole, sorsero un po’ ovunque nelle cittadine minori dell’Italia centrale e settentrionale, adattati a ridosso delle antiche mura cittadine, indispensabili supporti per lo svolgimento del gioco.

L’Ottocento è anche il secolo dei grandi campioni celebrati da poeti e letterati: da Carlo Didimi, cantato da Giacomo Leopardi, a Domenico Bassotto, Eugenio Cerrato, Bruno Banchini, Giovanni Ziotti e numerosi altri immortalati da Edmondo De Amicis nel romanzo per antonomasia del gioco del pallone: "Gli azzurri e i rossi". A partire dagli ultimi anni dell’Ottocento inizia il lento ma inesorabile declino del gioco la cui popolarità si restringe gradualmente ad alcune zone del Piemonte, delle Marche e dell’Emilia Romagna. Certo è che a Bologna, ancora nel primo dopoguerra, il gioco del pallone doveva attingere livelli di elevata popolarità. Lo conferma, oltre alle cronache dei giornali locali, anche un testimone d’eccezione come Leo Longanesi che in  "In piedi e seduti" ricordava che nel 1921 “Dalle finestre della nostra casa in via Irnerio…vedevamo ogni domenica l’interminabile folla che gremiva l’Arena del Giuoco del Pallone … A tratti acclamazioni compatte come tuoni salivano al cielo lasciando nel cuore delle donne di casa mia un’eco di paura”. 

Passione antica del resto quella bolognese per il gioco del pallone. A partire dal ‘700 le cronache ci informano del suo svolgimento nella Piazza del Mercato dove, in occasione delle partite, si elevano steccati, si ergono gradinate, si stabilisce il prezzo d’ingresso, si emanano norme di contegno per spettatori e giocatori e viene chiamata la forza pubblica a vigilare. Famose in quella sede alcune disfide come quella, svoltasi nel settembre 1770, fra una squadra mista di bassanesi e senesi contro bolognesi. Ma soprattutto accese, se si presta fede alle testimonianze dei cronisti dell’epoca, furono le partite che i giocatori felsinei ingaggiarono contro quelli fiorentini nel corso dell’estate del 1762. Nell’agosto di quell’anno infatti la città di Bologna reclutava il veneziano Biagio Natali, l’anconetano Nicola Ferrari e il romano Vincenzo Frusetta per contrapporli alla squadra di Firenze che schierava Butti, Migliorati, Trinchiati e Boni. E l’attesa per quella partita doveva veramente essere grande se, come ci informa il Galeati: “Il primo giorno che giocarono […] vi fu un gran concorso di popolo; alla battuta e rimessa avevano fatto li palchi e nel fianco fecero ancora palchi sovra cavalletti e scale una contro l’altra. Le finestre si pagano sino a sei paoli l’una. Vi erano li soldati svizzeri alle porte affinché la nobiltà potesse entrare con comodo, con sinfonie di trombe prima e dopo del gioco”. La partita si risolse a favore dei bolognesi per venti giochi contro dodici e gli sberleffi di un anonimo rimatore, che non solo inneggiava ai vincitori ma motteggiava gli sconfitti, ci restituisce il clima partigiano del periodo:

Fiorentini sguaiati/ Tornate svergognati! dell’Arno sulle sponde/ tuffatevi nell’onde! per schivar fischiate! le beffe e le risate/ dei vostri cittadini/ cui sciupate i quattrini.

La partita ebbe tuttavia un seguito nella rivincita che i bolognesi concessero ai fiorentini il 4 settembre dello stesso anno. In quella occasione i fiorentini si aggiudicarono la partita per venti giochi contro otto. Nella seconda metà del Settecento Bologna non solo ospitava giocatori forestieri ma era anche un vivaio quanto mai prolifico di campioni del bracciale. Questo, almeno, se si presta fede al poemetto in endecasillabi di Jacopo Taruffi "La Montagnola di Bologna", composto nel 1780, nel quale l’autore, oltre a citare vari campioni che si erano esibiti a Bologna, enumerava, “fra il fior de’ più moderni atleti bolognesi”, Livizzani, Gambalunga, Pizzi, Barbieri, Mondani, Poggi, Mazza.

Ma è soprattutto nei primi decenni dell’800 che viene compiutamente perfezionata la “formalizzazione” del gioco del pallone. Nel 1821 viene infatti costruito lo Sferisterio nel quale si esibiranno alcuni tra i massimi campioni del bracciale. E, fra questi, quel Carlo Didimi massimo campione fra il 1820 e il 1830 al quale Leopardi aveva dedicato la canzone A un vincitore nel pallone. La popolarità dello Sferisterio bolognese ci è anche testimoniata dall’etichetta di “Università del bracciale” che, non senza enfasi, i cronisti gli attribuirono. In realtà, già attorno al 1850 Bologna divenne uno dei luoghi in cui il gioco del pallone suscitava animosità e fazioni difficilmente riscontrabili in altri contesti. Già nelle prime gazzette locali, le cronache delle disfide venivano commentate in toni accesi. Ai due fra i più famosi campioni del bracciale del periodo, Cuccianti e Maestrelli, "L’osservatorio, giornale artistico, teatrale, d’industria e varietà", dedica ampio spazio nel decennio compreso fra il 1850 e il 1860. A restituirci il clima partigiano di quel periodo, una lunga satira pubblicata su quel giornale il 17 settembre del 1851. In essa, un anonimo rimatore restituiva il clima di acceso agonismo che i due campioni suscitavano:

In campagna ed in cittade, / Nelle case e per le strade, / Nei negozi e in ogni sito, /Per più mesi avrete udito / Favellar da questi e quelli / Di Cuccianti e Maestrelli, /Talchè proprio una mania / Riscalda la fantasia / D’ogni ceto di persone! Che parlando di Pallone / Stavan l’ore in libero crocchio! Senza battere mai l’occhio.! / Nium da mane in sino a sera! Ritrovar sapea maniera! Di tenere altro discorso! / E se andavi in quel del Corso / o in qualunque altro caffè,  Non potevi per mia fè / Viver questo un sol momento / Senza avere il bel contento / Di sentirti ad intuonare: ! […]! Quel Cuccianti ha un gran valore, / E’ un sicuro battitore! / L’altro è ver, conosce il gioco, Ma resiste solo per poco! Ch’è di fibra delicata / Va ben presto alla suonata!!! 

Fra il 1872 e il 1882, tramontati ormai gli astri di Cuccianti e Maestrelli, gli entusiasmi dei bolognesi si riversarono sul piemontese Domenico Bassotto che, come declamava un altro anonimo rimatore:

Quand’ei di punta ribatte il pallone, Qual rocca il corpo suo, fermo restava! E come palla uscita un cannone! Il tondo cuoio in guadagnante andava.

Ma fu a partire dagli anni ’80 che lo Sferisterio bolognese si accese per le disfide appassionate fra due dei massimi campioni di quel decennio: Ziotti e Banchini. In particolare nelle estati dal 1884 al 1887 l’arena bolognese si affollava di spettatori che “Il Resto del Carlino” calcolava fra i quattro e cinquemila : questi seguivano le disfide fra i due campioni che duravano giorni interi in un susseguirsi di vincite e rivincite. Il tifo dei bolognesi raggiunse tuttavia il culmine nell’estate del 1885. “Il Resto del Carlino” seguiva con una rubrica quotidiana le partite, fornendo gli esiti degli incontri, registrando le intemperanze degli spettatori e il tifo per l’uno o per l’altro dei giocatori. Il clima divenne tuttavia incandescente allorché – e successe per quasi due mesi di seguito con una cadenza bisettimanale – ad affrontarsi erano Ziotti e Banchini. I tifosi si erano divisi in due contrapposte fazioni. Il rione popolare del Pratello, schierato a favore di Banchini, accusava i supporters di Ziotti, del più altolocato quartiere di San Pietro, di puzzare di aristocratico. Da cui l’epiteto di milurdein (piccolo milord) contraccambiato dagli ziottisti con nomignolo di spometi. Ma la contrapposizione delle due tifoserie non terminava nello sferisterio: cortei cittadini, scritte sui muri, risse fra le opposte fazioni inneggiavano ora all’uno ora all’altro dei due campioni del bracciale. E, ovviamente, secondo una pratica ormai collaudata, anche le rime cantavano ora le virtù di Banchini:

il novo atleta […] / quando la brama di possenti onori / così l’incalza che stupendo innova / di Roma antica i classici splendori ora quelle di Ziotti “maestro per l’occhio destro.

La polemica toccò il culmine, a stagione ormai terminata, quando un cittadino bolognese inviò una lunga lettera a “Il Resto del Carlino” nella quale argomentava sulle superiorità di Ziotti nei confronti di Banchini. Anzi – secondo quella lettera – la rivalità fra i due campioni non aveva motivo di sussistere data l’incontestabile superiorità di Ziotti. Ziotti – argomentava la lettera – "possiede […] moltissima agilità ; ha il senso del tempo quasi perfetto, ha un occhio di cui mai si vide l’uguale ed ha anche, benché in meno grado, forza fisica tale da permettergli di fare delle splendide volate di rimessa […]. Ziotti è in ogni luogo dello steccato: sempre presente, sempre pronto.” Ovviamente la lettera si concludeva con una inevitabile annotazione sulle scarse qualità di Bianchini “che gli difetta l’occhio e la qualità”. Due giorni dopo il quotidiano bolognese ritornava sull’argomento dichiarando che numerose erano state le proteste ricevute per quelle lettere e pubblicava selezionandola fra le molte pervenute una seconda che prendeva invece le difese di Banchini. Il quale, secondo il suo tifoso, godeva di una ben più ampia popolarità del rivale. Infatti, esordiva la lettera, “Chi ha mai visto Ziotti portato in trionfo sino a casa, essere come il Banchini doversi presentare alla finestra, mentre, in basso, una folla acclama e getta i cappelli in aria? E tale popolarità derivava appunto dall’essere un vero, un proprio atleta del quale non si poteva non ammirare la bellezza svelta e in un tempo composta”. Le disfide fra Ziotti e Banchini rappresentano il culmine della parabola ascendente del gioco del pallone. E’ pur vero che a Bologna i campioni del bracciale continueranno le loro disfide ancora per decenni. Tuttavia, a partire dai primi anni del secolo, una nuova moda inglese, il foot-ball, avrebbe definitivamente soppiantato, nella passione dei bolognesi, l’antico gioco del pallone.

Il gioco e le sue regole

Il campo da gioco e l’attrezzatura. Il campo è lungo tra i 90 e i 100 metri ed è largo tra i 16 e i 20 metri. Un muro di appoggio alto 20 metri circa, è posto su uno dei lati lunghi. Ad ogni angolo del campo una antenna segna il limite del gioco. Il terreno da gioco è diviso in due parti uguali, la battuta e la rimessa, dal cordino, normalmente posto a terra oppure, in una variante, sospeso in aria a 4 metri d’altezza. Il pallone è di cuoio con camera d’aria interna, il diametro varia, a seconda delle zone e del pericolo, tra i 10 e i 15 centimetri. Ad ogni rimessa in gioco deve essere gonfiato di nuovo dal pallonaro. Il bracciale è di legno, ricavato da un unico pezzo con l’aggiunta di rialzi a punta di diamante, e pesa circa due chili; la mano vi si introduce fasciata per proteggerla dai colpi.

I giocatori. Sono generalmente tre per ogni squadra, caratterizzati da una fusciacca in vita, azzurra o rossa. Il battitore mette in gioco il pallone dal fondo del campo, prendendo lo slancio dal trappolino, una pedana inclinata lunga tre metri. La spalla è di sostegno al battitore ed il terzino, di solito il più giovane e veloce, sta più vicino al cordino. Il mandarino interviene per lanciare la palla ai battitori da una distanza di circa quattro metri. Un chiamatore di punti o cacciarolo, sta sulla linea del cordino insieme a uno dei tre membri della giuria.

La partita. Il punteggio si calcola in base ai falli, ad esempio quando il pallone esce dal campo lateralmente o al di sopra del grande muro, e quando non supera la linea mediana o non viene ribattuto. E’ invece punto quando il pallone esce dalla linea di fondo, all’interno delle antenne, per mezzo della volata. Ogni squadra batte per due giochi di seguito, dopo i quali lascia il posto agli avversari. Il gioco è vinto da chi raggiunge prima sessanta punti, divisi in quattro quindici. La partita termina dopo un numero prefissato di giochi. In alternativa si pone un limite temporale di circa due ore, scaduto il quale si proclama ad alta voce La Dama e vince la squadra che in quel momento è in vantaggio. Diverse varianti sono state introdotte nel gioco, nel corso dei secoli e a seconda delle diverse zone.

Testi di Stefano Pivato tratti da Alle origini dello sport. Il gioco del pallone prima del calcio, Bologna, Museo del Risorgimento, 1995. Trascrizione a cura di Loredana Lo Fiego.