I Giambardi della Sega

I Giambardi della Sega

1880 | 1905

Scheda

Alfredo Baruffi (1876-1948), alias Barfredo da Bologna, Mimo, Giustin da Budiara, ragioniere della Cassa di Risparmio, ma anche notevole illustratore liberty (sua è la grafica di importanti riviste del periodo, come "Bologna che dorme" e "Italia ride"), dà alle stampe il volume "I Giambardi della Sega", rievocazione della bohème artistica e della goliardia bolognese a cavallo tra l'Otto e il Novecento. Avrebbe dovuto essere il primo di una serie di quattro tomi, formanti un ciclo dal titolo "Un quarto di secolo a palazzo Bentivoglio". L'associazione dei Giambardi (o Gambardi) - sorta di accademia "senza ordinamento, senza cariche e senza sede" - fu proclamata "a gran voce" in una riunione di artisti dal pittore Achille Casanova, collaboratore del restauratore di monumenti Alfonso Rubbiani, al suono di "piatti, mestole, casseruole" (Testoni). Ne fecero parte artisti quali Alfredo Tartarini, Augusto Sezanne, Raffaele Faccioli. Dal gruppo dei Giambardi di Palazzo Bentivoglio nascerà poi un'altra associazione, l'Accademia della Lira, che fu "la più vacua e futile associazione che la paciosa mente dei più paciosi bolognesi abbia mai saputo inventare" (Cristofori). Tra il 1898 e il 1902 la Lira produce almanacchi, riviste e fogli d'arte, in cui si esprime il meglio del liberty bolognese. Oltre ai fondatori, vi disegnano Augusto Majani, Luigi Bompard (1873-1953), Ugo Valeri, Marcello Dudovich.

Nel 1913 Alfredo Testoni, in occasione della morte del suo 'diletto amico' Alfonso Rubbiani, ci consegna un vivace affresco sulla nascita dei Giambardi e della fluidità con cui nascevano amicizie e cenacoli culturali trasversali a qualsiasi ideologia: “Una sera, circondato dal fido nucleo d'amici, era seduto al suo solito tavolo del Caffè dei cacciatori Alfonso Rubbiani, che allora aveva già provato le disillusioni della vita giornalistica, quale direttore della neo-guelfa Pace. Il pittore Achille Casanova, che fu poi uno dei più degni suoi collaboratori nei lavori di restauro del tempio di San Francesco, con aria grave resa anche più solenne dalla lunga barba nerissima, si alzò in piedi e disse: - Propongo che tutti coloro i quali si trovano qui, siano chiamati Giambardi. Siccome tutto ciò che si diceva in quelle ore di una conversazione concitata, rumorosa e disordinata, non era mai presa sul serio, così quelle parole furono accolte da una risata generale e da grida: - Bene, bravo, accettato! - Ogni artista – continuò con voce poderosa il Casanova – deve essere Giambardo come nessun Giambardo non può non essere artista. - Approvato! - gridò uno dei presenti – ma chi sono questi Giambardi? - Non lo so. Nessuno lo sa, e appunto per questo è giusto che noi diventiamo Giambardi. Il nostro Rubbiani ne sarà il presidente. Acclamazione generale. Quella sera le consumazioni furono accresciute di qualche bicchiere di birra, che Iusfein, il vecchio cameriere dai piedi dolci servì con poco entusiasmo sicuro che per l'aumentato lavoro non sarebbero cresciute le “buone mani”. E le feste per insediare il presidente avvennero alla villa dell'avv. Raimondo Ambrosini, uno dei più fanatici amici degli artisti, frequentatore assiduo delle loro riunioni, felice di offrire tutto sé stesso per avere il vanto di sentirsi chiamare Giambardino.

Quella casa ospitale, fu messa addirittura a soqquadro dai bramati ma pericolosi ospiti. Tutto fu sconvolto per formare il salone del Consiglio e il trono presidenziale. Coperte da letto, lenzuoli, tavole, utensili di cucina per adornare le pareti di ben còmpositi trofei... d'armi! Il pittore Augusto Sezanne era stretto, raggomitolato in una coperta arabescata, come una mummia egiziana, lo scultore Enrico Barberi in un paludamento quasi greco con un berretto da turco, l'Ambrosini da soldato romano con un keppì della guardia nazionale, Alfredo Tartarini da moschettiere a scartamento ridotto, Raffaele Faccioli in un camice o meglio in camicia con uno spadone a tracolla e Alfonso Rubbiani avvolto in un bianco lenzuolo messo alla beduina. Si cantò il coro ufficiale che non è mai stato né scritto né musicato, con accompagnamento di piatti, mestoli, casseruole, e finalmente si incoronò il neo-presidente con una enorme corona intessuta di fiori raccolti... nell'orto. Passando per il capo gli sdrucciolò fino ai piedi. Tutto ciò, a raccontarlo adesso, può far torcere la bocca dei superuomini a una smorfia di compassione, ma bisogna riflettere che allora la vita dei giovani artisti, per fortuna, era ben diversa da quella immusita del giorno d'oggi.

Il Circolo Artistico che nel tempo di cui parlo era nella sua più piena bella fioritura, serviva a stringere in amichevole dimestichezza letterati, musicisti, pittori, scultori. Pensate solo ai nomi dei giovani usciti da poco dall'Accademia di Belle Arti: Paolo Bedini, Luigi Serra, Augusto Sezanne, Enrico Barbéri, Emanuele Brugnoli, Mario De Maria, Silvio Gordini, Alfredo Tartarini, Luigi Busi, Gaetano Palazzi, Giacomo Lolli, Raffaele Faccioli, Giuseppe Tivoli, Coriolano Vighi ed altri, altri ancora... E chi può ricordare tutti i nomi dei letterati, musicisti, che frequentavano le sale del Palazzo Cataldi, da Alfredo Oriani a Luigi Mancinelli, da Alfonso Rubbiani a Olindo Guerrini, da Enrico Panzacchi a Guglielmo Zuelli?... Ogni sera s'inventava qualche cosa di burlesco per non perdere l'abitudine di fare... del chiasso. Tutto serviva allo scopo. Corrado Ricci parodiava le conferenze di Marco Minghetti, Enrico Panzacchi improvvisava un discorso in opposizione alle idee di quelle che aveva sostenuto in Consiglio Comunale, Luigi Mancinelli dirigeva concerti, de' quali gli strumenti più intonati erano trombe di cartone, Guglielmo Zuelli e Luigi Malferrari musicavano canzonette bolognesi, che si cantavano ad alta notte sotto le finestre delle modistine, che apparivano dietro i vetri a sorridere e a ringraziare. Ecco per esmepio uno dei tanti spettacoli serali. Coriolano Vighi per mezzo di una lanterna magica fece una rivista dei lavori esposti dai soci all'Esposizione di Belle Arti, parodiandoli con atroci caricature. Una giovanetta ammalata, distesa su di una chaise-longue, dipinta dal Faccioli, passava davanti agli spettatori con due gamine stecchite e così lunghe che uscivano dal bianco schermo per qualche metro prima che si arrivasse a vedere la testina di una ragazza tisica all'ultimo grado. Di un altro quadro apparivano solo dei libri disposti in lunghe scansie che occupavano l'intera tela e finalmente su di un minuscolo scrittoio, un grosso volume dietro il quale spuntava un ciuffo di capelli. Era una grande tempera, credo del Bedini, che l'autore aveva intitolata: Parini nel suo studio. Comparve anche una veduta di Bologna che, secondo il progetto di Alfonso Rubbiani, aveva adorni di merli non solo tutti gli edifici, ma anche i lampioni a gas, i monumenti vespasiani e i tramvia a cavalli. Quando si dovette eleggere il Presidente del Circolo, ad una voce si fece il nome di uno dei più noti e simpatici artisti, bolognese di adozione, Pietro Neri-Baraldi, che i suoi lauti guadagni come celebrato tenore aveva fatto sfumare del tutto, badate del tutto, per favorire amici, conoscenti, ignoti che si rivolgevano a lui, riducendosi così a vivere stentatamente la vita. Ma la povertà non lo aveva per nulla mutato. Cercava con la correttezza del portamento e una cura scrupolosa di nascondere la modestia del vestire, e appariva sempre allegro, da parere l'uomo più contento di questo mondo e sempre in mezzo agli artisti. E gli artisti lo proclamarono il loro presidente. Ne fu beato, e al banchetto, che gli fu offerto per festeggiarlo, egli si alzò per ringraziare commosso fino alle lagrime. Non era certo un grande oratore e incominciò: - Per questo meritato onore... - ed ebbe un momento di sospensione. Enrico Panzacchi che era accanto a lui, gli suggerì subito: “la quale...” Egli si confuse di più e tra il quale e la quale si arenò del tutto. Fu quello, credo, il suo più lungo discorso ufficiale, ma quanto buonsenso, quanta bontà in quel bel vecchio dal roseo volto rotondo, dai capelli bianchi, dagli occhi chiari e sorridenti! Accoglieva la povertà rassegnato perché viveva tra i giovani che gli volevano bene, e si sentiva giovane egli pure.

Passarono gli anni. Il Circolo a poco a poco decadde e gli artisti si divisero in varie compagnie. Quelli che avevano già dato sicure prove del loro ingegno e della loro valida attività, pur di radunarsi alla sera, andavano portando in giro il loro titolo di Giambardi per i vari caffè, da quello della Barchetta, a quello del Corso, dal caffè delle Scienze a quello dei cacciatori, sempre pregati, con bel garbo, di sloggiare non solo per le troppo allegre e rumorose discussioni, invano tenute a freno dalla compostezza del Rubbiani, ma anche per la loro smania di riempire di disegni a matita e peggio con l'inchiostro i tavoli di marmo tra la prorompente indignazione dei camerieri. Una sola sera per settimana il giovedì, essi prendevano un'aria seria cercando perfino di imitare nel vestire il loro capo che era sempre irreprensibile nel suo elegante abbigliamento, per andare in casa dei conti Cavazza, dove si raccoglieva il fior fiore degli scienziati e degli artisti non solo dimoranti a Bologna, come ad esempio il Carducci, ma di quanti venivano fra noi dal Fogazzaro al Bistolfi, dal Sacconi al Calderini, dallo Ximenes a Cesare Pascarella. E certo fu là, in quelle sale dai Giambardi stessi finemente dipinte, fra quelle dotte e piacevoli riunioni che Alfonso Rubbiani accarezzò con più ardore il suo grande sogno di ridare a Bologna l'antica sua veste, mettendo in luce tante bellezze d'arte per ignoranza nascoste o per ignavia deturpate e lasciate cadere in rovina. E gli apparve subito davanti agli occhi il tempio di San Francesco, quasi nascosto da misere casupole e da un indegno baraccone di legno che serviva da mercato delle frutta. Ridotto con vera profanazione a servire nel 1866 da magazzino militare, fu ridonato, è vero, al culto nel 1881 per le pazienti premure di Nerio Malvezzi, di Francesco Cavazza e di Giuseppe Grabinski, ma non bastava: doveva risorgere alla sua originaria bellezza. E il Rubbiani non ebbe più tregua fino a che, presa in affitto una malandata botteguccia a lato della chiesa, chiamò attorno a sé i fidi Giambardi, fra i quali il Collamarini, il Casanova, il Sezanne e il Tartarini, e con una povertà di mezzi, davvero francescana, cominciò a tracciare in linee e disegni il risultato de' lunghi suoi studi per giungere poi al mirabile lavoro di ricostruzione, che forma oggi l'ammirazione dei forestieri e il vanto di noi bolognesi”.

In collaborazione con Biblioteca Sala Borsa - Cronologia di Bologna.

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