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I dipinti del Museo civico del Risorgimento

1796 | 1965

Schede

"Venne il 1888, l’anno nel quale Bologna […] apriva una Esposizione Emiliana di agricoltura e industria, alla quale, ad imitazione di Torino, univa una raccolta delle patrie memorie da esporre in vasto edificio, che si sarebbe chiamato Tempio del Risorgimento… Fu assegnato alla Commissione pel Risorgimento il quartiere cardinalizio sul colle di San Michele in Bosco … Il grande salone della Biblioteca fu serbato a Bologna e le altre salette, abitate oggi dagli ammalati, furono destinate a raccogliere le memorie delle altre città dell’Emilia e della Romagna, le quali tutte avevano mandato un proprio rappresentante, affnché in ciascuna di codeste sale fossero per il meglio disposti in speciali vetrine i documenti, ed appesi alle pareti quadri, ritratti e trofei splendidi d’armi e bandiere." (Raffaele Belluzzi in Catalogo illustrativo dei libri, documenti ed oggetti esposti dalle provincie dell'Emilia e delle Romagne nel Tempio del Risorgimento italiano, 1897)

Alla rivoluzione politica d’Italia, che percorse tutto il XIX secolo portando all’unificazione il paese, presero attivamente parte tanti artisti, che espressero in questo modo la propria passione politica e patriottica. E ancora più numerosi furono coloro che si cimentarono, sia contemporaneamente agli eventi e, in modo particolare, dopo di essi, con la produzione di opere che eternassero nella memoria collettiva personaggi ed avvenimenti del Risorgimento.

All’atto di formazione dei Musei del Risorgimento molte di queste opere furono donate o acquisite dalle amministrazioni pubbliche, per entrare a far parte dei percorsi della memoria che si andavano allestendo. Molto spesso in queste raccolte confluirono opere di poco pregio, dovute alla produzione immediata e quasi seriale che venne dedicata al ritratto dei personaggi più noti e agli avvenimenti più famosi, in competizione con la neonata fotografia. Accanto a questo materiale di scarsa qualità artistica, ma comunque altamente significativo sul versante della memoria storica, si affiancarono, fortunatamente, anche opere di artisti di valore, anch’essi cimentatisi con ritratti, battaglie, episodi civici, memorialistica in genere; produzione che seguì le consuete strade per l’ingresso nei Musei, ovvero donazioni ed acquisti. I Musei del Risorgimento si trovarono così a esporre, come descrive Raffaele Belluzzi nella prefazione citata in apertura, anche quadri e ritratti d’importante valore artistico. In questa sede si è dato risalto ai più importanti dipinti in possesso del museo felsineo, con qualche accenno alle correnti artistiche espresse dagli autori. Il patrimonio pittorico del Museo bolognese è costituito da circa 110 dipinti a olio, alcune oleografie e una serie di piccole miniature, queste ultime conservate presso la biblioteca. I dipinti si possono suddividere in tre generi, sempre a sfondo mitografico risorgimentale: scene di genere, intervallate da eventi e loro celebrazione, battaglie e ritratti. Nell’Italia del secondo decennio del XIX secolo, attraverso le istanze del movimento storico-romantico, che aveva eletto i temi storici e letterari di storia patria del Medio evo e dell’Età moderna quali exempla della realtà politica e sociale, era consentito ad un ampio ventaglio di linguaggi artistici – dalla poesia alla letteratura, dalla pittura al melodramma – la possibilità di esprimersi con discreto aggiornamento nei confronti delle poetiche romantiche d’oltralpe, soprattutto tedesche, con cui la corrente romantica condivideva il comun denominatore espressivo nella considerazione e nel palesamento dell’origine dei sentimenti, delle sfumature dell’animo umano, di un rinnovato misticismo e di un ormai radicato e diffuso senso di continuità della storia. Analogamente al tramontato neoclassicismo, che aveva assunto i temi di storia classica e mitologica greca e romana quali modelli in cui rispecchiare le virtù morali, il romanticismo storico elesse i periodi storici successivi come specchio in cui riflettere l’ansia di rinnovamento politico e autonomia nazionale, destinata a sfociare nelle guerre d’indipendenza e nell’unificazione del territorio italiano.

Riferimenti fondamentali per i pittori bolognesi, che ritroviamo precipuamente nel nostro museo, furono l’area milanese con Francesco Hayez e quella fiorentina con Giuseppe Bezzuoli e Luigi Mussini. In modo particolare, furono gli avvenimenti del 1848 che diedero occasione agli artisti di cimentarsi in tematiche contemporanee di coinvolgente impatto emotivo, facendosi interpreti della realtà attraverso il nuovo linguaggio figurativo descrittivo e aneddotico, assolutamente privo di pathos e magniloquenza, nonostante la drammaticità dei fatti. A Bologna, un innovativo tipo di committenza borghese, che accordava il suo gusto alla pittura di storia contemporanea e risorgimentale, in cui si riconosceva indiscussa protagonista, favorita anche dalla costituzione della Società Protettrice di Belle Arti, fu il fertile terreno in cui operarono Antonio Muzzi e Napoleone Angiolini, entrambi cimentatisi con Il combattimento dell’VIII agosto alla Montagnola. Angiolini realizzò anche Ugo Bassi sui gradini di San Petronio (1850 ca.), che parrebbe essere il bozzetto per un dipinto di dimensioni maggiori. L’artista illustra con efficacia l’entusiasmo di popolani e borghesi provocato dalle parole del padre barnabita, risolvendo però la composizione ancora con stilemi tardosettecenteschi e gandolfiani che lasciano trasparire, in filigrana, un aggiornamento alla cultura artistica romana frequentata dall’Angiolini nel corso degli anni Venti. Stesso discorso vale per il bozzetto di Gaetano Belvederi, Ugo Bassi presso la colonna Pia (1850 ca.) che, con sommarietà esecutiva dovuta a un ductus pastoso e squillante, documenta, con dovizia di cronaca, un altro episodio della fortunata oratoria politica del Bassi dimostrando, nell’impostazione scenica, un taglio più fotografico e moderno rispetto alla veduta ‘per angolo’ realizzata dall’Angiolini. Nella Fucilazione di Ugo Bassi e Giovanni Livraghi (1850 ca.) il Belvederi si esprime, invece, con un linguaggio stilistico assai meno fresco, determinato da alcuni particolari esecutivi come la rozzezza dei corpi dei personaggi e la gamma cromatica acidula, che permea la scena di una fredda luce diffusa. I reali termini di confronto culturale erano, però, sempre con la Toscana, che proprio in quel decennio si trovava a essere palcoscenico degli sperimentalismi artistici più all’avanguardia, determinati dalla fitta rete di scambi con artisti francesi e dove, alla convivenza di poetiche naturaliste e puriste, si aggiungevano i nuovi stimoli dell’école di Barbizon, la cui ricerca diretta sulla realtà, sintetizzata nelle sue forme ed immersa in atmosfere di pieno sole, trovava già echi nella scuola di Staggia, frequentata da artisti come Ademollo, De Tivoli, Altamura, Banti, Cabianca e Signorini. Nel 1859, mentre a Bologna la Chiesa perdeva il suo potere temporale e gli austriaci venivano definitivamente espulsi dalla città, a Firenze accadevano analoghi rivolgimenti. In tale contesto veniva espletato il “Concorso di Ricasoli” in cui, per la prima volta in un’occasione culturale ufficiale e in conformità al bando di partecipazione, erano affiancati ai temi di storia del passato i soggetti tratti dalla storia più attuale, atti a celebrare gli ideali nazionalisti e la politica sabauda. La pittura di storia contemporanea trovava così la sua identità e il suo significato pedagogico, e la sua prima effettiva codificazione l’anno successivo, nella rappresentazione particolareggiata di fatti sempre volti a sottolineare le virtù e gli eroismi dei combattenti di ogni ceto dediti alla causa nazionale. Sempre nella città felsinea, nel 1860, aveva luogo la riforma delle Accademie per opera di Luigi Carlo Farini, che aveva previsto l’unificazione delle tre principali scuole di Parma, Modena e Bologna all’interno di un’unica Reale Accademia di Belle Arti per le province dell’Emilia, presieduta da Adeodato Malatesta, diretta da Carlo Arienti, cui si aggiunse il toscano Antonio Puccinelli a ricoprire la prestigiosa cattedra di pittura, divenendo così un importante anello di congiunzione tra la cultura toscana e quella emiliana.

La situazione artistica in città era determinata da tre correnti, riunite dalla comune ricerca sull’espressione del ‘vero’: quella reazionaria reiterata da Cesare Masini; quella filo-purista, di matrice selvatichiana, promossa dal Malatesta e dai suoi seguaci bolognesi, quali Alessandro Guardassoni e Giulio Cesare Ferrari, ed infine la ricerca sul «vero immediato» importata da Puccinelli, espressa stilisticamente in un delicato equilibrio tra esperienza macchiaiola e purismo formale neoquattrocentesco. In questa situazione si trovò a operare, nel corso degli anni Sessanta, Silvio Faccioli, artista non insensibile alle influenze stilistiche toscane mediate di Puccinelli, ma soprattutto folgorato dalla ricerca degli artisti macchiaioli, presenti a Bologna con le loro opere all’“Esposizione protettrice” del 1862. Nel suo quadro Ugo Bassi e Giovanni Livraghi condotti al supplizio (1863 ca.), la condanna dei due martiri è narrata visivamente come un fatto di cronaca, sottolineato dal taglio fotografico della composizione e dall’eccessivo indugio del pittore sulla caratterizzazione dei volti, quasi caricaturali. Assai differenti i due bozzetti preparatori in cui l’idea dell’artista è espressa con un linguaggio disinvolto, tipico di questi studi, dove la pennellata grassa e sfaldata abbozza con rapidità esecutiva il fulcro del dipinto: la figura di Ugo Bassi evidenziata dalla croce sull’abito talare e dalle mani incatenate. Nel bozzetto di proprietà del Museo del Risorgimento di Bologna il Faccioli ha immaginato una composizione meno scenografica di quella infine eseguita: vi è una maggior scioltezza negli atteggiamenti dei personaggi, tanto da creare un diversivo al punctum dell’azione con un colloquio tra una popolana e una guardia austriaca, e la totale assenza del lirico scorcio paesistico; mentre lo studio conservato alle Collezioni d’arte della Cassa di Risparmio di Bologna mostra l’idea compositiva ad una fase successiva, più aderente al quadro finito, da cui diverge solo in qualche irrilevante particolare. Allo stesso Faccioli è attribuibile anche il piccolo Guardia e Tamburino austriaci, studi per lo stesso dipinto e bozzetto cui sono collegabili sia iconograficamente, sia stilisticamente. Anche il toscano Alessandro Lanfredini ne La fucilazione di Ugo Bassi sceglieva, come il Faccioli, di rappresentare il martire dell’indipendenza in una fase estremamente icastica della sua drammatica vicenda: il momento successivo alla morte è descritto con pathos, ma scevro di quegli aspetti cruenti della realtà che la pittura di storia tradizionale desiderava accuratamente evitati. Il Lanfredini, allievo di Luigi Mussini, coniugava, in questo lavoro, numerose esperienze: ad un purismo formale, idealizzante la figura del Bassi riverso al suolo a guisa della Santa Cecilia di Stefano Maderno, aggiunge elementi cronachistici, di presa diretta ed improvvisa della realtà impaginata con taglio fotografico ed illuminata da effetti chiaroscurali decisi che risentono dell’esperienza verista di Domenico Morelli, ma soprattutto degli esiti di Silvestro Lega, intorno al 1860.

Assai differente il registro con cui Carlo Ademollo componeva il bozzetto e il quadro Ugo Bassi e la sorella Carlotta a Villa Spada (1866 ca.), che descrivono il momento dell’annuncio della sentenza di morte espressa dal Consiglio Statario. Lo studio, sommario nell’esecuzione ma già espressivo dell’idea definitiva, e il quadro finito s’inseriscono nel filone della cosiddetta pittura di genere in cui al valore edificante tratto da soggetti della contemporaneità si unisce la ‘poetica degli affetti’ legata alle espressioni emotive dei rapporti famigliari. L’Ademollo, che aveva avuto frequentazioni con gli artisti della scuola di Staggia e con i macchiaioli si ritrovava ad essere pubblicamente criticato da Telemaco Signorini per quest’opera ritenuta troppo convenzionale, di soggetto storico altamente edificante, ma ormai già passato e già mito. L’immediatezza del vero era volta alla sensibilizzazione emotiva, alla resa diffusa di quella ‘poetica degli affetti’ che connotava, al di là delle diversità stilistiche e temporali delle opere, la pittura di storia contemporanea. Ne sono un esempio le due versioni de La morte di Anita Garibaldi: quella realizzata da Ippolito Bonaveri, a metà del settimo decennio del XIX secolo, è la narrazione verista, storica e poetica del dolore di Garibaldi di fronte alla perdita della sua compagna. Il bozzetto fu probabilmente eseguito dopo La morte di Zerbino, Premio Grande Curlandese del 1851, in cui il pittore bolognese aveva svolto un analogo tema mortuario, ma di soggetto letterario. In esso si ritrova un impianto compositivo similare, ennesima testimonianza di come la pittura di storia risorgimentale si sia innestata su quella di storia di tradizione accademica, unendosi, in questo caso, a quella ‘poetica degli affetti’ legata a episodi storici e contemporanei di cui Domenico Induno fu il più fecondo rappresentante. A distanza di qualche decennio, Fabio Fabbi tradusse lo stesso soggetto con un idioma tipico della pittura di genere, ma con un’ascendenza del tutto felsinea e, in particolare, come un’ispirazione alla gamma cromatica dai toni spenti di Raffaele Faccioli. La morte di Anita di Fabbi è il bozzetto preparatorio per il quadro finito conservato a Firenze, presso l’Istituto del Risorgimento, realizzato all’inizio del XX secolo con accentuato verismo ed espresso con un linguaggio non lontano da quello fotografico. A un confronto, si nota come Fabbi sia rimasto fedele all’abbozzo originario, velocemente visualizzato con rapide pennellate dense di materia cromatica che assorbe i toni luministici più brillanti rispetto al quadro finito, movimenta le stoffe e sintetizza i volumi con poche linee.

Al bresciano Faustino Joli si deve la raccolta di costumi militari dei Corpi Volontari della guerra del 1848-49. Fervente patriota, Joli realizzò diversi Episodi delle Dieci giornate di Brescia del 1849 (1850, Brescia, Museo Civico del Risorgimento), cui i quadretti del Museo del Risorgimento di Bologna sono da porre in stretta relazione: si tratta di vivaci ‘cartoline’ in cui i figurini militari si stagliano contro pastosi e sfumati paesaggi di gusto pittoresco; piccoli ritratti carichi d’idealismo patriottico da relazionare ai coevi Legionari garibaldini alla difesa di Roma (1849, Milano, Museo del Risorgimento) di Girolamo Induno. Induno, anch’egli soldato e pittore, era in forze al corpo di spedizione sardo in Crimea alla metà degli anni ’50 tra le file dei bersaglieri e dal campo riportò una gran mole di schizzi degli accampamenti e dei corpi di spedizione occidentali: appunti dal vero che saranno utilizzati per piccole e grandi composizioni finite. Per esempio, in Accampamento, schizzo verista dal quale emerge la ricerca luministica tonale del pittore, si osserva la disposizione dei soldati e delle tende rigorosamente allineati lungo l’alta fortificazione e solo la presenza dell’ufficiale sdraiato indica lo scorcio prospettico del dipinto. Tale studio fa parte di un nucleo di quattro bozzetti18 in cui le valenze artistiche si uniscono a quelle documentarie: esiste una stretta corrispondenza tra essi e i disegni effettuati da Induno per le litografie che compongono l’album Ricordo pittorico militare della Spedizione Sarda in Oriente pubblicato a Torino nel 1857 per ordine del Ministro di Guerra per cura del Corpo Reale di Stato Maggiore. Sono bozzetti che assumono la connotazione di reportages bellici eseguiti dal vero, con una pennellata mossa, sintetica e spezzata; appunti pittorici di carattere fotografico e pittoresco al contempo, cui si accorda l’effetto di spontanea animazione resa ‘a macchie’ cromatiche, che assorbono e modulano una luce tonale, orientale, ispirata alla pittura di Eugène Delacroix. Il torinese Felice Cerruti Bauduc, pittore di battaglie, studiò approfonditamente la realtà militare per riproporla in pittura con significati alti e patriottici, che si estrinsecarono anche nel suo ruolo di valoroso ufficiale nelle numerose battaglie cui prese parte. Nel dipinto Passaggio del reggimento cavalleggeri Guide italiane sono abbozzate le divise militari create per l’esercito sabaudo nel 1861, e da ciò si deduce che l’episodio si riferisca alla guerra del 1866. In base a un confronto con le altre opere di Cerruti, si può notare come questo bozzetto – forse anch’esso un veloce ‘appunto’ schizzato nel corso della campagna militare – corrisponda più al sintetico linguaggio calcografico del poliedrico pittore, che a quello espresso nei suoi quadri finiti. Un altro episodio della Terza guerra d’Indipendenza è narrato con foga e dinamismo da Sebastiano De Albertis in Cavaliere piemontese inseguito da ulani austriaci, realizzato negli anni Ottanta del XIX secolo. Il dipinto illustra l’inseguimento di un cavaliere uscito allo scoperto, prima dell’attacco, per piantare lunghe lance davanti allo schieramento nemico atte a regolare la direzione e l’allineamento delle truppe avanzanti. La scena, vivace e ad alta spettacolarità, esprime l’energia e l’aggressività delle guerre patriottiche, ed è resa con pennellata fresca e scattante, riservata all’immediatezza di un pensiero visivo tradotto a olio che, per il suo carattere autonomo a effetto dinamico, anticipa di un ventennio, insieme al coevo Giovanni Boldini, le soluzioni dell’avanguardia futurista. Le varie tipologie formali della ritrattistica, dall’età medievale sino alla fine del XIX secolo, si rincorrono nel tempo a seconda della visione dell’artista sul soggetto da ritrarre: dal ritratto come status sociale ricco di riferimenti simbolici e morali e costruito in atelier al ritratto più psicologicamente introspettivo, espressivo dei sentimenti e delle umane passioni necessariamente colto dal vivo dall’artista.

Nel 1861, data cruciale in cui Vittorio Emanuele assumeva il titolo di Re d’Italia, il marchese Luigi Pizzardi, primo sindaco di Bologna dopo l’annessione al Regno d’Italia, maturava l’idea di realizzare nel suo palazzo di città un «Gran Salone del Risorgimento». Il marchese, che «diede recente splendida testimonianza di amore alle arti del bello allogando opere grandiose di pittura a sentimento italiano» (Masini, 1861), donò al Municipio di Bologna il Ritratto del re Vittorio Emanuele, dipinto da Carlo Arienti che elogiò il sovrano servendosi, per il volto, di una fotografia. Dalla fine degli anni Quaranta dell’Ottocento, le tecniche fotomeccaniche erano diventate per i pittori un mezzo importante e sempre più imperante ai fini dello studio della poetica del vero. L’Arienti, in questo caso, metteva a frutto i vantaggi del mezzo fotografico per ritrarre un modello impossibile da avere a disposizione in posa, riuscendo a cogliere la sfumatura psicologica del soggetto, reso con un naturalismo vibrante grazie alla pennellata morbida, d’influenza hayeziana, e all’uso sapiente della luce, nonostante esso appartenga strettamente alla tipologia del ritratto di Stato, celebrativo e un po’ retorico. La realizzazione del Salone iniziò con le decorazioni parietali affidate a Luigi Samoggia e con la commissione dei ritratti degli uomini illustri dell’antica storia d’Italia ai migliori artisti bolognesi dell’epoca come Alessandro Guardassoni (Pier Capponi che lacera i patti voluti imporre a Firenze da Carlo VIII) e Giulio Cesare Ferrari (Galileo Galilei). Al toscano Antonio Puccinelli e a Luigi Busi Pizzardi affidò poi rispettivamente il Ritratto di Carlo Alberto a Oporto e il Ritratto di Cavour e Minghetti, il primo realizzato con un’impostazione formale antiretorica e antitetica rispetto alla ritrattistica celebrativa tradizionale e terminato dall’artista intorno al 1865 e il secondo, terminato nel 1866, ricalcante le soluzioni compositive, luministiche e stilistiche del toscano, accentuandone ancor di più la derivazione fotografica. Gaetano Belvederi, stilisticamente in bilico tra tradizione e innovazione, realizzava il Ritratto di Napoleone III dimostrando di subire le suggestioni di Puccinelli, senza disancorarsi dai rigidi principi accademici. Il monarca francese è colto nell’atto di stilare l’alleanza con il Piemonte nel 1859, e il dipinto è realizzato con sintesi formale espressa con una durezza lineare dimentica del naturalismo locale, ma con grande attenzione ad emulare il purismo formalistico-disegnativo puccinelliano, anche se vi coniuga una citazione diretta del ritratto di Napoleone III eseguito dal pittore francese pompier Hippolyte Flandrin nel 1863 e un cromatismo acceso come in Paul Delaroche. Nel 1871 Pizzardi vedeva terminare l’ultimo quadro commesso a Luigi Busi, Vittorio Emanuele II e le annessioni, opera che costituiva il pendant contemporaneo a quello di storia moderna di Guardassoni, il Pier Capponi; entrambi allegoricamente, o palesemente, enfatizzanti l’orgoglio dei municipi italiani contro gli invasori stranieri e il compimento dell’unità d’Italia nelle annessioni delle città liberate allo Stato sabaudo.

Tra i ritratti conservati nel Museo vi è anche il Ritratto del marchese Pietro Pietramellara Vassè di Antonio Muzzi, effigiato in tenuta da tenente colonnello comandante il 1° Battaglione Bersaglieri del Reno 1848, portrait che si avvale e si accompagna al linguaggio della fotografia, anche se risolto con cromia calda e luce omogenea, tonale. Il dipinto segnalato come Ritratto del Marchese Tancredi Mosti Trotti, attribuito in passato a Adeodato Malatesta ma eseguito da Andrea Besteghi, è in realtà il bozzetto del Ritratto di Ferdinando Rasponi, oggi di proprietà della Provincia di Ravenna. Ritrae un ufficiale in un contesto araldico e celebrativo di ascendenza romantica inglese, con una stretta relazione tra il soggetto e il fondale naturalistico. Nell’ambito di una reiterata iconografia ritrattistica militare – il condottiero e l’attendente sullo sfondo in voga nella prima metà dell’Ottocento – esso è assimilabile al pregevole Ritratto di Livio Zambeccari in tenuta da Capo di Stato Maggiore di Bento Gonçalves da Silva realizzato da un anonimo autore. Due portraits in cui le vesti e gli oggetti assumono una particolare simbologia riferita al soggetto. Particolarmente curioso quello di Zambeccari di cui si conosce una variante che si differenzia da quella del Museo unicamente perché il conte è ritratto assai invecchiato e in abiti borghesi. Di Andrea Besteghi il Museo possiede un altro dipinto, il Ritratto di Luigi Scarani, eseguito con una presa più ‘vera’ del soggetto e con assimilazioni stilistiche di matrice accademica francese, rese con pennellata fine e morbida che omogenea la cromia alle sfumature luministiche che rischiarano il volto di Scarani, rilevandone l’intensità psicologica, mentre la compostezza della figura e l’eleganza dell’abito evidenziano la raffinatezza del soggetto contraffait al vif. Chiude la breve rassegna dei dipinti del Museo del Risorgimento l’opera culturalmente emblematica del bolognese Cesare Masini, accuratamente evitato da Pizzardi per il suo Salone a causa delle sue posizioni reazionarie, nonostante il prestigioso incarico di Segretario dell’Accademia: si tratta del Ritratto del pontefice Pio IX. Il papa è colto nell’atto di ricevere l’ispirazione divina che lo porterà a offrire l’amnistia, nel momento della sua salita al soglio pontificio. Come suo stile, Masini adottava in questo ufficiale portrait il classicismo lirico indotto dallo studio di Guido Reni, rivisitato nell’atteggiamento psicologico profetico, elevato verso l’alto e nella resa delle carni polite e levigate, quindi belle; i risultati di una teoria estetica accademica cittadina imperniata sul ‘vero scelto’ che solo con l’avvicendamento al ruolo del critico Enrico Panzacchi sarà ufficialmente aggiornata.

Claudia Collina

Testo tratto da: Mirtide Gavelli, Otello Sangiorgi (a cura di), Il Museo del Risorgimento di Bologna, Istituto per i Beni Artistici Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna, Bologna, Bononia University Press, 2013. In collaborazione con il Settore Patrimonio Culturale della Regione Emilia-Romagna.