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Giovan Francesco Gessi

1588 - 1649

Scheda

Giovan Francesco Gessi (Bologna, 1588 – ivi, 1649), pittore che opera soprattutto a Bologna, nasce in una famiglia nobile e, a seguito della sua precoce inclinazione verso la pittura, il padre gli consente di inseguire questa sua attitudine nella bottega di Giovan Battista Cremonini, che abbandona ben presto a causa del suo temperamento vivace. Successivamente Gessi prosegue il suo alunnato presso Denijs Calvaert ma è nel 1615 sotto la guida del Reni che il giovane disciplina la sua indole. Come sottolineato dal Malvasia nella sua Felsina pittrice, Gessi “solo nella scuola di Guido parve moderarsi alquanto, dal rispetto che comunemente portavasi ad un si grande maestro” e sempre dal biografo si apprende di quanto sia stato lungo e duraturo il rapporto di alunnato tra Reni e Gessi, il quale quasi trentenne ancora non rifiutava i lavori più umili affidati dal maestro. Precedente al percorso artistico che il Gessi intraprende nella bottega del Reni è la tela di San Carlo Borromeo tra gli appestati, dipinta nel 1612 per la chiesa della Madonna dei Poveri di Bologna. Nell’opera è evidente l’iniziale formazione tardomanierista con suggestioni caravaggesche (come nella colonna spezzata sul fondo e nella rappresentazione dei corpi), mentre in dipinti successivi c’è il progressivo avvicinamento dell'artista ai modi di Guido Reni. Questo percorso di maturazione è testimoniato da numerose opere a soggetto religioso, realizzate per le chiese bolognesi anche se, come spesso accade per gli alunni dell’officina reniana, le opere non sempre sono di facile attribuzione a causa della diligente mimica pittorica che gli allievi avevano per la tecnica del maestro.

Il Gessi in ogni caso si mostra artista versatile e indipendente, capace di un registro pittorico differente a seconda della commissione: riesce ad incarnare lo stile del maestro quando richiesto, ma è anche attento alle diverse suggestioni della scuola romana, entrando così in aperta polemica col classicismo reniano. Come nella tela rappresentante la Morte di San Rocco del 1616 (Bologna, Oratorio di San Rocco), un Gessi ormai ventottenne rappresenta l’esempio di una pittura matura in cui l’autore pur attento alle invenzioni reniane, mette in pratica la propria esperienza accentuando la drammaticità dell’evento con durezza rappresentativa. In effetti il fascio di luce calda, che attraversa in diagonale il fondo scuro, nulla centra con i dogmi di quella tradizione bolognese che trova i suoi modelli artistici dominanti nei maestri Reni e Carracci. Il Gessi qui ha la sfrontatezza di guardare oltre, attratto da quell’innovazione caravaggesca di studi sulla luce, che più volte ha potuto ammirare nel suo soggiorno romano nel primo decennio del seicento. Il fascio luminoso nelle tela del Gessi ricorda infatti le soluzioni sugli studi di illuminazione tipiche nelle opere del Merisi, che ritroviamo in esempi come la Vocazione di San Matteo (Roma, 1599-1600, San Luigi dei Francesi, Cappella Contarelli) o nella Conversione di San Paolo (Roma, 1600-1601, Santa Maria del popolo, Cappella Cerasi), opere queste sicuramente ammirate e apprezzate dallo stesso Gessi.

Tra il 1615 e il 1620, per volontà del Reni, il nostro è al Duomo di Ravenna, insieme a Giovan Giacomo Sementi e a Bartolomeo Marescotti, per la realizzazione della decorazione nella Cappella del Santissimo Sacramento. Anche se il progetto d’insieme è ad opera del Reni e la suddivisione delle parti eseguite da ciascun allievo è controversa, sembra ormai accreditata però l’ipotesi che al Gessi si deve la realizzazione dell’ampia cupola e l’esecuzione della pala d’altare con la Raccolta della manna, nella quale è evidente una scelta cromatica più cupa da parete dell’allievo, in contrasto (ancora una volta) con le tinte brillanti e smaltate del maestro. Nella cupola la mano del Gessi è predominante: nella figura del Cristo che sorregge la grande croce (al centro della composizione), nei tanti putti alati con i simboli della passione, nelle figure dei tre arcangeli e dei due grandi angeli in volo.

Nel 1621 il Gessi segue il Reni a Napoli con l’opportunità di un lavoro indipendente. Il prestigioso incarico riguardava la decorazione della Cappella del Tesoro di San Gennaro nel Duomo partenopeo ma il compito non fu mai assolto. Le cause del fallimento, come spiegate dal Malvasia, sono attribuite a delle minacce che i bolognesi ricevono da parte di alcuni artisti locali e ai dissapori coi committenti, che spinsero prima il maestro e poi l’allievo ad abbandonare il progetto. Infatti è probabile che la rinuncia all’impresa da parte di Guido sia dovuta anche ad una richiesta di rilancio contrattuale, a discapito di Francesco, pretesa che fu rifiutata dai committenti. Mentre per quanto riguarda il Gessi apprendiamo, sempre dal Malvasia, che nel tentativo di partecipare comunque a questa impresa, nel 1624 ritorna in gran segreto a Napoli dove iniziò a dipingere per la Cappella di San Gennaro come aiuto di Fabrizio Santafede (Napoli, 1560 - 1634). Il suo lavoro, però, non piace hai committenti che lo licenziano. Secondo il biografo quest’episodio determina la rottura definitiva dei rapporti, già compromessi, tra Guido Reni e Francesco Gessi. Del soggiorno napoletano resta, comunque, una tela raffigurante L’estasi di San Gerolamo (Napoli, Chiesa dei Girolamini) che il Gessi però consegna solo molti anni dopo la morte del committente Domenico Lercaro, tra il 1646 e 1648, cronologicamente e stilisticamente in stretta relazione con i dipinti per la Certosa.

Dopo Napoli segue il soggiorno romano e nel 1626 Gessi ritorna a Bologna infermo, dove inizia una campagna contro il suo maestro Guido Reni e tenta di competere con lui rinnegando i suoi insegnamenti. La pala votiva della Madonna col Bambino e San Michele Arcangelo, collocata sull’altare maggiore della chiesa di San Michele dei Leprosetti è eseguita dopo l’epidemia di peste del 1630-31. In quest'opera, ricca di toni caldi e luminosi, il Gessi sembra quasi porsi in contrapposizione con la celebre Pala della peste di Reni (Bologna, Pinacoteca nazionale); infatti mentre il maestro dipinge un corteo di santi, il Gessi raffigura solo l’Arcangelo Michele dai toni drammatici. Tuttavia a volte Gessi ritorna al classicismo del maestro, come nell’Allegoria della pittura del 1630 (Bologna, Cassa di Risparmio), probabilmente per volere dei committenti. In questa opera un puttino alato, sulla sinistra, cerca di incoronare un giovane con la tavolozza dei colori in mano, che personifica la pittura. Nei lavori dalla metà degli anni trenta in avanti, lo sperimentalismo del Gessi attraversa un’altra fase nella quale la struttura compositiva classicista si incontra con un gusto cromatico di derivazione toscana. L’impasto pittorico si fa più spesso e ricco di tonalità calde, come visibile anche nella tele della sua ultima fase di produzione.
Nel 1637 il Gessi opera per il Ducato estense; a Modena una Madonna e Santi (Galleria Estense) e a Reggio nell'Emilia esegue la pala con Madonna che affida il Bambino a San Francesco con San Michele Arcangelo (Palazzo Vescovile) e la Tentazione di San Tommaso (Museo civico). Nell’ultimo periodo lavorativo il Gessi approfondisce la componente naturalistica, di questa fase sono; la Madonna col Bambino e i Santi Lorenzo e Filippo Neri (1640) per la cattedrale di Faenza, la Pentecoste (1641) ora nella chiesa dei Santi Filippo e Giacomo a Bologna, la Chiamata degli apostoli Giacomo e Giovanni in San Giovanni in Monte a Bologna.

Alla fine del suo percorso creativo di rilevante importanza sono le due grandi tele dipinte per la Chiesa di San Girolamo alla Certosa di Bologna, rappresentanti la Pesca miracolosa (1645) e la Cacciata dei mercanti dal tempio (1648), entrambe per l’importante ciclo cristologico che i Padri Certosini commissionano ai più interessanti artisti che operano nella Bologna dell’epoca. Mettendo a confronto i due teleri, più che in altri casi, è evidente la versatilità del Gessi; che se nella Pesca richiama i caldi modi ferraresi, è nella Cacciata che esprime le sue più diverse esperienze artistiche dalle quali ha conferito quell’autonomia stilistica che lo allontana dalla sorte di semplice imitatore dei modi reniani che ha investito molti suoi colleghi. Il Malvasia, nella biografia su Francesco Gessi, si sofferma a parlare di queste due opere in maniera non troppo gentile. Afferma che il pittore ha ricevuto la commissione perché ha proposto un prezzo stracciato e che realizza due quadri “così insulsi, storpii, e scorretti, che non si può veder peggio”. Sempre il Malvasia scrive che per gli stessi padri certosini il Gessi realizza la Resurrezione di Gesù Cristo (1648-51, Bologna, Pinacoteca Nazionale) “che fu vantaggio per la sua reputazione non meno” e che la tela viene terminata dall’Albani. In questa opera l’impronta generale si deve al Gessi come anche la stesura della parte bassa del dipinto riconoscibile dal timbro cromatico che aveva contraddistinto i dipinti in Certosa e dalla rievocazione di elementi caravaggeschi insieme all’esperienza partenopea. La mano dell’Albani, invece, è riconducibile alla figura del Cristo risorto, negli angioletti in alto e nell’angelo seduto sul sarcofago; elementi questi trattati con una scelta cromatica smaltata e luminosa, molto distante dal registro cromatico del Gessi. Aldilà dei giudizi del biografo, sul discutibile operato del Gessi nelle opere per la Certosa bolognese, è probabile che il dipinto viene terminato dall’Albani a causa della sopraggiunta morte del pittore nel 1649. Francesco Gessi resta l’allievo al contempo più amato e più odiato dal Reni, come annota ancora una volta lo stesso Malvasia che questa volta però ne apprezza “una certa maggiore franchezza” rispetto al maestro e ancora ne sottolinea la “tenerezza così grande e (il) fresco impasto che più desiderar non si poteva” tanto da essergli invidiata dallo stesso Reni, in un approccio sempre sensibile alle nuove suggestioni che lo contraddistingue nella grande riforma della pittura bolognese del Seicento.

Benedetta Campo