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Edmondo Turtura e Gino Zanardi

1904 | 1948

Schede

Una vecchia fotografia, ritrovata dopo tanto tempo, mi ha ricordato alcuni momenti della lunga amicizia intercorsa tra il dottor Zanardi e mio padre molti anni fa. Si erano conosciuti appena il dottore era approdato a Medicina come ufficiale sanitario e si era rivolto a mio padre, meccanico, per una riparazione alla sua autovettura. Si erano capiti subito per l’affinità di alcuni aspetti fondamentali del loro temperamento, prima di tutto una sincerità estrema, poi la bonomia, l’ironia, il grande amore per la gente, specialmente per i bambini.

Divergevano, invece, nel loro orientamento spirituale: infatti il dottor Zanardi era laico o agnostico, come certe volte si definiva, mentre mio padre era cattolico praticante. Diversità che, tuttavia, non incrinavano minimamente il loro rapporto di amicizia, anzi, il loro confrontarsi dava la misura della fiducia e della stima reciproca: una ricerca dell’uomo nell’uomo. Quando affrontavano l’argomento e ne discutevano, a volte si accaloravano, ma poi tutto finiva con una pacca su una spalla e la solita frase conclusiva del dottor Zanardi: “Tu, Edmondo, sei il mio più grande nemico, ma il mio migliore amico”. Mio padre si commuoveva. La Chiara, invece, la sua fedele compagna, temeva che il suo “Dottore” soffrisse per questi scontri e pregò mia madre di dire al “signor Turtura” (sic) che non parlasse di certe cose con il dottore. Quando mio padre lo seppe, non vide l’ora di riferire tutto al suo amico, che rise a crepapelle pensando che la Chiara, nel suo zelo, li avesse considerati come due bambini da difendere. Ambedue amavano lo scherzo e si scambiavano battute, ognuno nel suo dialetto: mantovano l’uno e medicinese l’altro. Occasioni non ne mancavano. Mio padre raccontava volentieri un episodio accaduto nel lontanissimo 1926. Era morta la regina Margherita e nell’Italia monarchica di quel tempo i cittadini furono invitati ad esporre la bandiera abbrunata. In casa mia se ne occupò una zia che abitava con noi. Non avendo a disposizione qualche cosa di nero da annodare a mezz’asta, pensò di utilizzare un nastro che aveva ornato una corona per il funerale di uno zio. Le scritte erano state nascoste in mezzo ai drappeggi e tutto sembrava a posto. Ma fuori c’era vento. Subito la bandiera cominciò a sventolare e il nastro nero si stese in tutta la sua lunghezza, mettendo in mostra la dicitura: “I tuoi nipoti”. Il Dottore, che passava di lì, si fermò di botto e corse da mio padre, gridando: “Edmondo, non me l’avevi detto che eri parente della regina!”, divertendosi ancora di più nel vedere la sua meraviglia e il suo imbarazzo per quell’equivoco.

Con i bambini il dottore era sempre faceto. Gli piaceva stuzzicarli, metterli in difficoltà per poi riconciliarseli con una caramella. Anche a me e ai miei fratelli faceva sempre degli scherzi. Se per esempio riusciva a coglierci di sorpresa, ci urlava alle spalle: “C’è un ladro!”, e noi scappavamo. Lui ci rincorreva, prendeva in braccio la più piccola, mia sorella, e la gettava in aria. Noi guardavamo esterrefatti. A Medicina aveva istituito i campi solari, le colonie, la mensa scolastica che dirigeva con grande scrupolo, specialmente per quanto concerneva l’igiene. I suoi provvedimenti in caso di inosservanza delle regole d’igiene erano drastici, quindi molto temuti: se trovava un bambino con i capelli infestati di parassiti, lo faceva radere a zero seduta stante. Per il resto, invece, era tenero e comprensivo. Portava ai suoi piccoli ammalati dei giocattoli; a una bimba promise una volta una bambola con un vestito giallo, che fece confezionare a mia madre perché nei negozi di quel colore non l’aveva trovato. D’estate, quando aveva un po’ di tempo libero, faceva salire sulla sua auto ragazzi o persone qualunque e li portava al mare. Con mio padre lo faceva spesso. La domenica andavano invece sulle nostre colline e spesso raggiungevano chiesette solitarie, sperdute tra i boschi. A loro piaceva fermarsi sul sagrato dove di solito qualche persona s’attardava a parlare con il parroco dopo la recita dei vespri, mentre le donne si avviavano verso i loro casolari. L’approccio con quella gente semplice e cordiale era immediato. Ne uscivano racconti della vita in mezzo alla natura, delle coltivazioni prevalenti delle tradizioni e dei modi di dire in quei luoghi. A volte si fermavano a scattare qualche foto: piccolissime, in bianco e nero, con lo sfondo del Sasso di San Zenobio, di un monumento a un piccolo aereo caduto, del Passo della Raticosa con la vista, più sotto, di Pietramala, del panorama di Sassoleone dove gustavano dei tortelloni “buoni come fatti in casa”. Il Passo della Raticosa era la loro meta obbligata per vedere il passaggio della “Mille Miglia”, come lo era Faenza, alla fine di giugno, per La fira ed San Pir. Nella stagione fredda, andavano a volte a Bologna all’opera, oppure trascorrevano pomeriggi a conversare in casa.

Poi ci fu la guerra. Una parentesi tragica per tutti e per il dottor Zanardi aggravata dalla necessità di allontanarsi dal paese per sfuggire alle probabili rappresaglie da parte dei suoi avversari ideologici. In quel dolorosissimo periodo custodimmo in casa nostra tutto quello che la Chiara potè trasportare e che ritenne importante salvare da un’eventuale occupazione della casa. Passò la bufera, il Dottore ritornò a Medicina e pian piano, come tutti, si ritornò alla normalità. Ripresero anche le frequentazioni con mio padre, perché nulla era cambiato della loro amicizia. Pochi mesi dopo, in ottobre, mi sposai e naturalmente il dottor Zanardi fu uno dei più graditi invitati al rinfresco che si tenne in casa dopo la cerimonia. Per suoi impegni professionali arrivò in ritardo. Monsignor Vancini, altro illustre invitato, sedeva già vicino a noi sposi e lo vide subito appena apparve sulla porta. Lo chiamò immediatamente, con insistenza facendogli posto al suo fianco. Il Dottore gradì moltissimo quell’invito così spontaneo e cordiale che accettò di buon grado e così passò tutto il tempo del trattenimento in compagnia di monsignor Vancini con tanta soddisfazione e interesse. Nei giorni successivi, separatamente, ringraziarono mio padre che aveva dato loro l’opportunità di un incontro non programmato ma che per ambedue era stato piacevole e importante. Gli ultimi ricordi che ho del rapporto tra il dottor Zanardi e mio padre sono molto tristi. Erano gli anni 1947-48.

Il Dottore si ammalò e non potè più uscire di casa. Mio padre andava da lui tutte le sere e il pomeriggio dei giorni festivi. Molte volte erano presenti anche altre persone, ma il Dottore desiderava che mio padre fosse sempre l’ultimo ad andarsene. Parlavano di tutti i loro argomenti preferiti: i bambini, le loro gite, le persone che avevano conosciuto insieme. Poi la famiglia. Il dottor Zanardi era sempre stato uno spirito libero, infatti era single, ma aveva un alto concetto della famiglia. Parlava della sua d’origine, in particolare di sua madre; chiedeva di noi e si preoccupava perché mio padre non ci trascurasse rimanendo fuori casa tante ore per stare al suo capezzale. Intanto la malattia faceva il suo corso e il Dottore dovette trasferirsi all’Ospedale Malpighi a Bologna. Mio padre, che nel frattempo aveva avuto qualche impedimento di lavoro, non lo vide più. Io, invece, potei salutarlo un’ultima volta. Tramite una comune conoscente, mia coetanea, mi aveva fatto pervenire i suoi saluti e un messaggio. Mi precipitai da lui, anticipando la visita prevista per la domenica dopo con mio padre. Quando entrai, nella camera c’era una persona, che il Dottore pregò di uscire. Rimasti soli, mi ringraziò di esserci andata, poi mi attirò a sé e mi abbracciò. Sentivo sul suo viso il contatto della sua lunga barba che, quando eravamo piccoli, ci aveva tante volte strofinato in faccia per farci ridere. Soffriva, ma era lucido e calmo. Mi prese le mani e mentre me le stringeva, diceva delle cose toccanti. Era il suo testamento spirituale.

“Ricordati di fare sempre del bene. Rispetta tuo padre, che è un grande uomo. Segui i suoi consigli, il suo esempio”. Poi si assopiva un poco e quando riapriva gli occhi riprendeva: “Mandami tuo padre!”. Io ero troppo commossa per parlare; riuscivo appena ad assicurarlo che l’indomani mattina mio padre sarebbe stato da lui. Mi ringraziava con lo sguardo e con un leggero cenno della mano. Il giorno seguente mio padre partì di buon’ora, ma quando arrivò all’ospedale era ormai troppo tardi. Una crisi, non prevista in quell’imminenza, aveva stroncato la già troppo debole fibra di quell’uomo, proprio mentre stava per incontrare il più caro amico di gran parte della sua vita. Mio padre non riuscì mai a rassegnarsi di non avere fatto in tempo a cogliere le ultime parole di un amico eccezionale.

Elena Turtura

Testo tratto da "Il dottor Gino Zanardi e mio padre", in "Brodo di serpe - Miscellanea di cose medicinesi", Associazione Pro Loco Medicina, n. 10, dicembre 2012.