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Carnevali del Seicento

1643 | 1688

Schede

Poichè da gran tempo, e per comune consenso, il carnevale miseramente agonizza e moltissimi sono coloro che lo considerano ormai morto e sepolto; commemoriamo, per una volta tanto, il carnevale. E perchè le estreme onoranze che vogliamo tributargli siano veramente degne, rievochiamo alcuni di quei suoi fasti gloriosi che emergono in folla da quasi cinquecent'anni di storia. Rifacendo quindi a ritroso il cammino dei secoli, fermiamoci qualche istante nella Bologna del seicento, quando cioè le manifestazioni carnevalesche non avevano ancora del tutto abbandonato il loro carattere medioevale e le giostre e i tornei erano ancora fra gli spettacoli più graditi, e quando le figurazioni mitologiche ed allegoriche signoreggiavano tuttavia nei trattenimenti teatrali e nei carri dei corsi mascherati.

Ecco qua, ad esempio, nel 1643, un grandioso episodio carnevalesco che ci offre una compiuta idea della fastosità e dei gusti dell'epoca. In quell'anno, il Legato di Bologna Cardinale Antonio Barberini, ospitava il suo congiunto Principe Don Taddeo Barberini Prefetto di Roma e Generale di Santa Chiesa, il quale, volendo partecipare alle feste e ai tripudi che dall'Epifania alle Ceneri avevano luogo in città, effettuò, col concorso di nobili cavalieri, l'ardito progetto di una mascherata spettacolosa. Come è facile immaginare, la notizia di questo suo divisamento passò presto di bocca in bocca svegliando ovunque la più intensa curiosità, e poichè si seppe che un vero esercito di artisti ed operai era stato mobilitato perchè in sole tre giornate tutto fosse compiuto, le ipotesi, le congetture e gli anticipati giudizi si moltiplicarono all'infinito e i petroniani aspettarono ansiosamente il penultimo giorno di carnevale, per poter vedere ed ammirare le meraviglie che venivano loro promesse. Il corso delle maschere aveva luogo, allora, per secolare consuetudine, nella via San Mamolo (ora D'Azeglio) e dalla Porta omonima (chiusa come tutte le altre nei giorni del carnevale), giungeva fino alla Fontana del Nettuno, attorno alla quale giravano le carrozze per riprendere la via. Usualmente il corso era animatissimo e richiamava gran gente, ma nel pomeriggio di quel lunedì (16 febbraio), parve che la via San Mamolo fosse insufficiente a contenere la fiumana di popolo che vi si riversava dalle circostanti contrade, e il Barigello e le sue squadre di sbirri, dovettero certamente sudare sette camicie per mantener l'ordine ed evitare guai. Passavano intanto i cocchi, passavano le maschere, ma la folla distratta ed impaziente, non tributava loro le consuete feste. Il suo pensiero era tutto concentrato nell'attesa del decantato prodigio, e fu con un grido di sollievo che essa salutò l'arrivo del coreografico corteo che il Principe Barberini aveva intitolato: La maschera trionfante nel giudizio di Paride. Il corteo componevasi di otto grandiosi carri con fantastiche figurazioni, trainati ciascuno da un superbo corsiero. Ogni carro aveva una sua propria squadriglia; era cioè preceduto da due trombetti e quattro uomini a cavallo, e scortato ai lati da venti palafrenieri, e le bardature e le vesti, variavano, per ogni squadriglia, di foggia e di colore. Apriva la marcia un carro di fuoco ed oro guidato da Amore, e sul quale stavano Paride vestito da guerriero ed Elena in sontuoso abbigliamento. I trombetti con abiti di purpureo ormesino fiorato d'oro e turbanti a rosse penne, montavano due cavalli di color sauro acceso. Dietro ad essi cavalcavano quattro satiri e i palafrenieri indossavano giubbe rosse. Al carro di Paride seguiva quello di Venere in forma di enorme Cigno che mollemente sosteneva la Dea, ed aveva innanzi ed intorno cavalli e trombe, bardature e vesti in armonica sinfonia di bianco e argento. Veniva poscia Giunone, con manto di raso azzurrino, sopra un maestoso Pavone, e la squadra che la serviva portava abiti e gualdrappe di seta cerulea striata d'argento. Cavalcavano le Ninfe e i trombetti avevano le buccine ritorte. Sul quarto carro, guidato da Ulisse e raffigurante un colossale Drago, troneggiava Pallade con l'elmo cinto d'ulivo e la veste di gemmato borzacchino, mentre nell'avanguardia e nella scorta signoreggiava la seta gialla meschiata d'oro. Una mastodontica Arpia, sosteneva, poco appresso, Agamennone chiuso in isplendida armatura. I suoi quattro cavalieri avevano armi d'acciaio brunito, e i trombetti ed i fanti vestivano abiti di seta nera inquartata d'oro, Finalmente gli ultimi tre carri erano in forma di smisurata Sfinge, di gigantesca Aquila e di pauroso Ippogrifo, che, rispettivamente, portavano sul dorso Achille, Ettore ed Enea, e le squadriglie s'adornavano del color lionato, del verde striato d'oro e del nero e argento. Lo spettacolo di questa imponente massa di uomini, di carri e di cavalli, circonfusa da tanta fantasmagoria di colori, conquistò in modo tale la folla, che un clamore assordante di acclamazioni si levò per ogni dove, ed accompagnò la mascherata nel suo lungo percorso. Intanto calava la sera e, alla luce di oltre mille torcie, il corteo s'avviò alla piazza maggiore, ove era apprestato il campo per uno scontro cavalleresco. Dovevano decidersi con le armi le contese delle tre Dee superbe e belle, ma un improvviso turbine di neve mise ad un tratto in sordina i propositi guerrieri e rimandò a casa in tutta fretta gli Dei dell'Olimpo e i miseri mortali.

Seguendo dunque le vicende della Maschera trionfante, abbiamo visto di quali magnificenze facesse sfoggio il carnevale per le strade di Bologna. Vediamo ora, passando dal 1643 al 1662, quali onori l'attendevano nei trattenimenti di carattere privato. Ed entriamo, il 13 febbraio, nella sala Farnese, al piano superiore del pubblico Palazzo. La sala, recentemente adornata di pitture, è stata trasformata in un grazioso teatro, e il Legato Cardinale Farnese vi ha convitato, come già nei tre antecedenti anni della sua legazione, il fiore delle dame e dei cavalieri bolognesi. Non v'è un posto vuoto e le dame si contano fino a centotrenta; una vera assemblea della bellezza, dell'eleganza e della gioventù. Devesi rappresentare una Festa d'armi e di ballo che s'intitola Le gare di Amore e di Marte, inventata da Francesco Salvatori e musicata da D. Maurizio Cacciati Maestro di Cappella della basilica di San Petronio. Quando s'alza il sipario, la scena rappresentante un'amena campagna illuminata dai raggi del sole nascente, strappa un applauso d'ammirazione. Poi dall'alto, sopra un carro guidato da due alati destrieri, appaiono la Pace e Amore. La Pace assegna ad Amore il lieto ufficio di richiamar la gioia sulla terra, ma anche Marte vuol essere della partita. Di qui nasce fra i numi aspro contrasto, Marte ruba lo strale ad Amore e questi strappa a quegli lo stocco. La reciproca offesa chiama vendetta. Ed ecco i seguaci dei contendenti che lanciano cartelli di sfida e sulla scena si scontrano furiosamente. Ma per fortuna giunge in buon punto la Pace a rasserenare gli animi e a troncar le contese. Tornano allora, danzando, i seguaci d'Amore e, dopo avere, per la munificenza del Legato, fatto dono alle dame presenti di ricchissime acconciature sui modelli della moda straniera, le invitano a prender parte al ballo che conclude gioiosamente la riuscitissima festa. Come si vede, era questo uno dei tanti modi usati per prendere parte in forma eletta agli spassi del carnevale. Ma poichè siamo in tema di rievocazioni, ridiscendiamo in piazza, e, nel 1664, andiamo incontro ad una curiosa mascherata divisa in due schiere: Le Arti liberali e le Piazzarole, le prime guidate da Pallade e le seconde dal Gigante. Vestite con appropriati costumi, queste maschere distribuiscono un opuscolo con frontespizio disegnato dal Mitelli e nel quale, in quaranta ottave, sono caratterizzate le arti della piazza e delle vie. Per un simile argomento però, quelle ottave sono poco carnevalesche, mancano quasi sempre di sapor comico ed hanno un'andatura troppo sostenuta. Una di esse, forse la migliore, fa, ad esempio, parlare quello che vende le reste delle cipolle:

Qui corra la pianura e la montagna

Hor che d'Emilia preparo la festa,

E molte figlie uscir vedrà in campagna

Con gran turbanti raddoppiati in testa.

La lor Bellezza e la Fortezza è magna,

Hanno lunghe le Trecce e l'haste in Resta,

E s'un campion vuol d'affrontarle il vanto,

Si provi pur, ma si prepari al pianto.

Infine, richiamiamo alla memoria la mascherata che nel 1688, il Canonico Conte Cesare Malvasia, autore della Felsina pittrice, ideò per i suoi scolari dell'accademia Ghisilieri. Egli fece rappresentare da quei giovani, con vesti e maschere analoghe, i più celebri maestri della scuola pittorica bolognese. Le maschere, modellate dal rinomato scultore Giuseppe Mazza, erano somigliantissime, cosicchè si videro Lippo Dalmasio e Francesco Francia, Prospero Fontana e Pellegrino Tibaldi, i tre Carracci e Leonello Spada, Guido Reni, il Guercino, ecc., percorrere le vie della città, compiere il giro del corso e tornarsene in ordinata schiera, al Palazzo Ghisilieri, d'onde erano partiti. Con simili ricordi dunque, si può commemorare degnamente il carnevale. Ma queste sue manifestazioni seicentesche, ad onta dei loro attributi di maggiore o minore sontuosità, producono oggi, a considerarle serenamente, un'impressione di fredda compostezza, alla quale è difficile sottrarsi. V'è in esse troppa cultura, troppa mitologia, troppe reminiscenze classiche e storiche, sicchè pare che vi gravi sopra l'ombra delle cento accademie artistiche e letterarie che allora deliziavano Bologna. Pur tenendo conto delle tendenze del tempo, è evidente che l'eccesso di cultura mortificava, in questo caso, la fantasia, e che il classicismo metteva in fuga ogni proposito scapigliato. Mancava, insomma, la gioia e la spontaneità del riso, mancava la luce di quello spirito popolare che meglio di ogni altra cosa si sarebbe intonato con il vero carattere del carnevale. Ma il popolo, non aveva allora voce in capitolo. Esso era chiamato semplicemente a fare da spettatore plaudente, e le maschere cenciose dei suoi traccagnini, annegavano nella polvere, sollevata dai carri e dai cocchi, le loro salaci arguzie, le loro grossolane facezie.

BIBLIOGRAFIA. RICCI COSTANZO: La Maschera trionfante nel giudicio di Paride. Bologna, 1643. BOSI GIUSEPPE: Archivio di rimembranze felsinee. Bologna, 1857,vol. III, p. 231. Le Arti liberali guidate da Pallade e le Piazzarole guidate dal Gigante. Mascherata (Ottave 4O). Bologna, 1664. SALVADORI FRANCESCO: Le Gare d'Amore e di Marte. Festa d'Armi e di Ballo, rappresentata in Palazzo il Carnevale del 1662. Bologna, 1662. Testo tratto da Oreste Trebbi, Cronache della vecchia Bologna, Compositori, Bologna, 1937.