Caffè dei cacciatori

Caffè dei cacciatori

Scheda

Il Caffè dei Cacciatori, uno dei più importanti ritrovi bolognesi collocato all'angolo di via Castiglione sotto le Due Torri, trova la sua fine nel 1915 durante gli sventramenti per l'allargamento di via Rizzoli, chiudendo una pagina importante del costume e della società felsinea. Un primo ritrovo gestito da una 'signora Maria' esisteva già nel 1798, che prese poi il nome di Caffè dell'Ungherese dal 1854 e dal 1861 Caffè dei Cacciatori.

Così viene descritto nella 'Guida illustrata di Bologna - Storica artistica industriale', edita nel 1892 dalla Tipografia Successori Monti: "ora diremo che che accanto ad esse (le Due Torri ndr.) sorge pure un Caffè che, tra i bolognesi, è il più noto e caratteristico. Chi non conosce il Caffè dei Cacciatori? Esso ha una storia simpatica e gloriosa che tutti gli possono invidiare, ma che nessuno gli può contestare, una storia che ha dato occasione a molti giornalisti di scrivere un articolo brioso, scoppiettante di sano umorismo cittadino, pieno di aneddoti graziosi e piccanti. Il Caffè dei Cacciatori è il ritrovo dei più noti sportsmens e artisti e dei letterati più in voga, che vi trovano, confezionata come in nessun altro luogo,  la bevanda dell'intelligenza: una tazza di caffè, di cui il proprietario possiede tutto il segreto della fragranza. E chi dirige con grande intelligenza questo Caffè, ha voluto di recente renderlo maggiormente piacevole, restaurandolo con gusto e facendone decorare la sala maggiore dal pittore Giacomo Lolli, che ha profuso nelle pareti e nel soffitto le fantasiose vaghezze del suo pennello". Tra i tanti fatti grandi e piccoli che vi si sono succeduti, nel 1880 Giannetto Bacchi, ex cronista dell' "Ancora", Antonio Fiacchi, impiegato postale e direttore del periodico teatrale "Il Piccolo Faust", Oreste Cenacchi, funzionario comunale e Alfredo Testoni, redattore del "Nuovo Alfiere" e della "Pace", decidono, durante un incontro al Caffè, di fondare un giornale umoristico. Non trovando un titolo divertente, si ispirano all'espressione gentile di un cameriere: "Ehi!, ch'al scusa". Il primo numero di saggio esce il 4 dicembre dello stesso anno.

Così viene descritta la storia del Caffè da Oreste Trebbi: "Nell’Opuscoletto lunare nel 9 ottobre 1798, dedicato ai Caffè, si finge che la Dea Diana, durante le prime ore della notte, imprenda in Bologna un viaggetto esplorativo di quei particolari luoghi di ritrovo e di conversazione, e che scendendo dalla torre degli Asinelli, dopo lungo peregrinare sulla via lattea e attraverso le due Orse celesti, si disponga ad iniziare il suo giro dal Caffè, posto in angolo fra il Mercato di mezzo (ora via Rizzoli) e la strada Castiglione, chiamato Caffè della quondam signora Maria. Ma poiché lo vede ancora frequentato da persone ligie all’antico regime, preferisce fermarsi a sorbire un bicchierino di rosolio nel contiguo Caffè del Bottegone, e poscia riprende il cammino compiendo le soste prestabilite. Così il capriccio improvviso di una Dea, ci rivela l’esistenza di quel Caffè della quondam signora Maria che, pur con le diverse denominazioni assunte nel corso degli anni, è da considerarsi come il vero antenato del Caffè dei Cacciatori di cui si vuole ora in queste pagine rinverdire la memoria. Non è possibile stabilire in che epoca la tipica bottega aperse, per la prima volta e nel ricordato luogo i suoi battenti, ma se nel 1789 ospitava coloro che solevansi chiamare parrucconi, è facile supporla di origine quasi secolare. Durante la prima metà dell’ottocento è certo però che essa aveva quella fisonomia riposata e tranquilla, imposta dalle speciali condizioni dei tempi, e che trascorreva una vita casalinga e patriarcale. Ne reggeva le sorti la sgnera Teresieina dai canarein, così chiamata per gli uccellini in gabbia che ella esponeva in una finestra esistente sotto il portico, di fianco all’ingresso del negozio; e già lo frequentavano assai numerosi gli amici della caccia, ed un gruppo di assidui clienti occupava ogni sera la piccola sala da giuoco. Nel 1854, l’Indicatore bolognese di Sebastiano Giovannini c’informa che aveva cambiato nome e si chiamava Caffè all’ungherese, ma è sconosciuta la causa di tale denominazione. Si sa, per contrario, che in quel tempo ne era proprietario certo Macchiavelli, possessore, beato lui!, di una moglie avvenentissima, la quale, sedendo al banco ed esponendo candidamente alla cupidigia degli avventori, aveva contribuito a far designare il caffè con un nomignolo piuttosto grassoccio. Il caratteristico ambiente però, godeva di una modesta notorietà e ben poco si distingueva dai molti suoi confratelli. Per innalzarlo, per rinnovarlo occorrevano coraggio ed intelligenza, e queste qualità non mancarono a Gaetano Rabbi, il quale verso il 1860 assunse l’impresa con arditi intendimenti, seppe darle valido impulso e riuscì in breve corso di anni a conferire al suo caffè l’importanza di una quasi indispensabile istituzione cittadina.

Fu appunto durante la solerte direzione del Rabbi che al Caffè dei Cacciatori, così ribattezzato cominciarono a darsi convegno molte delle più spiccate notabilità bolognesi delle lettere, delle arti, della politica e che la sua irregolare sala d’ingresso, e il grande salone accolsero via via, a stabilite ore del giorno e della notte, quanto di meglio offriva Bologna intellettuale, elegante e mondana. Uno dei momenti culminanti della fortuna dell’ormai prediletto ritrovo fu segnato, intorno al 1875, dall’apertura della nuova e spaziosa sala, aggiuntavi con sagace criterio, e che fino allora aveva costituito il locale di quel Caffè, o meglio Liquoreria detta del Bottegone, ove, come abbiamo visto, la Dea Diana nel 1798 compiva la prima tappa del suo viaggio. Ma per far le cose signorilmente, il Rabbi volle che il salone (come fu chiamato fin dall’inizio) fosse decorato con elegante semplicità e adeguatamente illuminato; poi, perché avesse un carattere particolare, intonò alla tinta verde delle pareti, il colore dei divani e delle sedie, offrendo così ai frequentatori un ambiente suggestivo, riposante ed accogliente. E i frequentatori si moltiplicarono, e molti di essi predilessero il salone verde al punto da non fermarsi nelle altre sale, se in quello non trovavano posto. Dopo le 20 il caffè rimaneva quasi deserto, ma verso la mezzanotte si ripopolava non meno di prima. Chi tornava dal teatro, dal club, dalle conversazioni vi faceva un’immancabile sosta e il clamore ricominciava, le discussioni si riaccendevano; poi la gente rincasava e non vi rimanevano che pochi ed impenitenti nottambuli sino all’ora della chiusura: le due antimeridiane. Passarono dunque per il salone e vi si trattennero di solito qualche ora, di giorno o di sera, molte delle più spiccate notabilità cittadine. I professori Giambattista Gandino e Gaetano Pelliccioni erano i più assidui, Giosuè Carducci, nelle sue brevi apparizioni, vi conversava con Gino Rocchi ed altri amici, fra cui il prof. Teodorico Landoni, illustre epigrafista e insaziabile divoratore di carta stampata, che il cameriere Sandrein, quasi regolarmente, trovava addormentato sopra un cumulo di giornali quando s’accingeva a chiudere il negozio. Giuseppe Regaldi, invece, non amava stare rinchiuso e si sedeva al suo preferito posto sul limitare dell’ingresso verso via Rizzoli. Di lì egli seguiva il via vai dei passanti e ad ogni figurina femminile che apparisse alla sua debole vista, mormorava fra sé con visibile compiacenza: Oh! Che bella signora! Il vecchio falco carducciano non si smentiva. Molte imprese giornalistiche segnarono al Caffè dei Cacciatori la loro data di nascita e vi svolsero parte della loro vita, ora fortunata, ora precaria. Il Matto antimistraliano vi fu certamente pensato e scritto, e così pure il Gazzettino, Pagine sparse, Preludio, Don Chisciotte, periodici redatti con propositi battaglieri che difendevano in letteratura, in verismo e in politica, la democrazia e che, specie i tre ultimi, ebbero a collaboratore assiduo Giosuè Carducci. Emanazione invece di un gruppo politicamente, meno acceso, nel quale emergevano Antonio Fiacchi direttore del Piccolo Faust, Giovanni Bacchi della cattolica Ancora, Alfredo Testoni e Oreste Cenacchi, fu il gaio Ehi! ch’al scusa…, il cui nome venne colto al volo nella spontanea esclamazione di un cameriere.

Ma poiché, a lungo andare, fatalmente cambiano i gusti e le simpatie del pubblico che nel suo inesausto desiderio di novità, finisce sempre per stancarsi di ciò che pure gli ha procurato le più vive compiacenze, anche la voga del Caffè dei Cacciatori, nei primi anni del nuovo secolo, subì un progressivo affievolimento. Molti dei suoi fedeli frequentatori erano scomparsi, molti avevano lasciato la città, i cenacoli s’erano dimezzati o sciolti, e nuovi ritrovi pubblici più moderni avevano richiamato l’attenzione dei bolognesi; primo fra tutti il Bar Centrale, che aperto dallo stesso Riguzzi, contribuì indubbiamente ad oscurare la fama del suo antecessore. Cominciarono quindi per il Caffè dei Cacciatori i giorni bui. Pian piano, come un nobile decaduto, si vide abbandonato dalla maggior parte dei suoi amici. La sua vita trascorse così monotona e triste, la sua fisonomia si confuse con quella dei Caffè di ordine inferiore, e per le sue sale semi deserte non pulsò più il ritmo accelerato del movimento cittadino. Per un momento parve in procinto di scender anche più in basso e d’incanagliarsi per l’invasione molesta delle notturne etere del marciapiede, ma fortunatamente un tal pericolo fu scongiurato a tempo, e la lenta decadenza riprese il suo fatale andare. Ebbe tuttavia, nella sventura dei fidi amici: i cacciatori e gli sportivi, ai quali fu già compagno il tenore Giuseppe Borgatti, nell’epoca in cui s’infiammò per i cavalli e per le corse. Essi frequentarono l’ormai storico luogo della loro quotidiana riunione, fino agli ultimi giorni, né lo abbandonarono i componenti di un piccolo cenacolo pomeridiano: i professori Giuseppe Albini, Emilio Lovarini, Eugenio Turazza, lo scultore Carlo Parmeggiani, ecc. Anche il Girotti, il vecchio collaboratore della Rana, del Fischietto, dello Spirito Folletto, conosciuto per i suoi facili versi firmati X.R.Z., vi si recò sin che visse e altri pochi continuarono ad andarvi seralmente e a raccogliersi, dopo la chiusura del Salone avvenuta nel 1913, nell’unico ambiente rimasto, chi a leggere i giornali, chi a far la consueta partita a domino. Erano tutti dal più al meno attempati e grigi, e alla scialba luce del gas che mal rischiarava quella sala dai muri affumicati, seduti sui neri e logori divani, parevano anche più vecchi del vero, sembravano fantasmi pallidi e malinconici di tutto un mondo sopravvissuto a sé stesso. Ormai la fine inesorabilmente ed indeprecabile era giunta, per concludere una esistenza tumultuosamente trascorsa. Urgente appariva la necessità di troncare quella misera e pietosa parvenza di vita, e perciò la definitiva chiusura nel 1915 e gli effetti del piccone demolitore, nel maggio 1917, furono veramente provvidenziali." (Trascrizione a cura di Lorena Barchetti).

In collaborazione con "Cronologia di Bologna dall'unità ad oggi" della Biblioteca sala Borsa di Bologna.

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Documentario | Bologna nel Lungo Ottocento (1794 - 1914)
Documentario | Bologna nel Lungo Ottocento (1794 - 1914)

Documentario - Bologna nel lungo Ottocento (1794 - 1914), 2008. La città felsinea dall'età napoleonica allo scoppio della Grande Guerra.

Documenti
Bononia Ridet n. 84 | 1889
Tipo: PDF Dimensione: 1.48 Mb

Bononia Ridet - rivista artistica letteraria universitaria settimanale. N. 84, 2 novembre 1889, Litografia Casanova, Bologna. Collezione privata.

Guida artistica commerciale industriale
Tipo: PDF Dimensione: 3.03 Mb

Guida artistica, commerciale ed industriale per l'interno della città di Bologna; anno settimo, Bologna, Società Tipografica dei Compositori, 1872. Collezione privata.

Quando non si giocava a carte
Tipo: PDF Dimensione: 913.00 Kb

Erberto Fiorilli, Quando non si giocava a carte. Estratto dal periodico 'La Lettura - rivista mensile del Corriere della Sera', Milano, 1924.

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