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Brodo di serpe e altre ricette

1155

Schede

Con questo titolo un poco curioso vorrei richiamare la leggenda medicinese più celebre e suggestiva, legata alla guarigione di un imperatore del Sacro Romano Impero. Non è una cosa nuova, essa fa parte della nostra più intima cultura e tutti i medicinesi, di ogni età, la conoscono: una serpe caduta nel brodo procura la guarigione di un grande sovrano, chi dice sia stato Lotario II il Sassone chi Federico di Hohenstaufen detto Barbarossa, che premia il luogo della sua recuperata salute. Prima di approfondire, sia pur brevemente, l’argomento, voglio fornire il testo della leggenda così come la tramanda il nostro cronista Evangelista Gasperini nelle sue Memorie storiche di Medicina.

L’autore, trattando delle origini di Medicina, passa in rassegna la storiografia antica e recente citando fonti edite ed inedite. Fra le varie ipotesi formulate nel tempo, il memorialista settecentesco non può tralasciare anche quanto viene tramandato dalle leggende locali: leggende niente affatto popolari e dense di significati. Intanto egli riporta i celebri versi che già alla metà del Settecento si citavano a memoria come “cosa antica”, scritti “un tempo” su di un edificio fuori delle mura di Medicina. Da storico accorto e scrupoloso, il Gasperini riporta entrambe le versioni tramandate dalla tradizione. La prima: Mira tu viator historia bella qui per un serpe ebbe pietosa aita Lotario imperator ond’ebbe vita per cui qui Medicina ognun l’appella. E la seconda, nella quale il posto di Lotario viene preso dal Barbarossa. Il Gasperini, attento lettore di cose storiche, sa che Lotario II fu veramente a Medicina e vi si fermò nel Natale 1132, ma non vi lasciò tracce significative. Sa però molto bene che Federico I Barbarossa non fu a Medicina, ma ne conosceva a fondo le caratteristiche geografiche, le particolarità politiche, l’importanza strategica, le aspirazioni, grazie anche ai contatti con il giurista Pillio da Medicina. Ed ha pure sotto mano numerose trascrizioni, copie e regesti del diploma imperiale del 1155 con il quale l’imperatore riconosceva diritti, privilegi, confini e difese del castello e del territorio di Medicina. Il diploma imperiale sanciva, dopo le distruzioni operate dai bolognesi, in forma solenne una nuova e più ampia fondazione della nostra comunità. La storia ha le sue regole intransigenti, la leggenda invece può spaziare grazie alla fantasia: la creatività dei medicinesi preferisce unificare ogni elemento significativo della figura del Barbarossa facendone un padre della patria che, magnanimo, premia il luogo della sua inopinata guarigione mediante l’insolita medicina.

Ecco qui di seguito il testo della leggenda così come riportato dal Gasperini nella sua Cronaca: "Aggiungono altri chiamarsi questo Castello o Terra Medicina perché mentre Lothario stava accampato nella campagna ove questa di presente è fondata, ammalatosi, come dissi, con dubio di male contagioso di lepra, una mattina, mentre il coco li voleva ministrare il cibo, trovò nella pignatta della minestra una spina di vipera che, caduta dall’arbore sotto il quale si cucinava senza che alcuno se ne fosse accorto, dentro di quella s’era cotta assieme al cibo. Tutto confuso il coco dubitando, se revelava il negozio, non essere come negligente castigato e cacciato di corte dall’imperatore, si risolvé tacere e mandò la minestra nella forma che si ritrovava al padrone che, mangiata[la] con grandissimo gusto, testificando non havere mai più sentito vivanda migliore, mandò per il coco, volendo sapere da lui che cosa havesse posto nella minestra che quella volta era stata tanto buona. Il coco dubitando d’essere scoperto dell’errore commesso, si gettò piangendo dirottissimamente a’ piedi dell’imperatore e, confessandoli tutto con ogni sincerità, n’ottenne benignamente il perdono. Cominciò da indi in poi l’imperatore a stare sempre meglio e finalmente affatto risanato dalla lepra in memoria di questo fatto commandò l’edificio d’un castello, che perciò Medicina volse che fosse chiamato, perché con un veleno gl’era stato improviso et impensabilmente remedio efficacissimo contro d’ogni male et infirmità. E proseguì il suo viaggio per la Romagna, Marca d’Ancona e ducato di Spoleto, che tutto ridusse sotto il proprio dominio, verso Roma."

Quando il gruppo promotore della rivista Brodo di serpe, fatta da medicinesi e rivolta alle cose vicine e lontane di Medicina, si è posto il problema di darle un titolo, c’è stata unanimità nello scartare nomi aulici ed elevati, si è preferito invece qualcosa di più immediato che facesse riferimento alla più sentita tradizione medicinese. Subito si è perciò pensato alla leggenda della biscia che cade nella pentola del Barbarossa, il cui brodo diventerà una “medicina” per l’imperatore e per la nostra terra. Si è così scelto il titolo Brodo di serpe, omaggio all’antica popolare leggenda e, allo stesso tempo, immagine sintetica ed emblematica dei diversi contributi che vanno a formare un tutt’uno di gusto appetibile e di una certa benefica efficacia per chi se ne serve. Brodo di serpe si presenta dunque come un’icona connotata da richiami storici, fiabeschi, poetici e popolari locali, ma si pone anche come un segno di continuità con una cultura, una tradizione che hanno come centro una precisa comunità che viene da lontano e che guarda altrettanto lontano. Oggi sulla leggenda della serpe, una volta all’anno, si mobilita tutto un territorio e Medicina si fa conoscere e si proietta all’esterno in tutta la sua vitalità creativa, organizzativa e culturale.

Non si può tralasciare di sottolineare che alle radici della leggenda non c’è soltanto fantasia storico-letteraria per nobilitare Medicina. Tutti sanno ormai che la nostra terra si chiamava così già da molti secoli prima del Barbarossa; che il nome le viene non da guarigioni imperiali, quanto piuttosto da antiche strutture sanitarie, oppure da altrettanto antichi culti di divinità mediche; che, infine, come si è detto, Federico “Barbarossa”, a differenza di altri imperatori germanici che furono effettivamente ospiti di Medicina, non è mai entrato nel nostro castello ma tuttavia ne ha decretato la ricostruzione, la definizione dei confini comunali e i numerosi privilegi amministrativi che, se produssero straordinari vantaggi e motivi di orgoglio ai nostri antenati, furono causa anche di fastidi e di invidia. I favori del Barbarossa, di Matilde prima e dei sovrani pontefici dopo, per Medicina sono stati contemporaneamente fonte di vitalità e di freno, di prosperità e di miseria, di pace e di guerra, di salute e di malessere a seconda dei momenti storici e delle congiunture politiche. Sembra che il serpente che sta alla base del nostro mito di origine esprima tutta la sua ambivalenza, anche se qui diventa un mezzo definitivo di salute. Ciò che la vipera ha in sé è contemporaneamente oggetto di morte, ma anche di vita, di salute, di medicina appunto. L’emblema non ufficiale di Medicina, la serpe, è ben lontano dalle figure trionfali che campeggiano in tanti stemmi civici: leone, gallo, aquila, stallone ecc. Nei manuali di araldica la serpe è invece simbolo di prudenza ed è pure emblema di “grave fatica per cose ottenute con difficoltà”. Anche questa è un’allegoria che ben si addice a Medicina, alla sua storia passata e alla sua attualità: la fatica, le lotte per ottenere e mantenere le proprie identità e libertà e per garantire un lavoro dignitoso alla sua gente sono state in tutti i tempi una costante realtà. 

A proposito del trinomio bisciaserpente-vipera, che la recente rievocazione storica medicinese del Barbarossa ha fatto strepitosamente rimbalzare in tutti i mezzi di comunicazione, meritano un particolare rilievo alcune antiche “ricette” a base di vipera che la storia dell’arte medica, la farmacopea e le pratiche popolari ci hanno lasciato. Infatti la carne di tale rettile, per secoli, ha costituito un ingrediente indispensabile in numerose “ufficialissime” ricette per guarire un esteso numero di mali. La più celebre e illustre di queste fu per secoli la teriaca (o triaca, dal latino theriaca e dal greco theriake): “rimedio contro i morsi degli animali velenosi, medicamento di origine alchimistica costituito da moltissimi ingredienti fra i quali, appunto, la carne di vipera alla quale si attribuivano poteri di guarigione straordinari”. Questo celeberrimo preparato veniva confezionato ogni anno con un solenne apparato, a Bologna (ma non era diverso in altre città), dal Collegio medico e dalla Compagnia degli Speziali all’interno dell’Università (l’Archiginnasio). Insieme con le “più scielte droghe” la carne di vipera, che andava procurata “verso il mese di maggio”, come riporta un testo ufficiale del ‘600. E dovevano essere “vipere femmine” che venivano poi “mandate in le Pubbliche Scuole” ed ammazzate alla presenza degli “Illustrissimi signori Priore e Protomedici”; sarebbero state poi cotte “secondo l’arte”, “separate la carne dalle spine, di quelle si farà la pasta per formare li tresici [pallottole, polpette] nelle Pubbliche Scuole per mano de’ signori del Consiglio de’ Speziali, quali tresici doveranno essere sigillati da suddetti signori Medici col sigillo del loro Collegio, per riseccarli poi in luogo ombroso”. A metà agosto, scelte le “droghe” opportune, il tutto veniva solennemente bollito “a vista di tutti i studiosi e professori”; lasciato raffreddare, il prodigioso “composto” veniva insaccato e, dopo la fermentazione, distribuito agli speziali. Una medicina tanto celebrata a base di vipere femmine, oppio e cannella, a qualcosa doveva pur giovare, nonostante il sapore certamente non affatto gradevole visto che, ancora fino a poco tempo fa, per indicare una cosa pessima in molti sensi, in dialetto si diceva: “L’é cativa c’mé la tariéga”. Oltre alla “ufficiale” teriaca una miriade di ricette private non approvate dalla scienza medica utilizzavano la carne di vipera per vari rimedi. Recentemente, in seguito ad una intervista radiofonica al sindaco di Medicina Nara Rebecchi sulla manifestazione del Barbarossa, della sua storia e della leggenda riguardante Medicina, un ascoltatore di Città di Castello, Gilberto Mercati, studioso e ricercatore di storia della sua regione, ha inviato a Medicina una documentazione tratta dall’archivio di una nobile famiglia umbra dove la vipera costituisce, come nella pozione imperiale e come nella teriaca, l’ingrediente base e necessario. Sia il sindaco che il signor Mercati di buon grado hanno accolto la mia richiesta di utilizzare per questo articolo i documenti inviati che trascrivo qui di seguito.

Ricetta umbra del 1500 tratta dall’archivio del marchese Bufalini di San Giustino Umbro: "Alla fine della primavera pigliare vipere avvertendo che siano femmine, tagliarli il capo e la coda, poi scorticarle, subito scorticate metterle in una catinella di acque tiepida dove vi si lavino. Poi lavate si cochino come l’anguilla a lesse o in guazzetto con erbette e porro, ovvero si cochino alesse con un quarto di capone, e in quel brodo sì preparato vi si può fare minestra e di quello che l’huomo vole. I fegati et i cori delle vipere si secchino all’ombra, poi si mettino in tegame coperto con altro tegame che servino bene, et a ciò siano meglio serrati si possino aratare. Poi si fascino con pezze di lino bagnate e imbrattate con farina e si mettino a seccare nel forno in modo che se ne possa fare polvere; et questa polvere è buona contro veleno pigliandone quanto ne stia in una cratia [cialda, ostia] et si può pigliare in un uovo."

Dallo stesso archivio Bufalini è tratta una seconda ricetta: "Il vino di vipere si fa in questa maniera: cioè si piglia un fiasco con bocca larga, et è meglio senza veste perché si vede quando la vipera è morta; avertendo che il fiasco non sia più di sei libre; poi si piglia una vipera femmina viva, e vi si metta a morire in detto fiasco pieno di vino, e si tura bene perché la vipera non scappi, e quando la vipera sarà stata 24 hore in detto vino, si vota il vino in altro fiasco, e la vipera si butta perché non è più buona da niente, e subito si può cominciare a bere il vino. Si può anco fare un vaso di molto grande ma con ragione di ogni 6 libre di vino una vipera; e questo vino si fa perfetto nel tempo perché le vipere sono grasse. Per conservare il vino si mette quattro goccie d’olio nel fiasco perché si conservi tanti anni. In altri vasi non di vetro non si può fare perché piglierebbe l’aceto, e perché si potrebbe durar fatica a mettere la vipera nel vino quando il fiasco è pieno si potrà mettervi prima la vipera e poi il vino.

Anche nella nostra regione era usato il “vino viperino”, anch’esso rimedio contro “le malignità, la scabbia, l’elefantiasi, il mal francese, le ulcere incurabili, le scrofole ...”. A pillole, teriaca e vino viperino era riconosciuta, fra l’altre, la singolare virtù di “far più volatile la massa del sangue”, di depurarlo “d’ogni nocivo escremento”, “in guisa tale che ne rende per fino più fresca e colorita” la carnagione. Di quest’ultima speciale proprietà si erano accorte anche le donne “vane” che si erano “accostumate” a bere di tale vino “per comparire più vistose e lucide”. La leggendaria ricetta involontaria che fece improvvisamente guarire l’imperatore mostra una particolarità rispetto alle citate, elaborate, ricette medicamentose. Nella minestra imperiale cade la vipera intera, con tanto di testa e di coda, mentre negli elaborati della farmacopea tradizionale queste parti vengono escluse in quanto viene attribuita efficacia medica alla sola carne. Tra l’altro, dell’animale malauguratamente bollito nella minestra, non è dato di sapere il sesso ma, vista la strepitosa guarigione ottenuta, viene da pensare che si trattasse sicuramente di una femmina. Nel caso medicinese si accenna però esplicitamente al potere medicamentoso non solo della carne ma anche, in particolare, del veleno posseduto dalla vipera: “perché con un veleno gl’era stato improviso ... remedio efficacissimo”. Da quale male sarà mai stato affetto l’imperatore Federico Barbarossa quando giunse nei pressi di Medicina? Non sarà che il cuoco, o chi per lui, avesse messo a bella posta la serpe, o la vipera, nella pentola per guarire l’illustre infermo di una delle malattie sopra indicate?

Visto che siamo nel campo della leggenda, sarebbe giustificato fantasticarci sopra, arricchendo di particolari l’episodio centrale della celebre guarigione. Non per nulla la nostra tradizione registra, nel tempo, varianti ed aggiunte molto suggestive e ricche di significato. Come quella dei cavalieri che avrebbero percorso in un giorno il circuito del territorio per definirne i confini; giunti al limitare delle terre asciutte avrebbero lanciato un giavellotto nell’acqua delle valli ampliando così notevolmente l’ambito giurisdizionale comunale di Medicina. Diversi autori medicinesi contemporanei si sono cimentati in lavori di carattere teatrale sull’argomento; altri in epoca più lontana. Varrebbe forse la pena fare conoscere in modo più esteso e duraturo queste spontanee opere letterarie, o almeno i passi più significativi di esse, magari dandoli alle stampe. Di tutto questo “Brodo di serpe” potrebbe diventare lo strumento più idoneo ed efficace. Per questa ed altre ragioni di salute culturale ce lo auguriamo di cuore.

Luigi Samoggia

Testo tratto da "Brodo di serpe - Miscellanea di cose medicinesi", Associazione Pro Loco Medicina, marzo 2002.