Salta al contenuto principale Skip to footer content

Bologna negli scritti di Riccardo Bacchelli

1891 | 1939

Schede

Riccardo Bachelli, scrittore e letterato di fama nazionale, non ha bisogno di essere presentato ai nostri lettori sotto l'usuale forma biografica e critica, non soltanto perché egli è quel narratore che moltissimi ormai conoscono attraverso la lettura delle sue opere organiche maggiori (come il Diavolo a Pontelungo, Una passione coniugale. Oggi Domani Mai, Mal d'Africa, ecc.) e di quei gustosissimi articolo che da più anni egli viene scrivendo sulla terza pagina del Corriere della Sera, ma anche perché bolognese di nascita e di costume. Egli non ha mai dimenticato la sua città natale, ma spesso anzi ne ha rivissuto quelle bellezze d'ambiente che gli hanno dato materia fresca e originale per i suoi romanzi e per le sue divagazioni autobiografiche. Nessun scrittore italiano forse ha ricordato con tanta nostalgia e simpatia la propria città d'origine, come Bachelli. La città dotta gli è rimasta nel sangue come una eredità cara e preziosa di cui spesso egli ha fatto tesoro. Infatti da Bologna il Bachelli ha desunto il tratto cordiale, pacato, la sapida ironia, il gesto largo e spaziale della sua prosa un poco aulica e ricercata ma comunque fluviale nell'incedere espressivo. Lo stesso favolismo moralistico che caratterizza tanta parte della sua migliore produzione (come Lo sa il tonno del 1932, Il Rabdomante del 1936, premiato a Viareggio) ha qualcosa di emiliano nel colore e nel sapore di certe sue zone tranquille, svagate, dove risalta vieppiù il carattere dello scrittore. Con ciò non vogliamo dire che il Bachelli rimanga, a conti fatti, un provinciale. Al contrario. Il suo attaccamento alla terra natale non ha le fondamenta in una visione particolaristica, macchiettistica degli uomini e delle cose. Egli quasi sempre sa innalzarsi oltre la materia trattata sino a trasfigurarla sul piano illustre di una lingua che è certamente di sostanza e struttura classiche ed in questo comune a quella degli scrittore cosiddetti rondisti. Molteplici e complesse sono dunque le esperienze artistiche e letterarie di Riccardo Bachelli e ciò gli ha servito a conservare i tratti etici e formali di una tradizione regionale senza cadere nel regionalismo, a dar voce a tutto un mondo casalingo senza per questo limitare il proprio respiro ai confini di una spiritualità chiusa in sé stessa, in quanto tipica di un determinato luogo. In questo senso nessun dubbio che Riccardo Bachelli sia scrittore integralmente nazionale, lontano cioè dai toni folcloristici e vernacoli che tanta parte hanno avuto in molti settori della nostra letteratura provinciale, oggi decisamente al tramonto.

Da Il Filo meraviglioso di Lodovico Clò (1910), che è il suo primo tentativo letterario, ai suoi ultimi romanzi come Iride (1938) Il Mulino del Po, La Miseria viene in barca (1939) ecc. La sua personalità si è venuta arricchendo di sempre basti ed organici motivi d'arte, sino a dar l'impressione di un mondo ormai maturo che viene dispiegandosi col tempo nei suoi temi più necessari e logici. La produzione di Bachelli, oggi rilevante, ha un carattere veramente fluviale nel suo incedere solenne, tranquillo e sicuro, come arginata da spalti che non temono, nella loro solidità, di essere scossi o franati da improvvise piene. Prosatore dotatissimo, ricco ed arguto, incline al tono sentenzioso, moralistico, il Bachelli è attualmente una delle figure più interessanti dell'Italia letteraria. Appunto per questo, ma anche per le ragioni su esposte, abbiamo pensato di dare ai nostri lettori una sintetica antologia di quegli scritti bacchelliani che parlano di Bologna o che, in un certo modo, presuppongono la presenza ambientale della nostra città o il clima delle nostre bellissime colline. I pezzi che riportiamo sono stati tolti dalle opere diremo minori del Bachelli, ma non per questo meno importanti e significative delle maggiori, e cioè dai Poemi Lirici del 1914, più tardi ripubblicati dal Preda insieme ad altre pagine di prosa e poesia (come Riepilogo, Memorie, Liriche) che sono venute ad integrare la prima edizione, da la Ruota nel tempo dal 1927, agile ma gustosissimo libretto stampato dall'Italiano di Bologna, che riunisce le prose più vive e originali di un Bachelli autobiografico, moralista, viaggiatore, da Bella Italia del 1928, che è una ottima raccolta di spunti narrativi, di fiabe, di descrizioni e memorie (da cui abbiamo tolto il pezzo sulla Porrettana) ed infine da Selciati e Selcini, elzeviro scritto con una prosa robusta e liricamente sofferta, pubblicato sul Corriere della Sera nel gennaio del 1936. in complesso il sintetico panorama antologico d'ambiente bolognese che abbiamo composto, ci sembra più che sufficiente non soltanto per interessare i nostri lettori, dietro l'assunto stesso dei pezzi esmplati, ma anche per riconfermare le altissime qualità di uno scrittore che Bologna è fiera di avere dato alla Nazione.

WOLFANGO ROSSANI

Spunti lirici su Bologna e l'Emilia


PAESAGGI

1.
Improvvisa, la fantasia m'ha condotto per le strade
rettilinea del Bolognese, bordate di rami
freddolosi, toccati dall'ottobre, con prospettive
di persiane verdi allineate sulle facciate.
Il Reno si stacca dai monti con incantevoli indugi e prende spazio in pianura, alberi
e frutteti si spogliano con incredibile bellezza,
riposano al sole le terre. È il tempo
adesso che le cantine odorano di fermentazione,
e il contadino esce senza arnesi a guardare
forse se qualche fosso non scola. Le terre,
gli uomini, il paese fortunato nelle adiacenze
del fiume, godono questo sole breve.
Gli uccelli son di passo.
(Dai Poemi Lirici)

EMILIA
3.
Regione aprica e saggia, dai gran campi
Latini fra le rettilinee strade,
Quanto ferace forza allor ti invade
Che i tempi grossi sorgon pien'di lampi!

Tuona, non piove; la rondine rade.
Al sol crepa la gleba, che ne' stampi
Dei fornaciai al fuoco regge, e in ampi
Giri di mura al secol che vi scade.

Ma che riposo è il tuo, quieto e sano
Terra donnesca, quando i fiumi gialli
Per te cercano il mare; e il gel poi scaccia

I beccaccini a volo dalle valli!
Or si querela il cacciator insano
Del freddo, delle poste e della traccia.
(Da Liriche)

Bachelli autobiografico (Notizie per i lettori d'oltremare). Sono nato il 9 aprile del 1891 da vecchia famiglia civile di Bologna antica città dottorale e agricola, di cui è difficile dare idea esatta a studenti e studentesse del Nuovo Mondo, se non conoscono molto bene il Vecchio e le sue estreme distinzioni di storia e di caratteri. Il carattere eminentemente civico di Bologna risalta subito dal fatto d'aver i lati delle strade porticati. Per essersi procurata una simile comodità deambulatoria, bisogna che cittadini siano amanti del convenevole e di tutto quel tratto di agio, di conversazione, di discussione, di dottrine, di finezza, che si chiama urbanità. D'altra parte questo modo di essersi procacciata un'occasione così domestica e così sfuggevole di trattarsi e di trattare, indica chiaramente il difetto della grande società locale: un'alacrità dello spirito che non nasce tanto dalla forza della passione e della convinzione, quanto da poter passare da cosa a cosa con un'agilità elegante e ingegnosa; e insomma più galanteria che amore, più politica che fede, più belle lettere che poesia. Per sei giorni della settimana i portici servono ai cittadini; di sabato, credo ab antico, servono ai ritrovi ridanciani e alle contrattazioni vivaci e ponderate dei campagnoli. Fra queste mura e in famiglia ebbi da ragazzo il riflesso degli insegnamenti dell'ultimo umanista, Giosuè Carducci, e feci le prime letture dei classici; in questa città ebbi i primi amori e dolori, cominciai a scrivere. L'architettura dimostra anche a chi non sappia di storia che il modo gotico e in genere l'influsso nordico in Italia nel medioevo qui su ques'ultimo lembo della grande Pianura Padana si è schiarito e moderato prima di passar gli Appennini. Nella storia d'Italia Bologna ha un compito di primissimo ordine, ma a un prezzo pur melanconico e sottile! Deve essere cioè molto più importante per quel che essa elimina o corrompe o assume o combatte; provando e temperando, più che non creando. Ho anche nelle vene dal lato materno sangue tedesco e svevo. Se questa immissione ha messo qualche barbaglio inquieto e qualche durezza nel sangue dolce e pigro emiliano, è stata salutare. In ogni modo la mia disposizione a non affidarmi troppo giovialmente, come per avventura è antico vezzo cittadino, ai doni di nascita locali, e qualche volta a soffrirne, e sempre a sentire il bisogno di rendermene ragione e giudizio, non ho bisogno di riferirla al sangue, in quanto fin da che presi a discorrere mi esercitai a farmene una coscienza ragionata. Ma se il poeta è coscienza e persona dove il popolo e costume e umore, si deve concludere che un poeta difficilmente può trovare un costume popolare, in cui ravvivare la sua tempra, più fertile ed affabile e intelligente di questo bolognese, il cui maggior difetto è quello di essere troppo amabile. Né sembri un piccolo difetto, ché Dante, il Gran gerarca d'Italia, nel De Vulgari Eloquentia apprezza e predilige altamente e squisitamente il linguaggio, cioè la strumento e il documento civile dei bolognesi, ma ci tratta brutalmente nell'Inferno, fra i peccatori di due peccati che scendono appunto dalla mollezza e dalla pieghevolezza. Dunque la mia città mi ha dato un senso storico acuto e suscettibile, un senso ricco e felice della natura e della società, ma presto esauribile appunto per la sua stessa ricchezza e felicità. E così dimostra pur grezzamente il mio primo lavoro, un romanzo uscito nel 1919, e meglio, il libro da cui considero di aver cominciato: Poemi lirici, 1914. (Da La Ruota nel tempo, cap 1)

Santa Lucia. Non bisogna nascondersi le verità amare. L'Italia serbò tutto il suo costume, cosa imponderabile e preziosa, fino al Risorgimento; e ciò che non aveva potuto la servitù divisa poté la libertà unita, e glielo fece perdere. E per un popolo al quale né gli Dei né gli uomini e neppure le «materie prime» concessero mai di essere mediocre, sarebbe meglio aver costumi cattivi piuttosto che costumi di altri. Quanti sono oggi a saper che una volta Santa Lucia portava i regali ai bambini, senza pregiudizio della Befana, e quanti ancora chiamano i regali Santelucie? Chi ha conservato nella sua famiglia l'usanza, merita l'omaggio che si deve a chi serba la patria gentilezza delle memorie, della fedeltà e del buon gusto. E che significa l'Albero di Natale? Lo rispetto nelle case inglesi, lo ammiro nelle fiabe tedesche, il Vecchio Natale che va la notte fra la neve col sacco dei luminosi regali in spalla. Forse è ancora qualche ricordo delle Saghe e delle cupe e ingenue religioni forestali e minerali di lassù. Noi avevamo il Ceppo. E per Santa Lucia, sotto il più bel portico di Bologna, che è quello dei Servi, si teneva, e si tiene ancora diminuita tristemente, la fiera dei balocchi. Sono certi lavoretti di latta variopinta, che rappresentano pozzi e cucine e altri oggetti familiari. Son pecore e ciuchini. Ma è sopra tutto il Presepio. Le figure tradizionali della Madonna col Bambino, di San Giuseppe e degli Angeli e dei Re Magi e delle Bestie della Stalla, si modellano con una certa larghezza di panneggiamenti barocchi in alcuni paesi della montagna; e se credeste che fossero fatte senz'arte, sbagliereste. Anzi c'è più arte e gusto e religione nella più meschina di queste composizioni di gesso colorato, che in tutte le esperienze per le rinascite dell'arte religiosa. Era da queste generazioni secolari di artieri che in Italia uscirono gli artisti che stupirono il mondo. La più gentile invenzione, che ogni volta mi fa pensoso, è quella della Capanna. Con pochi flessibili rametti di sempre-verde, con strisce di canne tagliate per il lungo. È fatta l'armatura e il tetto della Capanna. Con qualche ramo di pungitopo dalle bacche rosse, infilato in un piede di legno, e con un tralcio di rovo è fatto l'ornamento e il bosco. E non c'è madre e padre tanto poveri da non poter fare in casa ai loro figli il presepio, secondo l'esempio di San Francesco che trovò la casta cerimonia a Greccio. Noi uomini senza fede abbiamo perduto molte cose, trovate molte altre: credo ci sia permesso di non disperarci di quelle che abbiamo perdute solo che non ci inorgogliamo di quelle trovate. Passando per il portico dei Servi, il giorno di Santa Lucia, guardo gli umili ingredienti del Presepio, e penso a quel che è uscito da quella Capanna in due mila anni. Fra le statuette e i sempre-verdi mi vien fatto un pensiero: Questo è che si chiama Simbolo. E questo pensiero quasi mi smarrisce, certo mi confonde. (Da La Ruota nel tempo, pag. 51)

Sulla Porrettana senza fumo. fin da quando il sole a Bologna sorge fra i monti e si pone in pianura, l'estate è intiera e i giorni sono di piena misura. La città infatti è semicinta a mezzogiorno da una chiostra falcata, che segna cogli estremi di destra di sinistra il levante e il ponente sulla vasta apertura settentrionale del piano padano. Questi colli sono una delle sue bellezze. Ieri sera il sole tramontando toccava già il corno sinistro dei colli. L'anno volge al calare; i contadini han già detto che la prima acqua d'agosto ha rinfrescato il bosco. E stamani il sole sta levandosi fra grandi vapori rosati dalla pianura romagnola, mentre il treno passa il ponte sul Reno. Verde è la bellezza dei colli, familiare San Luca alle viste, e il greto del fiume svaria d'erbe e di qualche pigra pozza d'acqua la bianchezza dei sassi indorata dall'alba. Supponiamo che il treno, senza fermarsi, resti qui sul ponte, e che l'alba illumini della sua luce questa uscita della stazione di Bologna per un tempo uguale a quella che la mia memoria percorre, più lesta del treno! Poco prima del ponte, a sinistra di chi parte, c'è una casa che io non posso mai rivedere senza che mi ricordi la stazione di Bologna venticinque anni fa, e il suo ingrandimento in questo tempo. E una casa di chiara e nobile architettura del Rinascimento, certo una villa, una di queste ville di bolognesi ai quali garbò tanto la campagna e che se ne fecero di così belle e cordiali. Ma era probabilmente già scaduta a casa colonica, quando la rete di scambi e di rotaie della stazione, che ormai tocca il Reno, la prese in mezzo, la circondò di fumo, l'invase di operai e di ferrovieri. L'ho vista annerire e sfaldarsi, subir nuovi insulti l'anno in anno, restar senza vedere intorno fra i ciottoli squallidi e le rotaie rugginose dei binari di manovra; l'ho vista invecchiar bene nella sua miseria, serbando nobiltà. E anche stamani la serba nei colori dell'alba, più affumicata, un po' più cadente, più stanca dell'ultima volta, e un po'meno prossima. La casa è amica mia, e dire che mi sorride... il treno, uscito dal ponte, risale il fiume, che non abbandonerà fino a Precchia, sul sommo del passo, e corre lungo la bassa riva di Casteldebole, umile borgata. Bologna ora si leva nella rossa polvere dell'alba. Grande e lieve la nave di chiesa San Petronio, alta e slanciatissima la Torre: io ripenso per l'ultima volta alla stazione, e com'era ai tempi miei di ragazzo. Non c'erano pensiline nè sotto-passaggi, cose di cui si cominciava a parlare come robe tedesche. C'era una fumosa tettoia, rovente d'estate e dentro la quale di inverno la tramontana, ingolfandosi di straforo riusciva a cacciar nebbia mista col fumo. Dolce cosa era entrar rabbrividendo nei vagoni scaldati e mettere i piedi sui sudici e madidi scalda piedi a acqua calda. E se c'era neve, il bianco si sposava così lietamente col nero delle strade ferrate!

Bologna era, ogni bolognese lo sapeva ripetere con tal quale orgoglio, il centro ferroviario più importante d'Italia. Si partiva per fare la Porrettana con molti avvenimenti. Bisognava, finché durava la salita tener ben chiusi i vetri, se no guai col fumo delle gallerie, quarantotto in tutto, se ne sbaglio. Ma da Precchia in giù si poteva aprire. Il fumo non entra nelle discese. Il fatto sta che una volta, ragazzino, quasi ci restai asfissiato sotto una di quelle terribili gallerie, per un incaglio della locomotiva. E a lunga se ne discorse poi al ripassarci ogni anni a primavera e dopo l'estate, che andavamo colla famiglia a passare in Toscana. Era per noi ragazzi un gran lavorare, e d'importanza, attorno ai finestrini prima e dopo l'acre, buio, afoso passaggio sotto terra. C'è un tratto dove le gallerie si seguono e s'incalzano. Mi ricordo gli spicchi di monte e e forre di quercioli e di castagni e poi di faggi, i gomiti del Reno precipite e tortuoso, i tetti scuri dei paeselli e i lembi alti e fuggitivi di cielo, colti festosamente fra galleria e galleria. Tutto questo lavoro, e anche questa festa ingenua, ci sarebbe risparmiato oggi che la linea è di fresco elettrificata. Ci sarebbe risparmiata anche se fossimo ancora ragazzi. Per quanto, io su queste linea non sono certo i ridiventarlo alquanto. E naturalmente, mentre apprezzo il comodo e la pulizia che fanno ora di questa già disagiatissima Porrettana una fresca gita sull'Appennino, sento già un poco di nostalgia per il fumo d'una volta. Così siam fatti. Dico che mentre la memoria aveva già percorso tutte le stazioni e passava vent'anni, il treno accelerava ed entrava appena ora in Val del Reno. La nera e bisunta vaporiera, ha un che di vivente nell'ansito della sua calda fatica; l'andatura della linda motrice elettrica è invece liscia, irreparabile, vorrei dire disastrosa, come la caduta d'un grave, come la rapina dell'acqua. Infatti è una «corrente» quella che ci porta; è un poco di corrente cosmica catturata e deviata sugli assi della motrice, come l'acqua sulle ruote del mulino. Ecco le sterili argille dell'Appennino bolognese, sterili come se volessero testimoniare ai secoli un tempo in cui qui non c'era l'uomo né la vita terrestre, ma il mare di cui restano le conchiglie. Ecco i cipressi sparsi e in fila abbelliscono le colline crescenti. La mia memoria comincia a cedere al treno, e l'ultimo ricordo caro mi viene dalla grigia mole intravista a gran velocità della chiusa di Casalecchio. Il Reno è un avaro fastoso, che alle sue ore spende in una settimana di piena quel che ha risparmiato in undici mesi di magra. Così fu che un giorno si portò via di netto chiusa di Castelvecchio, ponte della ferrovia, argini a miglia; e coprì vaste regioni della pianura bolognese e ferrarese. Grande lavoro per la Provincia. E io ho un ricordo vago e lontano delle lunghe tavole imbandite alle centinaia di operai su assi da muratori nei pressi della chiusa ricostruita, alle quali presiedeva mio padre. Un banchetto, chiamati in bolognese «bandiga», si suole offrire in Emiliano ai lavoranti, terminato il lavoro. Ecco sul greto i blocchi immani di calcestruzzo della chiusa vecchia, scalzati, divelti, dispersi, come ciottoli, da quelle segrete leve irresistibili del fiume nel giorno della rotta. Ora, a quel che si dice, le dighe dei bacini, dando la forza che ci trasporta frescamente sull'Appennino, regoleranno anche il corso di questo ignavo e prepotente torrentaccio e dei suoi affluenti, e gli impediranno di riimprovvisare i suoi formidabili giunchi. Ecco il primo tunnel. Veramente mi sorprendo a non averci potuto credere finora, che si possa far la Porrettana senza fumo. E quasi la mano m'era corsa al finestrino per chiudere. Ma s'io raccontassi il viaggio galleria per galleria, non finirei più, e i narratori devono tener presente che i loro ricordi rischiano a un certo punto di annoiare gli ascoltatori, appunto nella misura in cui interessano sempre più il narratori. Il quale in questo caso domanda scusa. (Da «Bella Italia», cap.1)

Selciati e selcini. Stanno riattando il lastrico di strada davanti alla casa dove abito. È selciato, di quello che d'anno in anno, nelle città grandi e piccine, si vien facendo più raro: odo l'acciottolio dei sassi che i manovali caricano sulla cariola e versano accanto agli operai; stride lieve sulla sala la ruota unica; sento il tinnire alterno e continuo delle martelline. Ah, che non mi occorre d'affaciarmi per vederli i selcini, per rivedere i «salghêin» come si dicono nel dialetto nativo, della mia infanzia. Sul filo dei suoni, a ritroso del tempo, la memoria ricupera come sull'ala d'una musica, oh fratello grande Baudelaire, come sull'onda di un profumo, cose ed anni che non son più; e la dolcezza è maggiore dello sgomento d'accorgermi quanto sian lontani e diversi. Li vedo all'opera. Accosciati sopra una gamba ripiegata, rattratto l'altro ginocchio fin sotto il mento, cotesti alacri spianano il «letto» di rena pulita con la larga «penna» della martellina, e intanto scelgono dal mucchio a portata di mano il ciottolo opportuno; scavano l'alveolo; svolgono sul palmo della sinistra il sasso per il verso buono, e lo assestano nel luogo in cui si adatta. Picchiettando con lo strumento arguto, lo fanno calzare cogli altri già sistemati. Né, mentre una mano trasceglie, soppesa, rivolge, adatta i ciottoli, smette nell'altra di Cantare la martellina. Il tinnulo scrosciò s'interrompe soltanto quando il selcino rivolta brevemente la penna, perché il lavorante continua con polso mollo a martellina rimbalzante a picchierellare sulla lista del selciato recente, sia per assestarlo meglio e rassodarlo, sia per serbare la cadenza, condizione indispensabile del lavoro agevole, lesto ed esatto. Quanto mi è caro questo suono che un tempo era così diffuso e famigliare nelle strade della porticata città nativa e di tutta la selciata Emilia; e quali volti rinnova nel fondo dell'animo attraverso il velo, che offusca ma non oscura la mente lontana, detersa nel pianto, nostro retaggio di figli d'uomini, inevitabile dono degli anni e del destino. I monti prossimi all'Emilia e alla Romagna non danno pietre adatte per lastricare le vie, e ai tempi di cui discorro il costo dei trasporti pesava troppo sui prezzi e sull'economia dei saggi amministratori. Ciottoli, i nostri fiumi con le loro piene brevi e rapinose, con la pazienza dell'acqua, ne levigavano e trasportavano giù dai monti quanti e più potesser metterne in opera generazioni di selcini intere. La lenta lima del fiume del fiume li riduce in forma che tende all'ovale, atta a tenerli in sesto nella stipata, durevole compattezza del selciato, amaro ai piedi non avvezzi di forestieri, ma sul quale noi sappiamo camminare per antica abitudine.

Gli ingegnosi muratori etruschi, nella pianura abbondante di greti fluviali, non poteron mancar d'inventare e di adottare il selciato, così come adoperavano ciottoli a secco per la foggia delle tombe scavate in terra molle. Non sarà questa una scoperta, ma certo un pretesto per fantasticare, mentre le martelline tinniscono sotto la casa dove abito. E mi ritrovo, coi temi andati sotto i portici angusti popolari, bui nelle lunghe invernate, dove il caldarrostaio rimestava le castagne nella padella bucherellata, e via via che arrostivano al fuoco lento della carbonella, le riponeva a maturare delicatamente la cottura nel loro proprio sotto il coperchio tondo del canestro di paglia. Non lontana la «mistocchinaia» cuoceva sulla piastra del suo fornello quella specie di focacette infarinate, le «mistocchine», gratissime all'odore, quanto men buone, almen per me, al sapore. La neve copriva le strade, ma quando veniva la bella stagione uscivano i selcin col piccone, con la martellina, con le carriole al lavoro. Squadre gagliarde, coi pesanti pazza-picchi, battevano poi in cadenza il selciato nuovo, cosparso di rena fresca... (Dal Corriere della Sera, gennaio 1936)

Testo tratto da 'Bologna negli scrittori italiani - RICCARDO BACHELLI' nella rivista 'Il Comune di Bologna', luglio agosto 1939. Trascrizione a cura di Zilo Brati.