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Nino Bertocchi detto/a Giuseppe

9 Luglio 1900 - 23 Giugno 1956

Scheda

Giuseppe Bertocchi, detto Nino, nasce a Bologna il 9 luglio 1900 da Enrico e Amalia Scaccieri. Laureatosi in ingegneria civile nel 1923, esordisce come architetto per poi dedicarsi come autodidatta alla pittura e alla critica d'arte. Si forma guardando la pittura di Luigi Bertelli, dei macchiaioli e dei maestri Corot, Courbet e Cèzanne. Rimane legato ai valori tradizionali dell'arte dedicandosi soprattutto alla pittura di paesaggio e rimanendo isolato rispetto alle avanguardie. Partecipa ad importanti manifestazioni artistiche come la Permanente del 1948, le Quadriennali romane del 1931, '35 e '47 e le Biennali veneziane del 1930, '32, '36, '48 e '50. Nel 1924 e 1926 espone alla Francesco Francia di Bologna. Dal 1931 Bertocchi collabora con testi, disegni e incisioni alla rivista L'Orto, e con diversi quotidiani quali Il resto del Carlino, L'Avanti, L'Avvenire d'Italia, Il Popolo d'Italia, Rinascita, Domus, Casabella. Insieme a Ferruccio Giacomelli dedica un volume a Luigi Bertelli nel 1920. Dal 1940 ricopre la cattedra del corso di scenografia all'Accademia di Belle Arti di Bologna. La pittura ha rappresentato per lui una vera vocazione, basti ricordare che il dipinto Ultime rose viene terminato dall'artista il giorno prima della sua morte, avvenuta il 23 giugno 1956 a Monzuno.

In collaborazione con Galleria Artifigurative Crespellano

Intellettuale del razionalismo, Bertocchi (conosciuto soprattutto come «pittore morandiano») è figura tutta da indagare.
Laureatosi nel 1923 con un progetto di cimitero relato da Attilio Muggia, la sua produzione di critico dell'architettura, dispersa in innumerevoli riviste, si accompagna a pochissimi progetti realizzati (padiglione dei tessili alla IV Mostra corporativa dell'agricoltura del 1935, villa in Toscana, qualche arredamento).
Nel 1945 approda al Movimento per l'architettura organica e lotta per una «società democratica» rigenerata da un riformismo assai vicino alle posizioni di Bruno Zevi.
Il dialogo che s'instaura tra Bertocchi e i «moderni» muove dal superamento della storia dell'architettura «fatta per lare architettura».
Le sue posizioni maturano sul tragitto faticoso Venturi-Piacentini-Giovannoni-Pagano-Zevi nel tentativo d'instaurare una critica globale del moderno superando le «piccole storie» per cercare le grandi narrazioni che costruiscano e riconnettano gli eventi.
In un momento dove «non fare polemica» sembra encomiabile atteggiamento dei più, dove il dissenso malamente e incomprensibilmente si esprime e la «Storia» è silenzio, le parole di Bertocchi suonano come quelle di Loos. Imperiosamente ci chiamano fuori dal particolare aizzandoci «religiosamente» a resistere alla paura del mondo.
Nel saggio Necessità di una critica architettonica apparso su «Arte mediterranea» nel giugno del 1935, Bertocchi riassume così il suo pensiero: «Per questo ha ragione Persico, in nome di una seria cultura afferma la necessità di un "punto e da capo" per l'architettura. Si è visto qual è il metodo che potrà usare una critica intesa a rimettere ordine nei fatti architettonici.
Da ora in avanti non basteranno più i riferimenti culturali generici, le indicazioni di carenza non motivate [ . . . ] , le polemiche a vanvera sull'uso di determinate strutture: chi intenderà fare critica d'architettura dovrà entrare nel vivo della creazione architettonica, approfondire la conoscenza di tutti i processi costruttivi moderni, indagare sui rapporti che abbiamo visto intercedere fra le teorie matematiche, il calcolo statico e le forme strutturali più nuove; seguire da vicino l'architetto nel suo procedere dalla conoscenza dei dati tecnici, economici, sociali, psicologici, alla concezione delle strutture espressive; interpretare esattamente il significato delle immagini che l'architetto realizza, all'infuori d'ogni allegorismo generico o di ogni espressionismo gratuito.
Dovrà inoltre contribuire alla chiarificazione delle idee in fatto di "tradizione", di tutti i concetti che entrano a far parte di un'estetica generale; e soprattutto dovrà avviarsi alla scoperta dei veri "bisogni umani", delle profonde e non apparenti necessità dell'uomo moderno. Potrà accadere che a un certo punto crollino tutte le impalcature di una pseudo-estetica originata da una concezione eccessivamente pratica e utilitaria del vivere attuale, abbattute dal soffio di una delle "passioni collettive" che, al dire di Le Corbusier, a una cert'ora "sollevano un'epoca". Potrà darsi che codesta passione non sia soltanto quella dell'"esattezza", che l'Esprit Nouveau si riveli più ricco e più inquieto di un freddo "spirito geometrico"».