Bartolomeo Pinelli a Bologna

Bartolomeo Pinelli a Bologna

1792 | 1799

Scheda

Poco è noto che Bartolomeo Pinelli (Roma, 20 novembre 1781 – Roma, 1º aprile 1835) ha vissuto a Bologna per sette anni. Trasferitosi insieme ai genitori, era poco più che un bambino. Nella città felsinea troverà dove muovere i primi passi della sua formazione artistica ma dovrà poi velocemente allontanarsene. Cesare G. Marchesini così sintetizza la sua permanenza emiliana:

“A Roma. Trastevere sul finire del settecento. Per le strade il solito via e vai di gente. Dentro le botteguccie gli artigiani si affacendano attorno ai loro quotidiani lavori. Sopra d'uno di questi negozietti appare una scritta pomposa, “Scultore”, e nell'interno Giambattista Pinelli, romano puro sangue, sbozza nel marmo bassorilievi funebri e forma con la creta umili figure di Madonne e Divin Bambini, grassottelli e sorridenti, che mandano in visibilio le pie femminuccie del rione. Gli affari, però, malgrado la sua duplice attività, non gli vanno troppo bene. Per i ricordi cimiteriali la gente si rivolge altrove, ed i preti, che s'accontentano delle sue rozze statuette religiose, si fanno ogni giorno più radi. Dopo varie disavventure romane, Bartolomeo Pinelli, pensa e ripensa, finalmente trova la soluzione. Fuggire da Roma. Fra le sue conoscenze c'è pure quella di un prelato bolognese. Giambattista gli si rivolge senz'altro e gli chiede una raccomandazione per qualche nobile petroniano. Ricevuta la missiva, fa in fretta e furia i bagagli, e di nascosto, senza che nessuno se ne accorga, con la moglie Francesca Cianfarani, trasteverina pure lei, col figlio Bartolomeo che ha già i suoi sedici anni, essendo nato in Roma il 19 novembre 1781, ma che più ne dimostra, per essere un ragazzone grande e grosso quanto un facchino del borgo, abbandona la sua cara e vecchia casa romana e se ne viene ad abitare a Bologna. La lettera commendatizia, che l'amico del Pinelli gli aveva rilasciata, era diretta al principe don Giovanni Lambertini, pronipote del famosissimo Papa Benedetto XIV. Giambattista vi si recò subito e lo trovò nel suo bel palazzo di strada Santo Stefano, la cui facciata, classica e maestosa, guardava la breve piazzetta di San Biagio, L'accoglienza fu quanto mai cordiale, ed il disgraziato scultore trasteverino non si riprometteva d'incontrare di meglio. Il principe Lambertini era il vero e degno erede del grande avo pontefice. Cuor d'oro ed animo accogliente. Signore, non solo di ricchezze, ma soprattutto di grandi doti personali, la sua casa era sempre aperta agli ospiti, da qualunque parte si venissero ed a qualunque categoria sociale si appartenessero. Attorno alla sua larga tavola, tipicamente ed abbondantemente imbandita, sedevano ogni giorno, accanto ad autorevoli personaggi, artisti di ogni arte a tenere lieti, con l'anfitrione, i molti commensali. Di modi democratici, quando la rivoluzione francese sconvolse la pacifica vita che s'andava conducendo all'ombra delle due Torri, egli fu il primo nobile ad accogliere con entusiasmo le idee egualitarie, portateci da oltre Alpi. Giunse, perfino, durante una manifestazione popolare, a caricare sulla sua lussuosa e dorata berlina i servi migliori, e lui, su in alto, come un vecchio postiglione, a guidare i cavalli. In casa di questo simpatico principe la famiglia Pinelli veniva accolta con maniere veramente signorili. In un piccolo appartamentino del grande palazzo i tre esuli romani trovarono modo di albergarsi convenientemente, mentre il giovane Bartolomeo, che già mostrava i segni della futura grandezza artistica, doveva inoltre accaparrarsi nel munifico benefattore un intelligente mecenate. Il Lambertini comprese subito la genialità dell'artista romano e colpito dalla prontezza di mente del giovane ospite, che anche allora coltivava contemporaneamente sia la scultura che la pittura, gli procurò un posto nella locale Accademia delle arti e volle che seguisse i consigli del pittore Giovan Battista Frulli, intimo di casa. Gli insegnamenti del Frulli, artista eclettico di grande sapere più che di vero genio, trovarono nel giovane Pinelli un ottimo terreno per prolificare, poiché se il simpatico artista romano non fu influenzato dalla pittura del maestro bolognese, egli fu poi notevolmente grato, perché, fra l'altro, il Frulli lo indirizzò verso l'incisione, di cui doveva divenire immortale cultore. In quel breve periodo, che ebbe la durata di neppure due anni, il Pinelli partecipò attivamente alle battaglie artistiche del luogo. Per questo nel 1798, appena diciassettenne, s'inscrisse ai concorsi banditi dall'Accademia Clementina, e con un bassorilievo, “Bruto che condanna a morte i propri figli”, vinse il premio Marsigli. Lodevole riconoscimento, sebbene lo stile dell'opera, da lui presentata, doveva essere in seguito completamente dimenticato. Infatti il suo lavoro, rigida e fredda cosa neoclassica, nulla aveva iin sé di quella vivezza, che fu la base di tutta la molteplice e semisecolare attività del trasteverino “Sor Meo”. Pur avendo eseguita una scultura abbastanza notevole, la sua arte risentiva non poco della maniera di Giacomo De Maria, insegnante locale e gran direttore della plastica bolognese, che iniziati i suoi giovanili passi con la polputa e vivace “Sacra Famiglia” ancor oggi visibile sotto il portico di Palazzo Tanari, in via Galliera, magnifica promessa di un radioso domani, sìera, poi, perso fra i meandri di un antipatico frigidismo canoviano. A Bologna, per tutto ciò, il nostro Pinelli ci si trovava proprio a suo agio e senza dubbio vi sarebbe rimasto a lungo se una complicata avventura amorosa, che poteva terminare nel tragico, non l'avesse obbligato a ritornare frettolosamente alla natìa Roma. La faccenda andò così. Bologna, allora più di adesso, albergava dentro le sue vecchie mura un bel numero di compagnie drammatiche. C'erano i dilettanti, che recitavano sotto i vigili occhi dei genitori, delle insipide commediole in versi, e c'erano i raminghi guitti, che col loro misero bagaglio si portavano da un sito all'altro per rappresentare delle allegre farsaccie, che facevano andare in sollucchero il popolino, mentre oscuravano il pacifico volto del revisore pontificio. In queste compagnie non mancava mai la piroettante ballerina, croce della curia arcivescovile e delizia della vociante platea.

D'una di queste sgualdrinelle, che con quattro sgambetti e tre sberleffi tenevano allegro il teatro, s'innamorò il Pinelli, che portato per doti naturali verso i miraggi del palcoscenico, coadiuvava pure lui, come attore di second'ordine, all'opera dei miseri nomadi artistucoli. Fin qui nulla di male, poiché bel ragazzone quale si era, piacque senz'altro all'attricetta, che lo elesse all'onorato ruolo di proprio amante. Ma il brutto si venne dopo. Per un poco tutto fiò nel miglior ordine ed i due piccioncini se la tubavano bellamente, senza che una sia pur minima nuvoletta turbasse i rosei orizzonti. Poi vennero i dolori. La ballerina, di umor volubile,e poco fidabile, si sarebbe voluta permettere qualche scappatella. Il Pinelli, vero sangue trasteverino, pieno di fuoco e di ombre, invece le stava sopra con due occhiacci terribili e gelosi, che mettevano i brividi al solo guardarlo. Da qui liti che non finivano mai, e pianti da una parte ed imprecazioni dall'altra, e giuramenti e digrignare di mascelle. La commedia, quei due la rappresentavano sulla scena, ma la tragedia la recitavano sul serio dopo lo spettacolo. Una sera però la quotidiana scenata assunse un tono più drammatico del solito. Bartolomeo aveva in mano le prove del tradimento. Le parole giunsero alla cruda rudezza. Invano la ballerina scongiurò l'irato amante, che, accecato d'ira, preso un vaso di fiori, casualmente appoggiato su di un tavolinetto del retroscena, con tutta la sua forza lo infranse sulla bizzarra testa dell'infedele donna. La femminuccia con un grido cadde al suolo, mentre un piccolo fiotto di sangue gli arrossò lo sbiancato volto. Subito attorno alla coppia corsero i compagni d'arte. Le donne gridavano come ossesse, gli uomini facevano baccano pure loro. Un vero pandemonio. Corsero le guardie papaline per arrestare il truce ribaldo, e vennero quelli della compagnia della Buona Morte a soccorrere la disgraziata ballerina. Grazie a Dio la ferita dell'attricetta era cosa da nulla ed il Pinelli potè subito ritornare nel suo piccolo appartamento del Palazzo Lambertini. De complicato accidente, però, volle curarsene la polizia, ed il principe mecenate, dopo avergli donata una discreta porzione di argentei scudi, convinse l'artista romano a lasciare Bologna. Così il Pinelli, chiusa la parentesi petroniana, ritornava nel suo vecchio Trastevere, che doveva immortalare con le sue gloriose stampe”.

Bartolomeo Pinelli avrà modo di rivedere il maestro Frulli, quando questi si recherà a Roma, occasione che l'allievo colse per ringraziarlo degli insegnamenti ricevuti da giovane a Bologna.

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