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Antiche tradizioni di Pasqua dei medicinesi

1915 | 1950

Schede

“Csa stiv zinquantèr ragazóli, csa pirandlìv alé: al prit al s’aspeta in tla cisina dla Salut” che era, nelle diverse ore, il luogo di raduno da cui si partiva, formando una breve processione dietro al Parroco e ai chierichetti con la cotta bianca, portanti una grande croce di legno. Tutti insieme pregando ad alta voce, ci si recava nella chiesa parrocchiale, molto vicina, per l’Adorazione del Santissimo. “Al sauna bèle al dòppi ch’as ciama a l’arcólta: a si dil tintinbriga che al lavurir ai murì invåtta. Nó, avèn finì da un pèz”.

Si era nella settimana di Pasqua e nella chiesa parrocchiale erano iniziate le “Quarant’ore di Adorazione” che, per tutti, a Medicina erano “Il Quant’aur”: ad ogni contrada ed ad ogni via del paese era assegnata un’ora e un giorno. “It béle stè a fèr l’aura in cisa?”. “Mé sé, e té?”, “Soncamé, e po’ a son stè dau aur a preghèr”, “Sorbla, ti béle a post enc par stetr’an”. “An sé mai, l’é méi tor al tèmp in avantaz”: erano discorsi che si potevano sentire in quei giorni sotto i portici del paese. Come tutti gli anni, dalle 17 alle 18 del martedì c’era il turno della gente del Borgo. Nel “Camaròn di Peli” le lavoratrici più anziane incitavano quelle tra le giovani che, avendo spesso il pensiero altrove, non avevano ancora terminato il lavoro della giornata. “Vgnìv o stiv, a si lónghi cme la Måssa Cantè e l’an dla fam. Me a dègg ch’avi dla sgadèzza al post dal zarvèl”. Qualcuna “dimondi znaciàuna” riusciva, di soppiatto, a sottrarsi all’impegno e a non associarsi al gruppo in partenza. Le più diligenti, invece, avevano portato con sè, da casa, anche qualcosa per cambiarsi un po’ l’abbigliamento da lavoro: una gonna rispettosa dell’ambiente nel quale si andava, un pó ed tunilèss, per il viso, un pettine “par raviér i cavì insgumbié” o per coprire “quelca sciaranzèla”, un fazzoletto o una “vlåtta” da mettere in testa come alle messe della domenica, perché allora era obbligatorio, per le donne, avere in chiesa sempre il capo coperto. “Andèn, nuétar a partèn, vuétar arangiv mò”. “Vriv vgnir cun no, Medeo, a guadagner al Paradis?”, “Al savì pur che mé a voi andèr a l’inferan parché a lè a jé totti il bèli dòn”. Era il mio bisnonno, quasi novantenne, che non ci vedeva più, non camminava se non sorretto - a respir saul diceva - ma che non aveva perso il suo spiccato senso dell’umorismo.

Viveva assieme a tutti noi perché, ogni giorno, veniva accompagnato a sedere, nella contrada, in una seggiolina bassa, appoggiata al muro della casa vicino all’ingresso del Camerone; spesso aiutava anche a “scanlèr la pavìra” in cui era maestro, perché l’aveva fatto per tutta la vita lavorando le erbe palustri. Per “scanlèr” bastava solo il tatto delle dita delle mani e l’esperienza che lui aveva in abbondanza. Ogni tanto le lavoranti gli chiedevano “Medeo, vriv quèl, aviv said, gil bèn s’avì bisogn”, e lui era felice di far parte del gruppo, di esser coccolato. Quando le giovani gli passavano davanti per andare in chiesa all’Adorazione, diceva loro: “Quend a turní a chè a cardì d’avair guadagnè al Paradis: sé sé chi an v’cgnusséss; dmandì almènc a Nostar Sgnàur c’ al’sèra un òcc o tótt e du quènd a fi quelca sumarè o dil stupidagin da povar quia”! La mattina del Venerdì Santo, il gruppetto si ritrovava in chiesa a un’ora convenuta per recitare, ogni persona per proprio conto, in raccoglimento silenzioso, come si diceva “le Cento Ave Maria” davanti al Sepolcro allestito dal parroco. Era una devozione che credo conoscessimo solo noi del Borgo e, in particolare, quelli della zona del Norge e “dal Palaz Réèl”. Era una preghiera antica di origine popolare, che è stata riportata integralmente in uno dei racconti del “Brodo di serpe” dell’anno 2013 n. 11. Il Sabato Santo, andare in chiesa a far benedire le uova era un rito che piaceva a tutte. Io mi aggregavo al gruppo perché si può dire che, vivendo in casa dei miei nonni, ero sempre assieme a tutti e ne ho respirato il modo di fare, di vivere, la cultura popolare, il senso della collaborazione e dell’aiuto reciproco, il senso dell’umorismo e soprattutto la lingua, il suo lessico e le sue sfumature: è la mia lingua madre di cui vado orgogliosa. Il percorso di vita che ho fatto dopo, non mi ha affatto cambiata nell’animo, anzi mi ha aiutata a rendermi conto della positività di ciò che avevo respirato e appreso vivendo con le persone nelle contrade: “i ruglétt” poi erano meravigliosi!

La mattina del Sabato Santo si metteva fuori dalla porta di casa, sulla strada, una catinella di acqua e si aspettava che a mezzogiorno “i slighéssan il campén” (come avveniva prima del concilio). Tutti erano un po’ infervorati. I bambini, se erano piccoli insieme con i padri si erano premuniti di petardi per “ammazzare Barabba” simbolicamente. Le campane non avevano suonato per due giorni sostituite nelle funzioni, per rispetto del Cristo morto, dal fragore dla scarabàtla. Piccoli e grandi erano tutti attorno alla bacinella per bagnarsi gli occhi al primo tocco, con l’acqua che si diceva benedetta e poi i bambini e, perché no gli adulti, avrebbero cominciato a far scoppiare i petardi: “Amazèn Barabba! Amazèn Barabba!”. Quando si sentiva nel silenzio, che regnava attorno, il suono particolarmente gioioso delle campane, si alzava un urlo di gioia da parte di tutti i ragazzini. Era un momento molto emozionante. Tutti, piccoli, grandi, e anziani, aiutati dai presenti, in quella atmosfera festosa, si bagnavano gli occhi con devozione. Qualcuno ripeteva: “Che Senta Luzì l’as lasa la vesta: Sgnaur a m’arcmènd”. Lo scoppio dei petardi durava anche qualche ora. C’era sempre nel tripudio generale, una nota un po’ stonata di qualche madre innervosita: “Cioo, quènt èt spais in chi qui alé. An son mia la fiola ed Benelli va mé; a lavaur tott al dé cun la schina pighé al saul, sa voi che la baraca la staga dretta”. Il bambino rimaneva un po’ silenzioso poi correva via con gli altri che andavano ad aggregarsi agli amici che facevano gli scoppi in Piazza Garibaldi. Tutto il paese era interessato. Era un momento che agitava gli animi: dalle giornate precedenti, con cerimonie in una chiesa disadorna e con processioni, la sera, con canti tristemente toccanti, si passava al tripudio generale: “Cristo era risorto”! Ricordo che io, bambina, rimanevo ogni volta impressionata dai canti della Passione: “Sono stato io l’ingrato, Gesù mio perdón pietà”: questa frase mi colpiva in particolar modo. Noi bambini andavamo in processione con la “fascia” a tracolla, blu per i maschi, bianca per le femmine; se non si arrivava in tempo dalle suore del Partenotrofio si rimaneva senza. Una volta accadde anche a me; non volevo più andare in processione, ma alle esortazioni delle suore, di mia madre e di mia zia dissi: “Ai andrò, mo an chènt brisa”. Senza fascia si rimaneva gli ultimi e in più “as féva fadiga a mandel zò”. 

Il lunedì di Pasqua, si andava tutti a Ganzanigo dove le case erano piene di parenti e amici , invitati per festeggiare le “Quarant’Ore” che si svolgevano in quella chiesa. Regina della tavola in ogni casa era la torta di riso, che così speciale, oggi, raramente si sa fare; e c’erano il brazadlin ed Ganzanig con il rosso d’uovo spennellato sopra, che erano uniche e le vendeva Baravèl cun la su panira al braz. Non mancava del vino buonissimo, molto spesso fatto nelle cantine delle varie famiglie in ti tinaz ed lågn ed cal bon. La sera, al ritorno al paese a piedi, tutti insieme, ci si rammaricava che il lunedì di Pasqua di Ganzanigo arrivasse solo una volta all’anno, perché si era stati tutti assieme e si aveva ricevuto la generosità dei parenti e degli amici, ci si era divertiti come a una gioiosa festa in famiglia. Oggi per trascorrere giornate felici e serene il progresso ti manda alle Seicelle, nelle località eleganti del Mar Rosso o addirittura nelle isole dei Caraibi… Mò cum la mittègna po’ cun al catuén? An y vol mia di scumprozz: bisogna tirer fòra d’la fuiàza! E s’t’an l’è brisa? Stè a chè a fer arabir pr’al narvaus chi t’è d’intauran. 

Giuliana Grandi

Testo tratto da "Brodo di serpe - Miscellanea di cose medicinesi", Associazione Pro Loco Medicina, n. 15, dicembre 2017.