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Angelo Venturoli e Medicina

1749 | 1821

Schede

Grazie alle note pubblicate dal Bolognini Amorini, nel 1827, tutti i riferimenti biografici successivi riguardanti Angelo Venturoli riportano puntualmente nascita e origine famigliare "in Medicina, feracissima terra del Bolognese…". Per quanto il periodo trascorso da Angelo nel luogo di nascita sia stato breve (non oltre gli otto anni di età) i suoi rapporti con l’ambiente medicinese, sia sotto il profilo personale che professionale, sono caratterizzati da ininterrotta attenzione, stima e disponibilità. Pur non disponendo di materiale documentario più che consistente che attesti questo particolare legame, si può fare riferimento però a non poche tracce, tra la corrispondenza, tra gli atti esistenti in vari archivi e tra le ordinate carte del Collegio Venturoli, che permettono di aggiungere non poche notizie utili ad ampliare la conoscenza personale e professionale dell’architetto.

LA FAMIGLIA | Il Bolognini Amorini scrive che Angelo Venturoli nacque “il giorno 8 gennaio dell’anno 1749, ed ebbe a genitori Domenico Antonio Venturoli, e Maria Caterina Orfei, di povera condizione bensì, ma di specchiata onoratezza”. Certamente l’autore dell’Elogio per “povera condizione” intende forse uno stato non particolarmente ricco o di rango non elevato perché non può ignorare come il padre di Angelo, Domenico Antonio , per quanto non agiato, difficilmente avrebbe potuto sposare Maria Caterina Orfei, figlia del “Signor Lorenzo Orfei” e di Ursula Ghelli, entrambi appartenenti a famiglie del ceto benestante ed emergente all’interno della comunità medicinese. Il Signor Lorenzo, oltre che ricco commerciante di canapa, rivestiva il ruolo di Capitano delle milizie locali, perciò viene sempre indicato come il “Capitano Orfei”. Alla stessa famiglia appartenevano, fino dal secolo precedente, personaggi distinti in campo civile, ed anche negli ambiti ecclesiastico e culturale; tra questi, nel settore dell’arte figurativa, è ricordata la pittrice Isabella Sandri Orfei. Situazione analoga caratterizza la famiglia Ghelli, alla quale appartiene Ursula, nonna materna di Angelo e sua madrina di battesimo: figlia di Francesco “celebre pittore”, afferma Evangelista Gasperini, e nipote di Don Giovanni Ghelli, arciprete di Medicina e membro dell’Accademia degli Illuminati, oltre che stretta parente di altri personaggi distinti nel governo della Comunità e nella cultura locale. Difficilmente, se “povera”, Maria Caterina, rimasta prematuramente vedova del marito appena trentenne, avrebbe potuto – sia pure con l’appoggio dei parenti – avviare agli studi superiori in Bologna sia Angelo che il fratello maggiore Vincenzo. La posizione economica e sociale della famiglia Venturoli a metà Settecento non presenta certo la consistenza degli Orfei e dei Ghelli; i vari rappresentanti di questo nucleo famigliare vengono generalmente indicati come attivi nel commercio e nell’artigianato urbano. Il padre di Angelo, Domenico Antonio (nato a Medicina nel 1724 e qui morto nel 1754), è il terzo dei cinque figli di Giuseppe (sposato a Medicina nel 1717); quest’ultimo viene indicato come appartenente al ruolo degli aventi diritto a godere dei terreni della Partecipanza di Medicina, figlio di Lorenzo e originario di Poggio di Castel San Pietro. Desta interesse la circostanza del trasferimento a Bologna, un paio d’anni dopo la morte del marito Domenico Antonio, di Maria Caterina (o più semplicemente Caterina), con tutti i figlioli: Maria Rosa, Vincenzo, Angelo e Angela. Non è ancora chiaro il motivo per cui, anziché restare a Medicina sostenuta dalla propria famiglia Orfei o appoggiata ai cognati Venturoli, Caterina decida di portarsi stabilmente a Bologna accolta e inserita nella casa di Don Luigi Dardani, sacerdote, scultore, bene introdotto e stimato nell’ambiente artistico e culturale della città. Il primo biografo di Angelo Venturoli, Antonio Bolognini Amorini, così scrive nel suo Elogio: “Rimasta la madre sua assai presto vedova con quattro figli, due femmine cioè e due maschi, se ne venne nella città di Bologna, onde avere più agevole modo di allevare ed istruire l’orfana famigliola; fu essa dall’onoratissimo D. Luigi Dardani, di lei affine, accolto in casa, ed aiutata in ogni maniera…”. Di questa affermata parentela non sono stati per ora documentati il grado e l’origine; da cronache medicinesi del Settecento si viene a conoscenza che artisti del ceppo Dardani di Bologna avrebbero origini, non precisate, medicinesi. È ancora il cronista Evangelista Gasperini che annota sul suo Diario nel giugno 1738: “In questi giorni pure la nostra Comunità fa fare tutte le mutazioni di scene nel suo Teatro con farlo accomodare alla maniera dei più celebri teatri di Bologna, e per quest’effetto si è portato in Medicina il Sig. Pietro Scandellari, insigne pittore d’architettura bolognese, e il Sig. Giuseppe Dardani originario di Medicina, pronipote del fu Fr.(sic) Giuseppe Dardani anch’egli insigne pittore…”. Il “Signor Giuseppe Dardani” (Bologna 1693-1753) era zio paterno dello scultore accademico clementino Don Luigi (Bologna 1723-1787) e padre di due pittori: Paolo (Bologna 1726-1786) e Pietro (Bologna 1727-1808). Dagli anni 1773 fino al 1790 nella casa di Don Luigi Dardani, in Via Castiglione, all’allora numero 5, abitano “Caterina Orfei vedova Venturoli e i figli Vincenzo, Angelo e Angela”; della figlia maggiore, Maria Rosa, non viene fatta menzione in quanto già andata sposa in Roma al “Signor Alessandro Bacchelli”. Nel 1769, allo stesso numero di Via Castiglione, forse non casualmente, si trovano ad abitare Petronio Tadolini e Vincenzo Torreggiani. È dunque in questa rete artistica parentale, a Medicina e soprattutto a Bologna, di non elevato spessore ma di estese relazioni, che Angelo Venturoli viene formato culturalmente, nella sua vocazione artistica ed anche nelle riconosciute qualità umane.

RAPPORTI DI ANGELO VENTUROLI, ARCHITETTO, CON MEDICINA | Singoli cittadini e istituzioni medicinesi seguono con viva attenzione il percorso di studi di Angelo Venturoli e la sua carriera artistica. Le informazioni vengono tramite i parenti Venturoli e Orfei con i quali Angelo intrattiene rapporti diretti e di frequente corrispondenza. Tra le lettere di carattere famigliare alcune lasciano trasparire l’interesse di Angelo per il proprio paese e per la sua vita, soprattutto in momenti di difficoltà. Interessante per l’argomento e il tono accorato quella del 1796 inviata dal Venturoli al cugino Luigi Orfei: “Essendosi sparsa la nuova che la scossa di terremoto dell’altra sera abbia fatto dei danni in Medicina, e particolarmente alla Torre dell’Orologio, mi fareste sommo piacere a notificarmi avendo troppo interesse per quella Comunità…”. Notizie riguardanti i successi e l’affermazione dello studente e del progettista Venturoli giungono al paese d’origine anche in forma ufficiale e pubblica attraverso la stampa periodica. Dalla Gazzetta di Bologna, del giugno 1770 e del 1771 si apprende dei premi nella Classe di Architettura assegnati al ventenne studente dell’Accademia Clementina. Immediato è il riscontro che si trova nel Diario del cronista locale Gasperini. È significativo della considerazione goduta dal giovane architetto fin dall’inizio nell’ambiente medicinese l’incarico che i carmelitani gli affidano: elaborare un progetto per il completamento della facciata della loro chiesa. Due lettere di padre Pietro Tombi, dell’aprile 1776 e del maggio 1777, ed una responsiva di Angelo Venturoli (in minuta senza data), costituiscono il primo documento inedito attestante una delle primissime commissioni d’architettura – non compresa nel Catalogo Cronologico forse perché opera non eseguita – e interessanti perché vi si evidenziano, già riguardo questa primizia medicinese, piena consapevolezza professionale, disponibilità al confronto unite a franchezza di pensiero critico, ed infine dichiarato attaccamento alla propria “patria”. Dal primo scritto di padre Tombi si comprende che i contatti con Venturoli sono precedenti il 1776 e che l’impegnativo intervento non è ancora definito progettualmente anche per ragioni di costi. È tuttavia degno di nota riportare una parte significativa dei testi inviati dal carmelitano medicinese: “Ho ricevuto il disegno quale è stato di gradimento de’ Padri, – afferma il religioso – e sento anche dal suo foglio quello (che) ella desiderava, ma presentemente nulla concludo poiché prima d’imbarcarmi desidero faccia il computo di quanto si possa spendere, sia dell’uno che dell’altro (disegno), spero però ci infermeremo in quello che solo quattro statue vi vanno…”. Il secondo scritto ha un tono più confidenziale: “Spedisco al mio amatissimo Angiolino i due disegni della facciata alfine da questi egli pensi alla minor spesa di mettere uno in esecuzione che possi fare al caso…”; e termina con “…un saluto al Sig. Don Luigi” a testimonianza del cordiale rapporto esistente con l’intera famiglia. Nella lettera di risposta a padre Tombi, dopo avere accennato ai calcoli di spesa allegati e ai disegni che verranno recapitati dallo “zio” dell’architetto,“Angiolino” aggiunge con molta franchezza: “Io veramente avrei stimato meglio il non mandarli dachè non si debbono eseguire; ma avendone promessa la spedizione non vo’ mancarLe di parola”… “trattandosi di servire Lei, che onoro e pregio assaissimo e di fare, che in Patria mia si dovrebbe eseguire, sono contento di poco…”. Il Venturoli conclude poi con un giudizio negativo su ciò che forse i carmelitani vorrebbero mantenere della facciata incompiuta: “Qualora Ella mi spedirà que’ disegni, che brama emendati, io porrò la mano al lavoro, benché sia cosa ardua, e quasi impossibile il tener su nell’essenziale una fabbrica cattiva, e pretendere, con levare e con aggiungere, di renderla buona…”. Queste ultime parole sembrano un pesante apprezzamento sulla impaginazione architettonica seicentesca, sia pure appena abbozzata, di Giuseppe Antonio Torri; se tale è il senso del giudizio del giovane architetto ci troviamo di fronte ad un atteggiamento critico riguardo i modi sei-settecenteschi non comune in seguito nel Venturoli maturo.

LA COMMITTENZA COMUNALE | Venuta meno nella facciata del Carmine l’occasione “di far cosa, che in Patria” avrebbe voluto “eseguire”, al Venturoli si presenta l’opportunità di farsi finalmente apprezzare anche in “patria” con la sua già affermata attività di architetto, e questa volta su espresso invito della Comunità di Medicina. Trascorso quasi un decennio, durante il quale si trovava impegnata nella ristrutturazione e decorazione della Residenza Comunale, la Pubblica Amministrazione alla fine degli anni ’80 del Settecento, senza averlo potuto prevedere, si vede indotta ad affrontare un nuovo notevole progetto di carattere artistico. All’origine dell’impegno sta l’inatteso, prestigioso dono, offerto alla Comunità dal sacerdote missionario “Dott. Don Paolo Moretti, medicinese”, consistente nel “Corpo santo” del martire Ilariano, destinato, per desiderio del donatore, ad essere posto nell’altare maggiore dell’Arcipretale; cappella ed altare di juspatronato comunale. Per la realizzazione dell’urna-reliquiario e dell’arredo il Consiglio della Comunità si rivolge ad Angelo Venturoli; sarà questa una committenza che vedrà un crescendo di operazioni via via più qualificate e impegnative, deliberate dal Consiglio, progettate dall’architetto, ma puntualmente esaminate e discusse sia riguardo i costi che nella stessa forma estetica. Il lavoro finale risulterà un nucleo di opere d’arte, di elevato artigianato e di notevole spessore espressivo unitario, degnissima immagine, anche nel sacro, del prestigio della Comunità di Medicina al cui decoro ha dato nobile forma un figlio della stessa Terra. Riguardo l’attuazione dell’impegnativo progetto, per i consiglieri comunali incaricati, “assunti”, a seguire le varie fasi delle operazioni ideate da Angelo Venturoli, il frequente contatto con l’architetto, gli artisti e le maestranze costituirà un’esperienza determinante sul piano culturale, ed in particolare per ciò che riguarda il campo dell’arte in generale, che produrrà nel territorio di Medicina ulteriori sviluppi nei quali si troverà protagonista il Venturoli stesso. Sull’articolata vicenda relativa alle opere connesse con la donazione delle reliquie di S. Ilariano resta una completa documentazione, presso l’Archivio Storico Comunale di Medicina e una cospicua serie di disegni nell’Archivio del Collegio Venturoli, che qui non possono trovare adeguato spazio, ma che meriterebbero un accurato lavoro monografico a sé. I consiglieri “assunti” per seguire le opere sono i seguenti: Giuseppe Donati, per ciò che riguarda le opere d’arredo artistico, il Capitano Pietro Mòdoni e Domenico Maria Gentili (molto noto anche come costruttore di organi) per le operazioni di carattere architettonico, quali l’altare marmoreo e il suo inserimento nel contesto del presbiterio. Sarà tuttavia con il Capitano Pietro Mòdoni che l’architetto terrà i rapporti più frequenti e diretti, anche a motivo di altre opere architettoniche avviate dalla Comunità, su disegno dello stesso Venturoli, quali l’edificio porticato all’inizio del tratto meridionale del Borgo Maggiore, e soprattutto per il contemporaneo impegno dell’architetto nella progettazione e costruzione di una pregevole villa per lo stesso Mòdoni. I rapporti degli “assunti”, e degli stessi consiglieri della Comunità, non si limitano al solo seguire l’esecuzione dei lavori sotto il profilo amministrativo o economico (aspetto questo tenuto costantemente presente con preoccupazione nella valutazione dei progetti); sistematicamente vengono esaminati i disegni preliminari anche nel loro linguaggio formale e stilistico e si propongono “correzioni” e modifiche non irrilevanti, che il Venturoli recepisce puntualmente senza particolari problemi provvedendo a produrre nuovi e originali elaborati. I membri del Consiglio della Comunità, in questo ultimo quarto di secolo, appartengono alla piccola oligarchia locale che aveva contribuito attivamente nei decenni precedenti a creare il cospicuo patrimonio artistico-monumentale della Medicina barocca, e sono gli stessi che, legati da stretta parentela con i Bianconi di Bologna – in particolare la famiglia Prandi – intrattengono rapporti con artisti di quell’entourage culturale appartenente alla nuova generazione di indirizzo classico sviluppatosi all’interno dell’Accademia Clementina nell’ultimo quarto del Settecento. Esemplari di questo clima e di una cultura “all’avanguardia” diffusa tra i committenti consiglieri sono le richieste al Venturoli dell’assunto “Sig. Giuseppe Donati” riguardo il disegno delle nuove “carteglorie” per l’altare dell’arcipretale di San Mamante. È lo stesso Venturoli che ci riferisce con naturalezza dell’episodio scrivendo al Signor Giuseppe Donati: “Avendo l’argentiere inteso che le prime cartelle (carteglorie) da me disegnate non sono state di suo gradimento per essere mosse, mi sono posto a disegnare una nuova invenzione sperando di incontrare il suo genio…”. Siamo di fronte ad una censura da parte di una committenza pubblica formata da soggetti che esibiscono una cultura già apertamente classicheggiante, oppure questi personaggi non sono in grado di comprendere la sensibilità estetica dell’artista che, pur non rinunciando al proprio linguaggio, vuole accordare con garbato rispetto – non più con l’asprezza dei primi anni – il “moderno” delle sue opere con l’“antico” del barocchetto conferito all’arcipretale dall’Ambrosi quarant’anni prima? Non è escluso che possano individuarsi nell’episodio entrambe le posizioni.

COLLABORAZIONE E INTESA TRA VENTUROLI E PIETRO MÒDONI | L’inizio dei contatti ufficiali tra i membri del Consiglio della Comunità medicinese e Angelo Venturoli risale già al 1779 quando i consiglieri iniziano a dare graduale attuazione al progetto urbanistico lungo il tratto meridionale del Borgo Maggiore, al cui fondale prospetticoarchitettonico si poneva, da qualche decennio, la chiesa dei Padri Francescani dell’Osservanza. L’intento “di fare un Portico… fino al convento dei medesimi (padri) che serva di ornamento, abbellimento di questa nostra Terra…” viene condiviso da tutti i consiglieri, tra i quali figurano Domenico Maria Gentili e Pietro Mòdoni. L’idea del portico tarderà diversi anni a concretizzarsi a motivo dei consistenti impegni subentrati, tra i quali i rilevanti lavori legati all’urna di S. Ilariano, all’altare e i rispettivi arredi per i quali si intensificheranno gli scambi epistolari e gli incontri tra consiglieri “assunti” – in primis Pietro Mòdoni – e Angelo Venturoli, come si è accennato in precedenza. Sarà quindi solo nel 1794 che verrà ripreso il progetto del Portico e verranno commissionati all’architetto medicinese i disegni preliminari. Anche in questa impresa pubblica il Consiglio affida al Mòdoni di tenere i rapporti col progettista. Nell’aprile 1794 egli scrive al Venturoli: “Mi è riuscito di far fare il decreto a codesti miei colleghi, di fare dodici occhi di Porticho nella strada detta de l’Osservanza col progetto di architettura al primo porticho, onde mi hanno commesso di far fare il disegno opportuno: a scanso di qualunque equivoco sarà necessario che (ella) venghi in Medicina per osservare la faccia del luogo e sentire il sentimento di codesti signori…”. Da oltre un decennio, quindi, tra l’amministratore comunale e l’architetto si era instaurata una collaborazione e una più stretta conoscenza personale, estesa agli artisti ed artigiani attivi nelle operazioni promosse e agli stessi famigliari. È perciò in tale clima di stima e di ammirazione per la persona e per il professionista, apprezzato per il nuovo linguaggio classico di cui è incontrastato interprete, che il Mòdoni affida ad Angelo Venturoli la progettazione e la direzione dei lavori per la sua Villa da costruirsi a prosecuzione dell’espansione urbanistica del Borgo Maggiore. Nel Catalogo cronologico è alla data 3 febbraio 1793 l’annotazione: “Pianta e facciata del Casino di Campagna, e di due barchesse laterali al detto Casino, fabbricati in un podere vicino alla Terra di Medicina, di ragione del Sig. Capitano Pietro Mòdoni”, ma dalle numerose lettere del committente al progettista è evidentissimo che le operazioni sono avviate molto prima della data riportata sul Catalogo; infatti i primi riferimenti alla villa datano già, nel carteggio del Mòdoni, al 1781. Da questo periodo nella corrispondenza dell’architetto al capitano – che è quella pervenuta in minuta quasi nella sua integrità – e in quella originale di Pietro Mòdoni al Venturoli si trovano frequenti intrecci riguardo i due cantieri, comunitario e privato, con interessanti appunti su artisti e artigiani attivi nelle rispettive operazioni. La consuetudine del Mòdoni con disegni e particolari esecutivi di architettura gli consente di suggerire al suo architetto proposte e modifiche – anche con schizzi – riguardo parti della villa in via di costruzione; indicazioni che esprime con serena franchezza sicuro di essere ascoltato. Nel brano di lettera che segue, oltre a questo atteggiamento partecipativo, si trova un preciso interesse a conoscere altre opere di qualità realizzate, o dal Venturoli o da altri autori bolognesi di ispirazione classica: “Ho osservato minutamente al ultimo (disegno) – scrive il Capitano – quale mi piace più del primo per essere di ordine composito… onde per essere assai più bello me ne voglio servire per il prospetto di mezzo… aggiuntandovi in facciata il muro con porta e due finestre. Mi piace moltissimo - prosegue il Mòdoni nello scritto – la fascia del disegno delle stanze, ma desidero sapere la profondità delle fascie, o bugne, e questo lo farà quando (io) venghi in città che sarà il dopo pranzo delli 28 e il giorno 29. Desiderei – continua – che andassimo di buon mattino a vedere la scala del Signor Bianconi, ma prenderò il mio muratore onde di ciò mi avvisi se puole favorirmi in tale giornata…”. Aggiunge ulteriori precise proposte non marginali: “Gli manifesterò la mia idea per il portico qual voglio che il prospetto sia composto di pilastri, fascie e ringhiera sopra con bugne, senza balaustri…”. Considerata la data della lettera, 1788 – cinque anni prima della compilazione degli elaborati della villa – tutto lascia intendere che il Capitano Mòdoni sia ancora alla fase delle idee o degli “abozzi” di disegno sui quali discutere con il progettista. Nella chiusura dello scritto l’autore passa rapidamente dal discorso sulla villa a quello di sua competenza in qualità di “assunto” della Comunità: “Caldamente desidero da Lei l’idea o sia abozzo dell’Urna per poscia farla in misura …”. Di qualche tempo posteriore è un’altra lettera del Venturoli dove si accennano ad entrambi i generi di progetti: “Appena terminato il rinnovato disegno del prospetto da porsi nel giardino mi fo un dovere di spedirglielo; è questo di miglior garbo del primo, mentre l’aggiunta di una piccola cornice pone tutto il resto in più bella proporzione e simmetria…”. Dopo avere riferito sui disegni della villa l’architetto passa ai lavori della Comunità: “La prego a degnarsi di darmi parte dell’altare e saper anco (quanto) siasi stabilito da que’ Signori su questo punto…”. Mentre si vanno a concludere i complessi lavori della Comunità, a Medicina l’impegno del Venturoli si concentra soprattutto nell’avanzamento della villa, intorno alla quale sia il committente che l’architetto proseguono a dialogare dedicandosi a intervenire su particolari architettonici e decorativi, anche non secondari, pur mantenendo fermo il sostanziale carattere dichiaratamente palladiano del progetto iniziale.

ARTISTI E MAESTRANZE NEI LAVORI DEL VENTUROLI A MEDICINA | Anche partendo dallo stretto osservatorio della corrispondenza Venturoli-Mòdoni, e da altri isolati documenti di recente lettura, si rinvengono nomi di operatori e artisti divenuti collaboratori di fiducia per una serie di costruzioni di prestigio intraprese dal Venturoli. Tra i personaggi affacciati all’interesse in questi ultimi tempi è da sottolineare il “muratore” attento e interessato alle nuove costruzioni realizzate dal nostro architetto, citato col solo nome di battesimo, come attivo nel cantiere del Casino Mòdoni. Si è venuti a conoscenza della sua identità in occasione delle ricerche, svolte da chi scrive, a proposito della chiesa parrocchiale di Castel Guelfo, pregevole opera unitaria di Angelo Venturoli dei primi anni dell’Ottocento. In una minuta all’architetto – priva di data e di mittente – a proposito dell’avvio del cantiere per quella chiesa è scritto: “…rapporto al Capo Mastro muratore… ne ho uno appunto di Medicina che lo vedo praticissimo e intende benissimo il lavoro… il quale è ben conosciuto dal cittadino Venturoli, cioè un certo Mastro Gaudenzio che ha servito, e serve, l’Alfiere Mòdoni, o Modena, come pure detto Modena si è servito del detto cittadino Venturoli per il disegno e direzione del Casino fabbricato a Medicina…”. Si è identificato tale Mastro con il costruttore Gaudenzio Orlandi, noto a Medicina – dove risiede ed ha famiglia – per avervi costruito, tra l’altro, il pregevole altare della Buona Morte, su disegno del giovanissimo architetto medicinese Francesco Saverio Fabri, nella chiesa dell’Assunta. Bastano le tre operazioni condotte dall’Orlandi, qui accennate, per rendersi conto della qualità esecutiva propria di questo capomastro che, per i cantieri di prestigio nel territorio medicinese e limitrofo, godeva dell’incondizionata stima del Venturoli. Tra le righe di una lettera dell’architetto al priore della Confraternita del Suffragio di Medicina è accennato il nome di uno scultore. In risposta alla richiesta del priore per avere l’indicazione di uno scultore plastico in grado di eseguire le “statue” in un “ornato” ideato dal Venturoli, l’architetto nel dicembre 1793 scrive: “Non prima d’ora ho potuto inviarLe il ricercato disegno dell’Ornato della B.V. da adattarsi sull’altare maggiore della chiesa del Suffragio di Medicina… il disegno, com’Ella vede richiede la mano dello scultore, e (per) ciò potrebbero combinare con un certo Forlani che deve venire a disporre certe statue per il Sig. Capitano Modena…”. Di questo scultore – che Venturoli lascia intendere di conoscere a malapena, ma non può non conoscerne le capacità visto che lo propone in un proprio lavoro – purtroppo nulla resta; si sa tuttavia che si tratta di Bonaventura Furlani, allievo di Filippo Scandellari e di Domenico Piò, presto emigrato da Bologna per Venezia. Più chiaramente e più spesso invece viene fatto il nome dello scultore “Rossi” per statue e altre decorazioni previste nella villa: la citazione che segue, in una lettera di Pietro Mòdoni ad Angelo Venturoli del maggio 1783 è in proposito abbastanza chiara: “…aspettavo qualche nova dal Sig. Rossi per mandare a prendere le statue e nel tempo stesso metterle in opera alla di Lei presenza…”. Anche in questa opera del Venturoli si riscontra la collaborazione tra l’architetto e Giacomo Rossi, già attivo a Medicina per le statue dell’urna di S. Ilariano, sotto la direzione dello stesso Venturoli, tre anni prima. Maggiore fortuna hanno avuto invece le sculture di Luigi Acquisti realizzate, e ancora presenti, in diversi edifici sacri e soprattutto civili di Medicina, tra i quali la stessa Villa Mòdoni. Pur non essendo citati da alcuna fonte storica gli stucchi, salvati e trasferiti nel Museo Civico locale provenienti da quella villa, appartengono all’Acquisti essendo copie di quelli esistenti presso la chiesa bolognese di S. Michele de’ Leprosetti. Vista la qualità dei rilievi e considerato che appartenevano alla sala centrale della Villa non è pensabile che queste opere non siano state previste o indicate dal progettista in accordo con il committente, così come è avvenuto per la decorazione pittorica ed in particolare per i dipinti d’arredo. Molto interessanti, a proposito di pittura nel Casino Mòdoni, sono i riferimenti al Capitano dell’architetto in alcune missive. “Rapporto poi ai suoi quadri – scrive il Venturoli – io mi sono portato in persona a casa del Sig. Martinelli ed ho veduto l’abozzo di uno, ed egli mi ha assicurato che li farà tutti di mano in mano con impegno e pieni di idee e di lavoro, non risparmiando fatica e diligenza per renderLa pienamente contento…”. Le classiche vedute paesistiche di Vincenzo Martinelli qui dunque non vengono affrescate, come in altre ville bolognesi coeve, ma trovano collocazione come “quadri” su tela. Il seguente cenno però fa pensare anche a qualcosa di più di un semplice arredo di tele dipinte a “paesi”: “…Altro non mi resta che aspettare li suoi pregiatissimi comandi… pregoLa – conclude l’architetto – a farmi per lettere avvisato del giorno che io ho da portarmi da Lei. – ed ecco il punto illuminante – Intanto supplicandoLa a salutarmi li Signori Fancelli, mi do con tutta la stima…”. Dal plurale usato si comprende che in quel momento – non precisato – sono presenti a Medicina presso il Mòdoni i due “pittori di figura” Petronio e Pietro Fancelli, padre e figlio; ma a che fare purtroppo non è specificato visto che neppure delle pitture esiste più traccia nei locali molto manomessi della villa. È tuttavia di notevole interesse l’accenno alla presenza in paese di questi pittori proprio nel periodo in cui Petronio è appena rientrato a Bologna – preceduto dal figlio – dal lungo soggiorno veneziano. Resta sicuramente ancora molto su cui far luce riguardo relazioni, influenza, collaborazione tra Angelo Venturoli, la Terra di Medicina e la sua gente; l’entità della lunga attività dell’artista e la mole dei documenti ordinati e sparsi lasciano spazio al lavoro dei ricercatori per inevitabili e auspicabili nuovi apporti, e non solo sul versante medicinese. Medicina peraltro, oltre a vantare la più consistente mole di opere progettate e dirette dall’architetto, come nessun altro comune periferico dell’area bolognese, possiede nel proprio Archivio Comunale un notevole numero di suoi disegni autografi: alcuni si presentano come elaborati accademici, altri come progetti non realizzati. Non comparendo il Comune di Medicina tra i beneficiari del testamento di Angelo Venturoli la raccolta, della quale non si è rinvenuto alcun riscontro documentario, non è improbabile rappresenti un gesto di riconoscenza e di affetto rivolto al suo paese d’origine compiuto dal Venturoli stesso in un momento particolare della sua vita.

Luigi Samoggia

Testo tratto da "Brodo di serpe - Miscellanea di cose medicinesi", Associazione Pro Loco Medicina, n. 6, dicembre 2008.