Ortensia de Beauharnais Bonaparte a Bologna

Ortensia de Beauharnais Bonaparte a Bologna

ottobre 1830

Scheda

La rapidità fulminea con cui gli avvenimenti precipitarono nell'agosto del 1914, iniziando il cataclisma mondiale, distrasse l'attenzione dei periodici bolognesi dalle Memorie della signorina Valeria Masuver pubblicate nei fascicoli del 1° e 15 agosto e seguenti della Revue des deux Mondes sotto il titolo: La Reine Hortense et le prince Louis (Le voyage d'Italie), Memorie meritevoli di essere menzionate ai Bolognesi.

Nell'ottobre 1830 la Regina Ortensia partiva da Arenenberg in Isvizzera, sua dimora abituale, per andare a passare l'inverno a Roma. La accompagnavano: il figlio Carlo Luigi (poi Napoleone III°), la signorina Valeria Masuyer, di Strasburgo, nuova dama d'onore, e i domestici. Il figlio maggiore Napoleone Luigi viveva a Firenze presso il padre suo Luigi. Attraverso Mals, Trento, Borgo, Mestre, Venezia, giunsero a Bologna. La Masuyer teneva un diario narrandovi giorno per giorno e, per così dire, ora per ora le pratiche fatte, le visite ricevute, gli affari combinati sotto i suoi occhi. Da questo interessante documento togliamo ora le sole informazioni che riflettono la breve dimora della Regina in Bologna, della quale non è alcun cenno nelle cronache bolognesi e neppure, s'intende, nei giornali. Onde le notizie che la signorina Masuyer ne ha porte sono probabilmente le prime che siano state raccolte e pubblicate intorno al rapido passaggio dell'ex-regina d'Olanda in quell'anno. Fra i Napoleonidi la figlia del generale Alessandro Beauharnais, decapitato durante il Terrore, e di Giuseppina Tascher de la Pagerie, ci offre un profilo che ha un particolare risalto ed è circondato da un'aureola di sventure e di galanteria. Durante la carcerazione della madre, essa era stata rinchiusa col fratello Eugenio nel palazzo di Salm a Parigi, ma poiché giunsero finalmente giorni migliori per la vedova Beauharnais avendo sposato in seconde nozze, nel marzo 1796, il generale Bonaparte, Eugenia Ortensia fu collocata nell'Educandato di M.me Campan ove ricevette una istruzione accurata che accrebbe assai le attrattive già di per sé grandi del suo ingegno e della sua bellezza. Nel 1800, a 17 anni, essa formava un ornamento della Corte consolare, ma i maligni già l'accusavano di una condotta assai leggiera, e si giungeva perfino a dubitare dell'innocenza delle sue relazioni col patrigno. Così questi incontrò difficoltà a collocarla. Il generale Moreau, al quale egli avrebbe voluto sposarla, tagliò corto ad ogni tentativo di tal genere. Allora Napoleone, consigliato dalla moglie, mise gli occhi sopra suo fratello Luigi, giovane di umore fantastico e diffidente, il quale dapprima mostrò di non sentirci da quell'orecchio, poi resistette, ma da ultimo si innamorò di Ortensia che sposò il 3 gennaio 1802. Davvero ben pochi matrimoni furono peggio combinati di questo. Luigi Bonaparte lasciò scritto di non aver mai passato, in tutta la vita, più di quattro mesi insieme alla moglie. Tuttavia nei primi anni di matrimonio nacquero due figli: Napoleone Carlo, il 10 ottobre 1802, e Napoleone Luigi il 10 ottobre 1804. L'imperatore, indignato della sterilità di Giuseppina, parlò spesso di adottare il primogenito, al che, del resto, Luigi si oppose fermamente, temendo forse, se avesse assentito, che si accreditassero le voci che correvano, vere o no, sulle relazioni fra Ortensia e Napoleone. Nel 1806 divenuta regina d'Olanda, la figliastra dell'imperatore fece breve dimora ne' suoi Stati, ed ognora più si accrebbero le discordie fra essa ed il marito. Nell'anno stesso, morì di 'croup' (laringotracheobronchite) il primogenito, onde Ortensia delusa nella speranza di divenire la madre effettiva del principe ereditario, il quale così avrebbe avuto ad un tempo la vera madre (Ortensia) e la zia matrigna-avola (Giuseppina), si riaccostò allo sposo, e da questa riconciliazione nacque il 20 aprile 1808 un terzo figlio, Carlo Luigi Napoleone, quegli che, come abbiamo visto, accompagnava la madre a Bologna ...se pure non era figlio di Verhuel! A questa prima delusione patita da Ortensia a proposito del suo primogenito, altra doveva seguirne fra breve.

Non mancò essa di venire in aiuto alla madre per tentare di stornare Napoleone dal divorzio ch'egli stava meditando. I Beauharnais, in quell'epoca erano nell'ombra alla Corte, e Giuseppina fu sacrificata alla nuova imperatrice cui Ortensia, sebbene profondamente addolorata, dovette fare pubblico omaggio nelle fastose cerimonie dell'arrivo e dell'incoronazione. Perduta anche questa aspra partita, provò di rifarsi promuovendo a sua volta il proprio divorzio, a fine di raggiungere la felicità. Il padrone non aveva forse dato egli stesso l'esempio di infrangere, per le sue mire personali, i nodi coniugali? Aveva adunque anch'essa diritto di fare altrettanto! Così pensava la regina d'Olanda. Senonché l'imperatore, sia per la ragione di Stato sia per timore dello scandalo, non concesse a lei il divorzio, e neppure la semplice separazione a Luigi che gliel'aveva chiesta. Ma poiché la Regina non voleva saperne del marito che considerava come la sua sventura, dopo che questi ebbe abdicato e l'Olanda fu riunita alla Francia nel 1810, trovandosi ridotta alla parte di regina onoraria, come ella diceva, se ne stette sempre lontana dal marito e menò una vita del tutto libera e indipendente. Due milioni annui di lista civile e la custodia dei figli, furono l'offa con cui l'imperatore tacitò la figliastra che prese dimora in un palazzo in via Cerutti a Parigi e nel castello di Saint Leu, di proprietà del marito ove, circondata da artisti (essa stessa era pittrice) poeti e musicisti, componeva musica e si occupava di giardinaggio. Il De Laborde scrisse per essa le cavalleresche strofe Partant pour la Syrie, la cui aria, composta dalla regina, fu considerata in Francia, per molto tempo, come un canto nazionale. Fu essa che per prima introdusse l'uso di apporre in fronte ad ogni romanza un disegno in analogia col soggetto, uso che fu seguito sempre di poi. Disegnava alla perfezione e cantava con voce assai gradevole; in breve la sua Corte dava il tono alla moda ed al buon gusto. Adulata, corteggiata continuamente, essendo debole e leggiera, non v'è da meravigliarsi se la sua condotta fu tutt'altro che irreprensibile. Fra gli altri, l'amm. Verhuel fu creduto padre di Napoleone III°, e dalla relazione di Ortensia col conte di Flahault nacque un figlio che, essendo così fratellastro di Napoleone III°, ebbe una parte assai notevole nel secondo Impero, sotto il nome di Duca di Morny. In uno dei suoi momenti di brutale schiettezza Napoleone affermò che suo fratello, come marito, era insopportabile, sebbene poi accusasse Ortensia di "essere stata la causa delle proprie sventure perché non era andata d'accordo col marito!" Luigi, come si è detto, si era innamorato e desiderava sinceramente di piacere alla giovane consorte. Ma egli godeva poca salute ed il suo carattere era triste, mentre Ortensia era vivacissima ed amante della vita gaia. Di qui il gran numero di scandali alcuni dei quali assai gravi. Tuttavia nelle Memorie di Madame de Rémusat s'è tentato di scagionare Ortensia. La scrittrice, imparziale e ben informata, porta degli esempi di stravaganti e ripugnanti atti di tirannia coniugale da parte di Luigi e nega che la moglie tenesse affatto cattiva condotta, asserendo che soltanto la maligna gelosia delle sorelle Bonaparte aveva dato credito a questa accusa! Come si può agevolmente immaginare, all'epoca dell'invasione della Francia nel 1814 si affacciarono alla figliastra di Napoleone non poche difficoltà, di altro genere ma tutte assai rilevanti. Indignata per la debolezza addimostrata dal Consiglio di Reggenza quando stabilì che Maria Luigia dovesse partire per Blois, partenza cui Ortensia si era opposta fermamente, essa andò a ritrovare la madre al castello di Navarre; poscia il 12 aprile si recò presso l'imperatrice prigioniera a Rambouillet. Maria Luigia la ricevette un po' imbarazzata e tentò di persuaderla che avrebbe fatto forse bene ad andarsene, ma Ortensia la lasciò soltanto quando l'imperatore d'Austria ebbe stabilito che la propria figlia sarebbe andata a Vienna. Ritornata alla Malmaison, vi si incontrò con i sovrani alleati e, desiderando rimanere in Francia, ottenne da re Luigi XVIII°, mercé la premure fattegli dallo Zar Alessandro I°, che era l'amante di essa, di poter portare il titolo di Duchessa di Saint Leu. Morta la madre, ritornò poi a Saint Leu il 19 settembre, e poiché il suo salotto era assai frequentato da ex-ufficiali ed ex-dignitari dell'Impero che rimpiangevano Napoleone, le fu mossa accusa di cospirare contro i Borboni. Ma avendo ricevuto gentile accoglienza da Luigi XVIII°, i Bonapartisti, alla loro volta le rimproverarono di essere troppo favorevole alla Restaurazione!

Al ritorno di Napoleone dall'Elba, nuove noie e nuovi fastidi capitarono ad Ortensia. Dapprima l'imperatore le rinfacciò di essere rimasta in mezzo ai nemici e non volle riceverla, ma non tardò ad essere consapevole dell'affetto di lei e le ridiede tutta la sua benevolenza. Dopo Waterloo, essa restò fedele a Napoleone, l'accolse alla Malmaison, e le prodigò tutte le attenzioni proprie di una figlia affezionata. Fra l'altro gli fece accettare una collana di diamanti stimata 800 mila franchi, e che fu cucita entro un nastro di seta nera che l'imperatore portava ai fianchi. In cambio di questa collana Napoleone le fece una delegazione ch'egli si era riservato sulla propria lista civile e che fu sequestrata dal Governo borbonico pochi giorni dopo. Nel 1821, alla morte di Napoleone, la collana fu consegnata da Montholon ad Ortensia la quale, in un momento di strettezze, la cedette nel 1835 al Re di Baviera mediante una pensione vitalizia di 23 mila franchi, che questi pagò soltanto per due anni essendo morta la vitaliziaria il 5 ottobre del 1837, a 54 anni. Così la bazza toccò alla Casa di Baviera! Morti il fratello Eugenio ex-Vicerè d'Italia, ed il Re Massimiliano di Baviera nel 1825, Ortensia lasciò Augusta sua residenza, e poiché aveva ottenuto licenza da Leone XII° di venire a Roma, trascorreva l'inverno colà e l'estate nel castello di Arenenberg, nel cantone di Turgovia, presso il lago di Costanza, ch'essa aveva acquistato nel 1817. La rivoluzione di Luglio procurò ad Ortensia nuove angustie, pur facendo luccicare ai suoi occhi la speranza di un prossimo ritorno in Francia pel fatto che più non vi regnavano i Borboni. La Masuyer ci narra del grande interessamento che Ortensia prendeva allo svolgimento della rivoluzione di Luglio che, essa sperava, avrebbe portato tali mutamenti dai quali i Bonaparte avrebbero certo profittato. Prima speranza di Ortensia era stata quella di vedere abrogata la legge dell'esilio che pesava su di essa ed i suoi figliuoli, di ritornare in Francia e di ottenere che il suo Luigi fosse nominato Sottotenente nell'esercito, ma questa illusione si era dileguata a cagione della legge del 7 settembre 1830 che rinnovava contro di lei la sentenza di proscrizione. Da quel momento Ortensia si era trovata al di là della situazione politica in cui la rivoluzione di Luglio si era fermata; passando al di sopra di Luigi Filippo, la cui autorità poteva essere minata da un istante all'altro, essa risaliva fino a quella fonte di rivoluzione che era scaturita dalle strade di Parigi o che minacciava di estendersi come una cascata sugli altri Stati. Nello scorcio del settembre era scoppiata la rivoluzione di Bruxelles. A questo moto nazionale essa credeva certamente ne sarebbero seguiti altri in varie capitali, e poiché tutti questi moti partivano da Parigi, che teneva le fila, così tutti potevano portare i Bonaparte là dove essi volevano. In questo stato d'animo la regina imprese nell'ottobre 1830 il consueto viaggio da Arenenberg verso Roma. Dalla penultima parte di questo viaggio ecco cosa scriveva la signorina Masuyer:

"Bologna, 28 ottobre; La nostra strada, partendo da Mestre, è stata quella di Padova, Monselice, Rovigo (ove abbiamo dormito); poscia all'indomani per Ferrara, ove sostammo appena il tempo di visitare il carcere del Tasso ed il palazzo della bella Eleonora. Siamo arrivati presto a Bologna; il sole tramontando indorava gli Appennini e presentava in tutto il suo splendore l'amena situazione di questa città; essa è addossata ad un monte che la domina e che è tempestato di palazzi, di ville, di giardini; il più bel verde l'adorna ancora in questa epoca dell'anno, cosicché offre l'aspetto più ridente. Noi siamo alloggiati al secondo piano del quale la Regina non è punto contenta, perché non le piace salire le scale. In attesa che si scarichino le valigie e che si prepari il pranzo, si sono letti i giornali, si è pestato su di un pianoforte e si è parlato della nostra diletta Francia. Degli agitatori si danno attorno a Parigi, ed io temo per questo disgraziato inverno. Eravamo ancora a tavola, quando si è fatto annunziare il signor Baciocchi. Egli divenne cognato dell'imperatore nel 1797 mercé il suo matrimonio con Elisa Bonaparte. Nobile e ricco, egli poteva passare allora per un buon partito, ma poi dovette eclissarsi davanti alla moglie, fatta principessa di Piombino nel 1805, poscia di Lucca, e granduchessa di Toscana nel 1808; essa è morta a Trieste nel 1820. Di quattro figli che ella ha avuto, rimangono un solo figlio e la contessa Napoleona Camerata che è chiamata Madame Napoléon; la dicono assai vanitosa della sua rassomiglianza coll'Imperatore. Baciocchi è un uomo di sessant'anni; deve aver avuto dei bei lineamenti e conserva una fisionomia leggiadra sotto una titus bianca e ricciuta. Suo figlio Felice, Fritz nell'intimità, è un ragazzone di sedici anni, lungo, timido che parla bene il francese ma con impaccio; appare contentissimo di rivedere suo cugino Luigi. Un giovane parigino, il signor Eugenio Lebon, sta insieme al principe Fritz da molti anni. E' alto, ha una bella figura, molto simpatico; il nero di jais delle sopracciglia, delle basette e della titus ondulata fanno risaltare il candore della sua bella mano con cui egli si compiace di accarezzarla spesso. Egli si presenta con grazia, parla benissimo, e lo troverei in tutto perfetto se non avessi un po' timore ch'egli stesso non fosse troppo del mio parere. Sono stata presentata come sostituta, presso la Regina, della signorina R.... che tutti credevano sposa al col. Voutier. La Regina è convinta che la signorina R.... lo desiderava assai, ma che essa non ha esitato ad ammettere con lui ch'egli non poteva rifiutare la mano di un'altra amata un tempo e divenuta vedova con 100.000 franchi di rendita. Lo stato della Francia, dell'Europa, gli interessi della famiglia dell'Imperatore hanno formato l'argomento della conversazione. La Regina parlava quasi sempre e dirigeva la conversazione, il sig. Eugenio le rispondeva con arguzia. A quanto sembra, Madame Mère è indignata del contegno che la maggior parte de' suoi figli tiene verso il nuovo Governo francese. Le petizioni ch'essi presentano per poter ritornare in Francia e per ottenere dei mezzi da vivere sono, dice essa, indegni del nome che portano. La Regina è meno assoluta. Ella non è contraria a dei passi collettivi, ma biasima Luciano, Girolamo e la regina di Napoli d'aver già fatto delle pratiche parziali. La personalità del Re di Roma è la sola che debba essere messa avanti. Egli fu proclamato nel 1816 e rimane il solo erede dei diritti di suo padre".

Giunta la conversazione a questo punto, Baciocchi si ritirò. Mentre la Regina e la signorina Masuyer continuavano a parlare di questo argomento e di altri toccanti in particolar modo l'atteggiamento che sarebbe stato meglio per essa tenere in quella difficile situazione, ecco che entrò la principessa Letizia figlia maggiore di Gioacchino Murat e moglie del marchese Guido Taddeo Pepoli venuta ad ossequiare la Regina. Essa aveva allora 28 anni ed era fiorente di bellezza e di grazia. Il giorno seguente, 29 ottobre, a fine di non sovracaricare di lavoro i domestici con un trasloco, la Regina non accettò l'invito del Baciocchi, di andare ad abitare nel suo palazzo, e stabilì soltanto che sarebbe andata a desinare da lui. Mentre la Regina ascoltava la lettura dei giornali fattale dalla sua prima dama d'onore, incominciarono le visite. Crescentini, il primo maestro di musica della Regina, fu ricevuto col massimo gradimento ed egli, dal canto suo, manifestò gioia nel rivedere l'ex allieva. Sedette al piano e la fece cantare. Il suo ottimo metodo di canto sopravviveva ancora. Crescentini era allora in procinto di ritornare a Napoli ove si era stabilito nell'ufficio di Direttore delle scuole di canto al Conservatorio, al quale presiedeva il Zingarelli. La signorina Masuyer ci descrive Crescentini di alta statura, con un volto soave e buono, ma osserva che la sua obesità floscia e la pesante corporatura dovevano certo costituire un ostacolo all'effetto ch'egli produceva sulla scena. Essa narra che Napoleone aveva udito Crescentini per la prima volta a Vienna, di dove l'aveva condotto seco a Parigi, con l'onorario di 50.000 franchi all'anno. Soggiunge che una sera, allo spettacolo di Corte l'imperatore gli conferì la croce dell'Ordine italiano della Corona di Ferro per ricompensarlo del modo col quale aveva cantato l'aria: Ombra adorata, t'aspetto. Questa inattesa onorificenza sollevò tanto malcontento, specie nell'esercito, che non fu possibile dare poi la croce della Legion d'onore a Talma, come l'imperatore avrebbe desiderato. Fra le visite vi fu pure quella della marchesa Pepoli insieme ai graziosi figliuoletti Gioacchino e Carolina: il primo stava per compiere i cinque anni e l'altra aveva compiuti da poco i sei. La Pepoli, con brio giovanile si divertì a pettinare la signorina Masuyer alla pipistrello. Era un acconciatura fiorentina che si addiceva assai, affermava la Pepoli, ad un volto grazioso. Ed ora lasciamo la figlia del Re di Napoli nell'atto di pettinare la signorina Valeria. Questa era figlia di un dottissimo chimico, decano della Facoltà di medicina di Strasburgo, resosi noto nel ceto scientifico pe’ suoi studi sul cloruro di calce. Un zio paterno della Masuyer, Luigi, fu deputato alla Convenzione. Membro, insieme a Guadet, della Commissione delle finanze, fu decapitato per aver scritto, in un rapporto, delle dure verità intorno alla probità del Ministro della Guerra Pache, amico di Danton. Della Masuyer è menzione varie volte nelle Memorie della Regina Ortensia, sulle quali vedremo più oltre. Ecco come la dama descrive l’acconciatura fattale: Si dividono i capelli mediante una sola discriminatoria diritta, partendo dalla fronte fino a mezzo il collo, li si riuniscono da ciascun lato presso l’orecchio per farne due treccie che si girano in tondo da ambedue i lati e si legano infine di dietro con un nastro. In breve è la ben nota pettinatura che divenne poi assai comune in quel tempo.

La Regina e la dama il giorno 30 uscirono in carrozza da nolo, andarono al passeggio nell’amena Montagnola e di là passarono alla ricca Pinacoteca a Sant’Ignazio nel Borgo della Paglia, ora Via Belle Arti. La visita fu breve desiderando la Regina di andare a vestirsi presto a fine di potersi trovare prima degli altri convitati presso il cognato Baciocchi che conviveva col figlio ed il nipote Cattaneo. La magnificenza del palazzo in Via dei Vascelli N. 742, ora Piazza dei Tribunali N. 4, e sede della Giustizia, maravigliò la signorina Masuyer la quale lo visitò accompagnata dal detto Nicola Cattaneo, nipote del Baciocchi ed un tempo suo aiutante di campo, mentre la Regina stava parlando a bassa voce col Principe. Anzitutto fu stupita dalla grandiosità dell’edifizio: Vi si danno feste da ballo di 900 persone. I sovrani non hanno di meglio afferma essa. Poi ci fornisce una descrizione dell’appartamento al piano nobile che è meritevole di essere riferita inquantoché ci mostra il passato splendore di quella dimora che forma uno stridente contrasto col presente squallore. Una grande galleria, tappezzata di giallo e di verde, occupa il mezzo dell’edifizio, da ciascun lato sono due boudoirs di raso viola tempestati di stelle o, per meglio dire, due tempietti, contenenti uno il busto di marmo dell’Imperatore, l’altro quello di sua sorella Elisa. Dopo avere attraversato questi boudoirs , del tutto eguali, parecchi saloni uno più bello dell’altro ci conducono ad una deliziosa camera da letto, tappezzata di grosso di Napoli (stoffa di seta) celeste, poi ad un boudoir di moerro bianco adorno di stoffa rosa ed argento. Questo appartamento mette ad una sala colossale il cui soffitto e le pareti sono dipinti a fresco nella maniera più elegante: delle statue di marmo, i busti ed i ritratti dei membri della famiglia la riempiono. Essi sono: l’Imperatrice madre, la principessa Paolina, l’Imperatore dipinto da Gérard, la sua statua scolpita da uno scolaro di Canova. Un grande quadro rappresenta la Corte della Granduchessa Elisa. Questa è sul trono, suo marito è in piedi vicino a lei. I personaggi della Corte li circondano, tutti, si afferma, assai rassomiglianti. Il marchese Zappi e la marchesa Pepoli erano i commensali del Bacciochi, insieme alla Regina ed alla Masuyer. Dopo il pranzo i fanciulli Gioacchino e Carolina Pepoli danzarono un galop, poscia un ballo ch’essi avevano veduto al teatro e che imitavano graziosamente, forse un passo a due del Ballo I Baccanali aboliti che si era dato in quel mese al Teatro Comunale. Com’era naturale, si fece anche un po’ di musica in onore della Regina. Eugenio Lebon, Cattaneo e certo Lente, ajo del giovinetto Federico Bacciochi cantarono malamente l’aria di Pappataci cioè il classico terzetto di Pappataci nell’Italiana in Algeri di Rossini, mentre la Masuyer li accompagnava al pianoforte. Le due ospiti francesi s’imbatterono, in quella conversazione, in un Tedesco schietto. Era costui il su nominato Lente di Fulda. Egli, ci narra la dama d’onore, era un Tedesco in tutta l’estensione del termine e fu ben lieto di incontrare la Masuyer, nativa di Strasburgo, per poterle dire a cuore aperto tutto il male che pensava degli Italiani dei quali era ospite! Anche in ciò i Tedeschi che dimoravano in Italia prima della guerra attuale non erano punto dissimili da lui! Il Lente biasimava la pigrizia, la mala fede e l’immoralità degli Italiani che facevano contrasto con il buon senso, la rettitudine e la solerzia dei suoi compatrioti i quali, si capisce, erano anche allora il popolo eletto! Ma sorse una nube fra costui ed il principe Carlo Luigi. Tutti sanno i sentimenti nutriti in quel tempo da lui. Cresciuto nel culto dell’Impero che, travisando la storia, considerava come il compiuto avvento dei principii del 1789, la salvaguardia dei diritti del popolo e la guarentigia del progresso democratico e sociale, egli aveva già l’idea fissa di tentarne la restaurazione ancor prima della morte del duca di Reichstadt (1832). Il principio della razionalità, il voto universale, il cesarismo, ed una tendenza accentuata verso il socialismo, tale era il fondo della sua politica. La madre l’aveva persuaso che, con un nome come il suo, egli sarebbe sempre qualcuno, che un principe doveva sapere tacere o parlare per non dir nulla e che tutti i mezzi di regnare erano buoni, legittimi e sufficienti, purché si mantenesse l’ordine materialmente. Imbevuto di queste massime, il principe era assai desideroso di fare parlare di sé al più presto e di assumere una posizione politica. Nelle frequenti dimore ch’egli aveva fatto in Italia negli anni antecedenti, vi si era istruito, insieme col fratello Napoleone Luigi, nelle arti delle cospirazioni, inscrivendosi alla Carboneria. Appena scoppiata la rivoluzione di luglio, egli avrebbe voluto ritornare in Francia, come se la legge del 1816, che bandiva la sua famiglia, non esistesse. Ma il nuovo Governo non avendogli concesso il ritorno, evidentemente egli insistette presso la madre affinché la famiglia si trasferisse a Roma, di dove poi fu espulso, e si gettò a capo fitto nell’insurrezione delle Romagne. Adunque in quel giorno il Principe come se avesse indovinato il pensiero del Lotich ed avesse voluto contraddirlo, cominciò a declamare delle poesie italiane, più precisamente delle stanze, inspirate al più puro patriottismo (forse del Rossetti o del Berchet). Era proprio così: le 'tre gloriose' di Luglio avevano scosso tutti i liberali. Eravamo quasi alla vigilia della rivoluzione in Bologna e nelle Romagne cui Carlo Luigi doveva partecipare insieme al fratello che, come è ben noto, morì di rosolia a Forlì.

Giunti a questo punto dobbiamo soffermarci alcun poco facendo parola di avvenimenti politici. Ci conviene cioè lasciare un’istante la narrazione della Masuyer e ricorrere alle Memorie della Regina stessa. Apriamo il volume: La reine Hortense en Italie en France et en Angleterre pendant l’anneé 1831. Fragmens extraits de ses Mémoires inédits ècrits par elle meme (Paris, 1834) ed a pag. 21 troveremo un paragrafo in cui essa dice di aver ricevuto lettera da Parigi nella quale le si faceva capire che, nonostante la rinnovata proscrizione, avrebbe potuto ritornare in Francia ma senza i suoi figli. Si può ben credere che non mi venne punto in mente di separarmi dai miei figli, sebbene il re (Luigi Filippo) mi avesse mandato a dire parole gentili per mezzo della granduchessa di Baden. Non ebbi che un solo desiderio, quello di riavvicinarmi al figlio maggiore e partii come al solito, nell’ottobre per Roma. Era preoccupata per ciò che stava per accadere in Italia. Non poteva credere che la rivoluzione non avrebbe risuonato in tutti i paesi oppressi ed il mio solo pensiero era quello di garantire i miei figli da degli entusiasmi pericolosi per la loro tranquillità, e che era naturale prevedere e temere. A questo fine evitai di passare da Milano. A Bologna ove mi fermai un giorno, vidi presso mio cognato il principe Bacciochi, un ex-ufficiale addetto un tempo a mio fratello. 'Che bella rivoluzione, Signora, mi disse egli, è quella di Parigi! Spero che prima che voi ripassiate di quei avrete udito parlare della nostra'. Questo discorso mi diceva abbastanza per giustificare tutte le mie paure. 'Chi sarebbe così pazzo, gridai forte, per tentare di sollevare l’Italia, quando si scorge la strada che segue il Governo francese? Se esso adempie la sua missione, può, senza romperla con l’Austria, esigere da esse che vi conceda delle franchigie o la vostra indipendenza: se queste due potenze si urtano fra loro, voi potete ancora sperare l’appoggio della Francia, ma se vi muoverete prima che una guerra sia dichiarata, andrete in rovina indubbiamente'. Soggiunsi ancora molti argomenti in tal senso, ma senza produrre il minimo effetto: bene me ne accorsi, l’illusione era completa; dovunque la rivoluzione e Luigi Filippo erano portati alle stelle. Non si separavano l’una dall’altro ed io appariva una Cassandra quando prediceva che la Francia non sosterrebbe l’Italia se si sollevasse. Confesso che non credeva di dire così bene perché pensava che vi sarebbe costretta in un caso estremo: temeva di vedere ognuno precipitarsi nel caos della rivoluzione, senza riflessione, senza un piano prestabilito, senza avere calcolato maturamente i propri mezzi. Ma la vittoria di Parigi aveva rivelato un’arma sconosciuta fino allora, il lastrico. Pur di aver il popolo dalla sua, ognuno si credeva certo di poter schiacciare il più forte esercito. L’errore era madornale. Chi fosse il patriota interlocutore di Ortensia non è detto. La Masuyer non accenna alla presenza di altri all’infuori del Le Bon e del Cattaneo. Quest’ultimo combatté poi a Rimini e se non è esso, è certo che il caldo profeta della Rivoluzione (Italiano, già aiutante di campo del Viceré) era stato introdotto privatamente davanti alla Regina. Ciò è indubbio perché frequentavano Casa Baciocchi molte persone devote al regime cessato. Se invece supponiamo che Ortensia abbia scritto inavvertente: aide de camp de mon frère anziché de mon beau frère come è talvolta dell’uso nella lingua parlata (cioè del Baciocchi) allora lo sconosciuto interlocutore è identificato in modo assoluto nel Cattaneo, che infatti era stato aiutante di campo del Baciocchi durante varie campagne e, come nipote, lo aveva poi seguito a Bologna e con lui conviveva. Del resto i sentimenti patriottici del Cattaneo, sebbene nato ad Ajaccio, sono dimostrati dalla parte ragguardevole da lui presa nella Rivoluzione come colonnello, e combattente a Rimini contro le truppe del Geppert. Al Teatro Comunale nel palco Baciocchi la Regina e la dama terminarono la giornata. Fu quella una rappresentazione assai burrascosa a cagione di dimostrazioni parte di carattere personale parte di indole politica ordite contro una cantante.

Il palco Baciocchi nel Teatro Comunale, dal quale la regina e la Masuyer assistevano allo spettacolo, era quello in primo ordine nel proscenio destro, cioè dalla parte Paleotti, elegantissimo e in una ottima ubicazione. La regina, sapendo ciò, aveva indossato un abito vistoso, mentre la signorina era in bianco con nastri rosa sul capo. Ambedue rimasero subito meravigliate dalla vastità, dalla struttura, dall’elegante ornamentazione del teatro e dalla vivida luce che si irradiava dal lampadario. Si rappresentava la Donna del Lago di Rossini; la musica parve loro bella, ma il soggetto astruso e per seguire l’intreccio sarebbe loro occorsa maggior attenzione di quella che potevano dedicarvi essendo distratte dall’atmosfera burrascosa che predominava nella sala e che le distoglieva dallo star bene attente allo svolgimento dell’azione. Ascoltiamo intanto le impressioni che la dama d’onore ritrasse da quella serata e cercheremo poi di riscontrarle e vedere se erano esatte. Il pubblico, dice essa, pensava soltanto agli intrighi orditi contro l’esordiente. Questa disgraziata (graziosa giovane fornita di assai simpatica voce) tremava come una foglia e si perdeva affatto d’animo. Da ultimo apparve Rubini; la sua voce si mostrò veramente di una agilità e di una potenza mirabili. Ma le due Francesi erano seccate dall’uso italiano dei bis che il pubblico esigeva ad ogni brano più saliente, e dalle interruzioni che provenivano dagli applausi alla fine di ogni aria, ciò che costringeva i cantanti a venire sul proscenio, a fare saluti e ringraziamenti. Nell’intermezzo la Regina ricevette delle visite, fra cui quella della figlia del principe Poniatowky, sposa al figlio di quel marchese Zappi col quale aveva pranzato in casa Bacciochi. Ambedue erano bellissimi; la Polacca aveva dei magnifici capelli biondi, una bella figura e dei lineamenti gentili, un insieme delicato reso simpatico dalla pettinatura alla pipistrello. Le cose volsero al peggio, per la prima donna, durante il secondo atto che divenne per essa un supplizio. Le due signore raccolsero la voce che si volesse farle far fiasco perché aveva preso il posto che spettava alla moglie di Rubini, l’idolo del pubblico, e perché aveva il torto di essere protetta dal Cardinal Legato. L’orchestra, questa volta cospirando essa pure contro di lei, non attaccò in tempo; l’infelice cantava colle lagrime agli occhi… Finalmente si venne alla famosa cavatina di Rubini, desiderata, attesa ed accolta da urli frenetici e da battimani. Gli si fecero ripetere vari brani, poi si chiese il bis di tutto il pezzo, ciò che era proibito dal Regolamento degli spettacoli. Durante un’ora lo schiamazzo fu enorme, si dovette per due volte calare la tela, ed a cagione del tumulto, l’opera non poté essere terminata, con vivo dispiacere delle due forestiere. La Regina fu malcontenta di vedere suo figlio e suo nipote Federico Baciocchi prender parte al baccano, ma i principi si difesero dicendo che avevano inteso soltanto di fare una piccola dimostrazione contro l’Autorità. Nei pochi periodi contenuti nelle Memorie della Masuyer è adunque un accenno sufficiente per suscitare il desiderio di ricercare che cosa accadde veramente quella sera al Teatro Comunale ed a vedere così quanto di verità vi è nella sua breve narrazione. Ottimi elementi per effettuare questo riscontro ci sono porti dalla Cronaca di Luca Marsigli che assai cortesemente è stata messa a nostra disposizione dall’egregio patrizio proprietario della medesima comm. Annibale di Raffaele Marsigli, nipote ex-fratre dell’Autore. Il marchese Luca partì da Bologna il 5 ottobre per Roma a fine di condurre colà in educazione nel Collegio dei Nobili della Compagnia di Gesù, suo figlio maggiore Prospero, cugino del m.se Annibale e che divenne poi una delle individualità caratteristiche della vita bolognese, e fu disegnato anche dalla matita di Rata Langa. Da Roma partì il 13 novembre e fu qui di ritorno il 17. Prima di partire da Bologna egli volle assistere all’inaugurazione della stagione d’autunno al Teatro Comunale, inaugurazione che avvenne il 2. Il dì seguente egli scriveva: Ieri sera è andata in iscena l’opera seria d’Autunno, il Pirata del M. sig. Bellini, che da qualche tempo gode buon nome. I cantanti sono, per la parte del tenore, uno di quelli di maggior grido del giorno, il Rubini; la prima donna la sua consorte di ben poca abilità, ma che, stante i meriti di lui è necessario scritturarsi essendo questo uno dei patti per i quali canta. Il basso poi Maggiorotti. Il Ballo intitolato I Baccanali aboliti del fu Gaetano Gioja, ed ora messo in scena da suo fratello Ferdinando. I primi Ballerini: I Maglietta. Questo non ha affatto incontrato come una decisa confusione. La musica poi ha assai piaciuto per sé stessa, e per il tenore che la canta, per cui vi sono stati moltissimi applausi dal folto concorso che vi era. Al ritorno in Bologna, il Marsigli volendo assolvere il compito impostosi di cronista diligente, si informò di ciò che era accaduto durante la sua assenza e, per ciò che tocca il Teatro Comunale, così notava a pag. 777: La sera del 30 del suddetto mese di ottobre fu terribile per la riescita assai infelice che fece sulle scene del nostro teatro la signora Mancinelli Romana che per la prima volta ancora si espose al pubblico, venuta qui con lettere raccomandatizie dei primi signori di Roma nonché di qualche Cardinale ed in particolare dell’E.mo Albani. Essa, siccome già dovea essere ed era già dapprima accordato e combinato, andò in iscena con il secondo spartito promesso in questo corso di recite, che fu La donna del Lago.

Il Marsigli, continuando il suo racconto della rappresentazione al Teatro Comunale, così spiega le brusche accoglienze fatte dal pubblico alla Mancinelli: diverse circostanze contribuirono a rendere più difficile l’incontro di questa giovine artista. Essa cantava in compagnia del celebre Rubini, (il quale non vidde molto volentieri esclusa la propria moglie e scelta quest’altra prima donna) e di una certa Fanò la quale per essere nostra bolognese ed allieva di un maestro nostro aveva già un non piccolo partito a suo favore. Il teatro adunque in quella sera era pienissimo e più composto da censori severi, riguardo la Mancinelli, che di giudici indulgenti. Alla sua sortita che seguì benino, ma tremando in modo da non potere quasi pronunziar le parole, ne ebbe qualche applauso al suo duetto con la Fanò e all’altro con Rubini fu parimenti applaudita, ma essendo in compagnia non si poté del tutto giudicare a chi ne fossero diretti gli applausi. Alla fine del primo atto un silenzio universale bastò a fare conoscere quale potea esser l’esito dello spettacolo. Nel secondo atto vi furono moltissimi applausi alla sortita di Rubini e della Fanò ma pochi, ed anche dai soli palchi, furono quelli che accolsero la Mancinelli. Verso il fine dell’opera, avendo rubini cantato con tutta la maestria di cui è capace la sua grand’aria, fu tale lo schiamazzo e il furore di applausi, che per cinque volte dovette sortire a ringraziare, ma il pubblico non contento voleva la replica dell’aria, il che vien proibito dai nostri regolamenti teatrali. Intanto la Mancinelli che dovea cantare il suo Rondeau con variazioni, stava imbarazzata; ogni volta che, sembrando si acquetasse il tumulto, i suonatori ripigliavano la musica ed essa si avanzava per cominciare a cantare, più forti si facevano gli urli, i colpi di bastone sulle panche tanto che gli fu impossibile il cantare la sua aria e dopo che questo chiasso ebbe seguitato per tre quarti d’ora, bisognò finire col calare il sipario e terminare lo spettacolo; allora poi vi fu una fischiata generale di tre o quattro minuti che fece terrore perché si vedea una moltitudine di popolo che sembrava di tanti forsennati. La sera dopo, onde fare che la Mancinelli potesse cantare la sua aria, l’anteposero a quella del tenore e fu ascoltata senza segno di disapprovazione, ma nemmeno di approvazione. Finita l’opera che terminò con l’aria di Rubini, vi furono smoderati applausi che chiamandolo fuori, ed egli credendo far bene, condusse fuori anche la Mancinelli, ma questo non fece che procurargli qualche fischio però non molti e tutti gridavano: Rubini, Rubini. E’ certo che, secondo i più moderati, detta Mancinelli ha una graziosa voce, ma pochissima e mai adattata alla grandezza del teatro; né duetti e né pezzi concertati si nasconde affatto; si conosce poi che è ancora diminuita la forza della sua voce dalla grandissima paura che avea, ed è molto imbarazzata nell’azione. La partenza del Cardinale Legato Bernetti, terminato il primo atto, fu causa facilmente dei maggiori disordini del secondo, giacché forse la di lui presenza avrebbe messo qualche remora a presso il pubblico. Le raccomandazioni poi suaccennate che avea per molti signori qui di Bologna, non poteano, siccome è stato, che fomentare vieppiù l’urto della moltitudine della platea sempre contraria particolarmente ai nobili; l’essere Romana era pure per lei un pregiudizio presso il nostro pubblico, al quale poi sempre è sembrato assai strano e presuntuoso in lei che, come principiante, venisse a Bologna a debuttare. Il 2 novembre ultima della stagione, la Mancinelli non cantò perché fu fischiata l’ultima sera che si produsse. Perciò dichiarò di non cantare perché indisposta. Il Card. Bernetti fu dispiacente e piccato del trattamento fatto a detta cantante e non è più ritornato a teatro.

Di fronte a questa narrazione a tinte crude, che conferma pienamente ciò che scrive la Masuyer e che a sua volta è ratificata dal diffuso resoconto della serata dato da Francesco Rangoni nella sua Storia manoscritta, conservata nella Biblioteca dell’Archiginnasio, fa strano contrasto l’imperturbabile ottimismo della Critica. Il Pancaldi nei Cenni storici del Fiori, al vol. 14 pag. 70, è del tutto reticente a favore della cantante. Egli, sottacendo il tumulto, così scrive sotto la data: 31 ottobre... Abbenché sia questo il primo passo che la Mancinelli dà nella difficile Teatrale carriera, cionondimeno si trasse assai onorevolmente d’impegno. Nuova del tutto alle scene, è però matura nell’intelligenza musicale per la quale andava già il nome suo ricordato con applauso nell’Accademia Filarmonica di Roma; e quando avvenga che l’animo suo si liberi da quei vincoli ne’ quali si avviluppa all’aspetto di un nostro affollatissimo Teatro, entrerà essa ancora nel novero di quelle che sostengono il decoro e la fama del Teatro Italiano. La voce di lei è limpida, scorrevole, espressiva. Il metodo dal quale attinse l’arte è, a senso dei maestri, lodatissimo; e non mancando di adoperarlo con dolcezza e soavità, sarà la delizia di chi l’ascolta. Il pubblico Bolognese, che apprezza il bello ovunque lo ritrovi, l’ha accolta con ogni più confortevole dimostrazione di aggradimento; ed il frequente e ripetuto plauso compartitole basterà certamente ad infonderle coraggio e fiducia. Tolga quindi ogni incertezza dal proprio animo e corra animosa e sicura alla meta prefissasi, avvegnaché ardua e spinosa. La sig. Laura Fanò che per la prima volta viene a calcare queste patrie scene, come ottenne ovunque il pubblico suffragio, quivi ancora da suoi concittadini non le mancò, riportando le più indubbie significazioni d’amorevolezza e di stima dovute al suo talento, ed a quella disinvoltura colla quale accompagna il suo canto grato e melodioso. Ma qui assai cose sarebbe a dirsi dell’unico Rubini. Il ragionar nostro però vuol fuggire questo scoglio onde non dir meno del vero, non bastando le parole ad esprimero, e solo ci limiteremo a far certi i nostri lettori che la cavatina di Pacini nella Niobe da esso lui cantata nel second’atto è un pezzo di musica affatto magico, e tale che t’insinua un fuoco elettrico che ti ricerca tutte le più riposte latebre del cuore, che ti scuote le fibre fino a condurti all’ebbrezza, all’entusiasmo, al delirio, tanta è l’arte, il magistero, la forza con la quale per lui si eseguisce. Dunque...dunque è meglio usare silenzio e non estendersi in più lunghe parole a far chiaro il di lui valore.

Abbiamo riferito questo brano del critico musicale per dimostrare che, evidentemente, egli scriveva per ordine dell’Eminentissimo Legato Bernetti al quale il Segretario di Stato Card. Albani aveva fatto vive premure all’intento di assicurare il successo della cantante romana. Ci apprende in oltre questo brano che il pezzo di bravura di Rubini era estraneo all’opera, era stato cioè estratto dalla Niobe del Pacini. Di tali mescolanze se ne facevano allora assai di sovente. Tutto ciò è confermato pure dal Bignami (Cronologia di tutti gli spettacoli... Bologna 1880) il quale in calce all’elenco degli artisti, pone questo: N. B. - La prima sera della Donna del Lago i due primi atti non fecero incontro, nel terzo Rubini innestò nello spartito l’aria della Niobe di Pacini, il fanatismo fu al colmo, le signore sventolavano i fazzoletti dal palco, e si voleva la replica. La Direzione non la permise. Si alzò e calò la tela molte volte, durò il baccano per quasi due ore, finalmente la Direzione fece venire in Teatro l’Esercito Pontificio, e buona notte. Del fiero tumulto di quella sera quale orma è rimasta sulle carte dell’Autorità politica? Ben lieve davvero. Nè nel protocollo riservato della Legazione, né negli Atti riservati e negli Indici e protocolli della Polizia, nel R. Archivio di Stato, vi è alcuna traccia. Dal protocollo degli Atti generali di Polizia si desume soltanto che la Direzione degli spettacoli il 1° novembre avvertiva la Direzione di Polizia e che la sera del 30 ottobre fu ordinato di calare il sipario prima che fosse terminato lo spettacolo in causa di smodati applausi al tenore Rubini Gio. Battista (Protocollo N. 20069 – anno 1830). Poscia il Commissario di Polizia Romagnoli il 2 novembre rimetteva alla Direzione di Polizia la Nota delle persone che principalmente facevano schiamazzo al Teatro Comunale la serta del 30 ottobre onde Rubini replicasse la sua Aria per cui si dovette calare il sipario (Prot. N. 20104). Con la scorta di tali dati si sarebbe dovuto rinvenire la Nota nel fondo speciale di P. S. ma purtroppo la Rubrica 5/1 sotto cui sono segnati gli atti stessi, è una di quelle che, come tante altre, fu, non si sa con quale criterio, mandata al macero prima che gli atti fossero depositati all’Archivio di Stato! Indubbiamente, se l’impiegato di Polizia cui venne a mano la nota fosse stato un po’ diligente, avrebbe dovuto rubricare anche i cognomi di coloro che erano elencati nella Nota come schiamazzatori, come generalmente si praticava nella Direzione di Polizia per gli affari riservati. Intanto è certo che nella Rubrica del protocollo pel 1830 non figura in alcun modo Luigi Bonaparte che, dalla narrazione della signorina Masuyer, appare come uno dei disturbatori. Né alcun rapporto sul disordine di quella sera è negli atti della Direzione degli Spettacoli custoditi nell’Archivio municipale, né in quello presso il Teatro Comunale, conservati dal custode l’egregio sig. Antonio Rizzi. Ciò perché in quel tempo, quando si presentava la necessità di far intervenire la forza e sgombrare il Teatro, la Direzione faceva verbalmente la richiesta al Commissario di servizio, e non se ne teneva nota in atti, né se ne dava rapporto al Municipio. Tale consuetudine proseguì fino a pochi anni fa, come ci è stato affermato dall’ex-custode sig. Ettore Mezzetti. D’altra parte, mancando il rapporto della Polizia, nessuna traccia è rimasta.

Il mattino del 1° novembre alle 10 la Regina e la dama salirono in carrozza dirette a Firenze. Furono salutate allo sportello dai coniugi Pepoli, dal giovanetto Baciocchi e dal suo aio Lotich. Presero la strada, allora tanto frequentata, per Pianoro, Lojano, Monghidoro, Filigare, Covigliajo e la Futa, ora percorsa rapidamente dalle vetture dell’Auto via Bologna-S. Piero a Sieve, strada attualmente corretta con alcune varianti. Sul modo lento, a cagione del trapelo co’ buoi, nel quale si attraversava allora l’Appennino, abbiamo, fortunatamente, una testimonianza sincrona nella descrizione di un viaggio compiuto nell’estate dell’anno antecedente dall’insigne pedagogista milanese Giuseppe Sacchi, e quel brano sarà sufficiente a porgere al curioso lettore, un’idea esatta del come, all’incirca, dovette svolgersi il viaggio della Regina sul quale la Masuyer ci narra davvero ben poco: La sera la Regina entrava in Firenze incontrata dal figlio maggiore Napoleone Luigi, a cavallo. Egli assomigliava tutto a Napoleone I, in giovane ed in bello. Suo marito, evidentemente per non incontrarsi con essa, era andato a visitare la madre a Roma, e così quella poté trascorrere quindici giorni felice fra i due soli esseri che le erano diletti. L’assenza del padre da Firenze dovette riuscire assai gradita anche al futuro imperatore perché quegli avevagli sempre addimostrata freddezza e perfino avversione. Pungeva ognora a costui il sospetto crudele della illegittimità di Carlo Luigi, sospetto diffusosi poco dopo la nascita. Si affermava cioè che questi era figlio dell’ammiraglio olandese Carlo Enrico Verhuel, come abbiamo da principio accennato, ed in seguito si ravvisarono nell’imperatore la taciturnità e la flemma proprie degli Olandesi. Ciò è tanto vero che re Luigi non aveva indugiato a separarsi ben presto e rumorosamente dalla moglie, della cui fedeltà da tempo dubitava, e che da allora gli risparmiò la dolorosa necessità di lasciare che il suo nome coprisse i frutti dei propri amori clandestini (La nascita di Morny). Re Luigi nel ‘31 al momento della insurrezione delle Romagne secondo il Sorlin (La France impériale. Paris 1873) avrebbe scritto una lettera a Gregorio XVI in cui chiedeva perdono pei suoi due figli che avevano osato prendere le armi contro la Santa Sede e, dopo toccato di Napoleone Luigi, già morto concludeva: Quanto all’altro, che usurpa il mio nome voi lo sapete Santo Padre, quello lì, grazie a Dio, non è nulla di me. J’ai le malheur d’avoir pour femme une Messaline qui accouche. Onde non ci sembra affatto arrischiato far congettura che Ortensia nelle sue Memorie, (pag. 133, 147 e passim) insista ad arte sulle ansie che il marito provava a cagione dei pericoli cui Carlo Luigi si esponeva col partecipare alla Rivoluzione italiana, a fine di lasciar credere che egli aveva la convinzione di essere veramente il padre di lui.

Fulvio Cantoni

Testo tratto dalla rivista 'Il Comune di Bologna', febbraio-maggio 1918.

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