Neoclassicismo alla Certosa di Bologna

Neoclassicismo alla Certosa di Bologna

1801 - 1850

Scheda

Il neoclassicismo è lo stile artistico e filosofico che si manifesta tra il tardo Settecento e il primo ventennio dell’Ottocento. Dopo le rivoluzioni che hanno sconvolto l’Europa e fondato l’America, e con lo sviluppo del pensiero illuministico, l’arte non può più essere un semplice revival del classico. Il neoclassicismo si ispira ai soggetti antichi ma reinvestendoli di un nuovo significato morale, legato all’ideale dell’uomo illuminato. Il rococò, che ricorre alla fantasia dell’artista nell’esplorazione di soggetti sensuali e che promuove l’estetismo e la semplice bellezza di esecuzione, viene respinto dai neoclassici in quanto incarna i valori aristocratici e simboleggia la corruzione della società denunciata dai pensatori dell’illuminismo. Nel corso del Settecento, con la scoperta dei siti archeologici di Ercolano e Pompei, l’attenzione dei critici e degli artisti si rivolge verso l’Antichità. Gli artisti neoclassici si rifanno ai testi critici di Winckelmann, che afferma che l’unico modo per diventare grandi è di “imitare l’antichità” e che difende in particolar modo la superiorità della civiltà greca, mentre accanto a lui si distingue la figura di Piranesi, altro critico d’arte e incisore, che proclama invece la grandiosità dell’Impero Romano. Il repertorio archeologico non si limita all’arte greca e romana, e gli artisti neoclassici si interessano altrettanto all’arte etrusca ed egizia. Per poter studiare i grandi esempi della cultura classica dal vivo e integrare i cerchi artistici neoclassici, i giovani artisti europei – francesi, inglesi, scandinavi - intraprendono un viaggio educativo attraverso l’Italia, chiamato il “Grand Tour”, durante il quale si fermano soprattutto a Roma, centro culturale e artistico dell’Ottocento in cui si trovano le celebri rovine incise da Piranesi, e nella regione di Napoli, dove vanno a visitare i siti archeologici di Pompei ed Ercolano. A Roma, due scultori si distinguono tra gli altri: Antonio Canova e Bertel Thorvaldsen.

Con il neoclassicismo, l’arte non è più soltanto estetica, ma deve anche portare valori morali e educativi. L’interesse degli artisti si sposta dalle divinità greco-romane ai guerrieri, legislatori o filosofi antichi, e i diversi miti vengono sostituiti da aneddoti a valore morale, esempi di nobile sacrificio di sé o di eroico patriottismo. Si esaltano i valori promossi dalla Rivoluzione francese e, più tardi, si celebra la grandezza dell’Impero napoleonico. Dalla metà del Settecento, un culto della personalità si forma attorno a uomini famosi, soprattutto scrittori e filosofi, che vengono celebrati attraverso statue di marmo o bronzo. Per quanto riguarda le opere d’arte originali, solo l’aristocrazia e l’alta borghesia possono commissione quadri e statue di grandi dimensioni, mentre il mecenatismo delle classi medie si limita al ritratto. Alla morale rigida del neoclassicismo si affianca un culto della sensibilità dalle accentuazioni che anticipano il romanticismo. La capacità di un’opera di toccare il cuore viene associata alla capacità di istruire e migliorare moralmente, e la sensibilità simboleggia quindi la purezza dell’anima e il valore morale. Con la laicizzazione portata dall’illuminismo, la visione della morte si sposta da una visione cristiana, ultraterrena, che rappresenta la nuova vita del defunto nell’aldilà, alla raffigurazione del sonno della morte, che libera il defunto delle inquietudini della vita, e al dolore di chi è rimasto. I simboli cristiani vengono quasi eliminati, e nel cimitero della Certosa, vengono non di rado sostituiti da simboli legati alla cultura illuministico-massonica. In epoca Neoclassica, la scultura viene considerata come la forma d’arte più elevata, basata sui modelli greci e romani. A un’epoca in cui i modelli sono rari nelle Accademie, e in cui si pensa che il corpo debba riflettere l’elevatezza morale, ciò che impedisce l’uso di modelle prostitute, gli artisti si riferiscono alle sculture antiche nella loro raffigurazione dei nudi. Il “nudo contemporaneo”, come viene chiamato, non è naturalistico, perché non viene realizzato a partire dall’osservazione di corpi reali. Il corpo, che riflette la purezza dell’anima, viene privato dalle sue imperfezioni e dalle sue
accentuazioni erotiche.

Una delle figure maggiori del Neoclassicismo italiano è Lorenzo Bartolini (1777-1850). Di origine toscana, comincia la sua formazione all’Accademia delle Belle Arti di Firenze, dove si affascina per le immagini lineari di Flaxman. Si reca poi a Parigi nel 1799, dove studia insieme ad Ingres nell’atelier di David, caposcuola del neoclassicismo europeo. A Parigi, effettua diverse commissioni imperiali, tra cui un busto di Napoleone e il bassorilievo della Battaglia d’Austerlitz per la colonna Vendôme. Bartolini viene poi chiamato da Elisa Baciocchi, sorella minore di Napoleone, ad insegnare la scultura all’Accademia di Carrara. Realizza di nuovo diverse commissioni per la famiglia imperiale, come un gruppo di Elisa Baciocchi con la figlia, i busti della famiglia Baciocchi, e una statua colossale di Napoleone destinata a Livorno e finita più tardi a Bastia. È un’altra commissione per Elisa Baciocchi che lo porta ad essere esposto in Certosa. Infatti, Felice Baciocchi, dopo la morte di Elisa, chiede a Bartolini di realizzare un gruppo scultoreo destinato alla cappella di famiglia nella Chiesa San Petronio a Bologna. Bartolini immagina un gruppo allegorico con Elisa personificata nella “Magnanimità che abbraccia il suo destino”. Ma durante la lavorazione del marmo, una venatura nera appare sul viso della statua. Bartolini propone di rifare la scultura, ma Baciocchi rifiuta di pagare un nuovo blocco di marmo, dicendo che dovrebbe essere Bartolini a comprarlo in segno di riconoscenza nei confronti della defunta. Il conflitto non viene risolto, e dopo la morte di Baciocchi nel 1845, un nuovo gruppo scultoreo che commemora entrambi i coniugi viene commissionato a Cincinnato Baruzzi (1796-1878). Il gruppo di Bartolini viene allora venduto al marchese Massimiliano Malvezzi Angelelli che lo colloca sulla tomba di famiglia in Certosa. Il monumento viene adattato da un altro scultore neoclassico, Massimiliano Putti (1809-1890), e trasformato in “Pallade e il Genio della Gloria”. Putti realizza anche il basamento con il medaglione che ritrae Angelelli. Sul gruppo scultoreo si ritrovano numerosi simboli che si rifanno sia al soggetto mitologico sia alla vita del committente: da una parte, la civetta posta ai piedi della figura femminile esplicita la sua identità – la civetta è infatti l’animale consacrato alla dea della guerra Atena -, e dall’altra parte si trovano sul basamento gli stemmi della famiglia e degli emblemi che fanno riferimento alla professione di Angelelli, professore di lettere all’Università di Bologna. L’iconografia neoclassica è onnipresente nel monumento. Pallade ha un’acconciatura all’antica, indossa una toga romana e dei semplici sandali che si intravvedono sul piede che esce da sotto i panneggi del vestito. La dea è seduta su una sedia alla greca, con la testa leggermente girata verso la sinistra, e tiene nella sua mano destra una lancia, che evoca ancora una volta la sua identità guerriera. La naturalezza dei tratti del corpo infantile del Genio della Gloria, solamente coperto da un leggero panneggio che gli cade sulle anche, anticipa l’inclinazione verista dell’artista. Considerando il legame della figura femminile inizialmente rappresentata, Elisa Baciocchi, con l’imperatore francese, e dato la relazione tra lo scultore all’origine del progetto, Bartolini, e il pittore Ingres, si potrebbe pensare che la posa della statua richiami quella di Napoleone nel ritratto realizzato da Ingres nel 1806. Mentre la sorella viene rappresentata in veste antiche e con una posa leggermente inclinata, l’imperatore, seduto sul trono imperiale e vestito da un sontuoso abito in velluto ed erminio, guarda fissamente lo spettatore negli occhi. Lo scettro di Napoleone viene sostituito nella scultura di Bartolini da una lancia, e l’aquila imperiale ricamata sul tappetto ai piedi dell’imperatore si trasforma in una civetta reale, che veglia sopra il gruppo allegorico. Ma quello che unisce le due opere è sicuramente il sentimento di maestà e di potenza che emana dalle due figure. La regalità della dea ricorda anche il soggetto antico di Giove e Teti esplorato da Ingres nel 1811, in cui Zeus, con una posa severa e imponente e lo sguardo fisso, domina il quadro, e in cui si ritrova il motivo dell’aquila imperiale. Nel 1848, Armand Cambon recupera questa composizione nella sua allegoria profetica della Repubblica, celebrando il nuovo regime inaugurato da Luigi Napoleone Bonaparte, e forse criticando ironicamente l’origine di questo nuovo presidente, nipote di Napoleone I, che diventerà imperatore con un colpo di stato nel 1852 e lo rimarrà fino al 1870.

Originario di Bologna, Giacomo De Maria (1760 – 1838) inizia a studiare a quindici anni all’Accademia Clementina sotto l’egida di Domenico Piò, scultore di gusto barocco. Nel 1787, si trasferisce a Roma, tappa essenziale nella formazione degli artisti neoclassici, dove ha l’occasione di osservare dal vivo le opere antiche, di visitare i siti archeologici, e soprattutto di fare la conoscenza di Antonio Canova, scultore già preceduto dalla sua reputazione, di cui diventa amico e discepolo. Canova gli insegna a lavorare il marmo, materiale poco usato a Bologna, dove si usano soprattutto materiali plasmabili come lo stucco e la terracotta e solo a volte piccoli blocchi di marmo facili da trasportare. De Maria torna a Bologna dove diventa professore di scultura all’Accademia di Belle Arti che sostituisce l’Accademia Clementina dopo l’avvento di Napoleone. A partire dal 1804, è attivo in Certosa dove restaura dei monumenti antichi, realizza varie tombe di diverso formato e materiale ed esegue numerosi busti in marmo di bolognesi illustri per il Pantheon.

Uno dei suoi capolavori in Certosa è il Monumento Caprara realizzato nel 1817, che si distingue per la qualità del materiale usato – viene scolpito in marmo di Carrara – e per il virtuosismo delle figure e della composizione. A destra è seduta l’Eternità, il cui viso è velato da un panneggio delicato, che stringe tra le mani l’ouroboros, serpente che si morde la coda e che rappresenta allegoricamente l’infinito. L’Eternità velata ricorda la statua marmorea del Cristo velato realizzata nel 1753 dallo scultore Giuseppe Sanmartino e conservata nella Cappella Sansevero di Napoli, che De Maria avrebbe potuto conoscere attraverso copie o incisioni. Questa scultura fu ammirata dai viaggiatori e ricevette anche l’elogio di Canova, che avrebbe affermato che avrebbe sacrificato dieci anni della sua vita per poter vantarne la paternità e che avrebbe anche provato ad acquistarla. Questo motivo conosce un rinnovo fra i contemporanei di De Maria nell’Ottocento, attraverso opere come la Madonna velata scolpita da Giovanni Strazza in marmo di Carrara. La composizione del Monumento Caprara si ispira anche al monumento di Maria Cristina d’Austria di Antonio Canova: la fanciulla vestita all’antica che porta un’urna verso un colombario, il genio alato che tiene in mano un ramo di cipresso, simbolo d’immortalità, il leone desolato, e il medaglione contenente i ritratti dei defunti si ritrovano tutti nel monumento di Canova. L’imponente piramide canoviana viene sostituita nell’opera di De Maria da una struttura geometrica parallelepipeda che risponde ai criteri neoclassici di purezza e di linearità, e che potrebbe evocare un altro tipo di tomba egiziana, la mastaba, le cui prime scoperte avrebbero potuto avvenire a quest’epoca. Questo modello di ingresso rettangolare ricorda in ogni modo gli ingressi di tombe e tempi antichi, anche databili all’epoca greco-romana, come quelli ricavati a Pompei. De Maria rafforza la dimensione religiosa del prototipo canoviano attraverso la raffigurazione dell’allegoria giacente della Religione che sovrasta il monumento. Quando muore a Bologna nel 1838, viene sepolto nel Chiostro Maggiore della Certosa e un suo autoritratto, oggi conservato presso l’Accademia delle Belle Arti di Bologna, viene preso come modello per l’esecuzione del marmo presente sulla sua tomba.

La scuola di scultura di Giacomo De Maria all’Accademia di Belle Arti di Bologna istruisce una delle figure maggiori del Neoclassicismo bolognese, Cincinnato Baruzzi (1796-1878), l’unico scultore a lavorare il marmo su scala monumentale a Bologna nella prima metà dell’Ottocento. Dopo aver vinto il pensionato di Roma nel 1816, Baruzzi ci si reca e viene accolto nello studio di Canova, di cui diventa il successore alla morte nel 1822, ricevendo l’incarico di dirigerne lo studio e di portare a termine le sue opere lasciate incompiute. Continua a lavorare incessantemente acquistando rinomanza, vendendo opere a collezionisti e ricevendo commissioni da regnanti di tutta l’Europa, nonostante le invidie e le polemiche che nascono attorno all’eredità dello studio. Dal 1832 al 1860, Baruzzi riveste il ruolo di professore di scultura all’Accademia di Bologna. Esegue principalmente opere di carattere mitologico e religioso, ma anche ritratti e monumenti funerari che realizza per i cimiteri di Ravenna, di Ferrara e di Bologna. Completa nel 1854 il monumento funebre dedicato a Felice Baciocchi e alla moglie Elisa Bonaparte nella chiesa San Petronio. In Certosa, esegue diversi monumenti ispirati a modelli antichi o neoclassici contemporanei. Tra quelli si distingue il monumento di Giuseppe Minghetti, realizzato tra il 1835 e il 1837. La citazione del monumento Stuart di Canova è qui evidente, e l’artista viene infatti criticato dal figlio del defunto, Marco Minghetti, che lo descrive come un “seguace poco originale di Canova”. Più che nell’opera di De Maria, Baruzzi imita in molti aspetti la struttura del monumento di Canova. I due geni funebri che custodiscono la porta centrale, chini su delle torce rovesciate e avvolti in un delicato panneggio, così come il medaglione circolare con il ritratto del defunto sopra la porta e lo stemma della famiglia Minghetti nella parte superiore del monumento replicano esattamente il modello canoviano. Per la realizzazione dei geni della morte, Baruzzi utilizza le copie in formato ridotto dei due geni di Canova che ha portato da Roma e che riproduce in scala sul monumento Minghetti. A differenza di Canova, Baruzzi alza il basamento, dove viene posta le stele e scritta l’epigrafe, e trasforma l’apice piramidale del monumento in un timpano curvilineo.

Baruzzi realizza anche il monumento della Cella Hercolani dedicato al principe Filippo Hercolani, deceduto nel 1810. La cappella è progettata da Angelo Venturoli sul modello classico del Pantheon di Roma, con un oculus che illumina il busto in marmo posto al centro della Cella. Il monumento è di una semplicità e di una purezza ideali: il busto colossale, posto su un alto cippo quasi privo di decorazioni, domina la stanza. Il viso non è idealizzato, il principe viene rappresentato a un’età già avanzata, senza cappelli né parucchia, ma viene nobilitato dalla sua espressione rigida e da uno sguardo frontale che esprime la sua potenza. Un altro esempio di purezza neoclassica si trova nel monumento della famiglia Pizzardi, realizzato tra il 1838 e il 1841. La figura si ispira all’antico nella posa, nel sontuoso panneggio, e nell’acconciatura, con i cappelli leggermente sciolti. Il monumento è altamente simbolico: la statua regge nella sua mano sinistra alzata un’asta coronata a un globo alato, simbolo di dominio totale, sormontato da una mano che reca al centro un occhio, emblemi consueti del Commercio. La mano destra della figura, lievemente sollevata, regge una pergamena arrotolata, allegoria della sapienza, da cui fuoriesce un rametto di mirto, che rappresenta sia la fecondità e il buon auguro, sia l’oltretomba e i defunti. In ambito funebre, il mirto simboleggia quindi il continuarsi della vita e la rinascita attraverso la morte. Ai piedi della figura si scorge la cornucopia, emblema dell’abbondanza e di fortuna. Sul timpano piramidale nella parte superiore si trova anche un crisma, che simbolizza l’eternità di Cristo.

Altro protagonista è Giovanni Putti (1771-1847). Dopo aver seguito una formazione all’Accademia Clementina di Bologna, Giovanni Putti realizza nel 1809 i due Piagnoni in terracotta posti su grandi pilastri all’ingresso monumentale della Certosa. Le due statue sono caratterizzate da un pathos eccezionale, sono intensamente piegate su sé stesse e avvolte in un grandioso panneggio che accentua la loro drammaticità. Questo stesso panneggio, la presenza delle urne che ricordano i vasi greci, e il sentimento di desolazione già presente nei piangenti e nei geni della morte di Canova iscrivono l’opera nel neoclassicismo. Il forte simbolismo delle sculture ne fa delle allegorie di una realtà di confine tra la vita terrena e l’aldilà. Nel 1809, Giovanni Putti si trasferisce a Milano, dove partecipa ai lavori della facciata del Duomo e dove modella le quattro Vittorie equestri poste sull’attico dell’Arco di Pace. Dopo il suo rientro a Bologna, lavora prevalentemente in ambito cimiteriale e realizza trenta monumenti in Certosa tra il 1815 e il 1830. Tra il 1820 e il 1828, lo scultore realizza i due leoni collocati l’uno di fronte all’altro ai lati del viale del Chiostro Maggiore. Il leone è già legato al mondo della morte attraverso il monumento funebre di Maria Cristina d’Austria scolpito da Canova, in cui si trova un leone steso, con la testa appoggiata sulle zampe, che esprime il dolore e la contemplazione triste della morte. Ma nell’opera di Putti, i leoni esalano un’aria impressionante di forza tranquilla. Così collocati all’ingresso del Chiostro Maggiore, essi sembrano indossare il ruolo di guardiani, rispecchiando i due Piagnoni posti all’ingresso al lato opposto del Chiostro. La loro posa, stesi su un basamento rialzato con la testa sollevata e lo sguardo fisso, può infatti ricordare la posa della sfinge, che custodiva i tempi e i sepolcri nell’Antico Egitto, o che impediva l’ingresso alla città di Tebe nel mito greco di Edipo. I leoni di Putti oscillano tra volontà di naturalismo e idealizzazione. Gli animali sono riprodotti a grandezza naturale con uno studio attento dell’anatomia, e in particolare dei muscoli. Putti incava delle pupille all’interno degli occhi al fine di renderli più realistici e di darli più rilievo ed espressività. Il corpo dei leoni è liscio al tatto per dare l’idea del pelo corto. Ma è il lavoro sontuoso della criniera, i cui ricci sembrano quasi imitare i riccioli di un’acconciatura femminile, e la posa rigida e contenuta dei leoni che gli conferiscono un’espressione ideale e nobile. Putti riprende il motivo del leone nel monumento Bentivoglio, collocato nella cella della Loggia delle Tombe. I due leoni colossali in terracotta, sdraiati sulle loro zampe, vegliano sulla tomba del defunto, forse evocando il legame storico tra la famiglia feudale Bentivoglio e la città di Bologna, il cui emblema è un leone.

Giovanni Putti inserisce di nuovo due leoni nel monumento Ferreris realizzato nel 1821. La struttura del monumento è composta di un basamento a tre gradoni: sul primo gradone sono personificate l’Eternità e il Tempo, simbolicamente opposte simmetricamente; sul secondo gradone viene collocata l’epigrafe; e sul terzo gradone sono sdraiati due leoni, sui quali è appoggiato un sarcofago ornato dallo stemma della famiglia, coronato in alto da una Piangente. L’allegoria del Tempo, seduta a destra sul primo gradone del basamento, è incarnata da un uomo vecchio alato parzialmente coperto da un drappeggio. La sua lunga barba e il suo corpo muscoloso idealizzato ricordano il modello michelangiolesco. Tiene nella mano sinistra una falce, attributo della Morte raccoglie le anime dei vivi, e appoggia la mano destra su una clessidra, simbolo dello scorrere del tempo. Alla sua sinistra, si trova l’allegoria dell’Eternità, identificata dal cerchio che tiene nella mano destra, vestita da una tunica elaborata con dei gioielli e avvolta in un drappeggio. Sopra il sarcofago mantenuto dai due leoni dall’espressione dolorosa che contrasta con la rigidità dei leoni del Chiostro Maggiore e del Monumento Bentivoglio, una piangente vestita in una tunica dagli ampi panneggi, sta asciugando le sue lacrime. Mentre il viso delle Piagnoni precedenti dell’artista era nascosto sotto i drappeggi, qui Putti decide di esibire il dolore provocato dalla morte. Questa componente drammatica si ritrova nell’espressività e nelle pose teatrali delle due allegorie in basso al monumento. Giovanni Putti realizza nel 1818 il monumento in stucco e gesso dedicato a Gaetano Gaspare Uttini, medico, docente universitario di Anatomia e studioso di filosofia. L’opera altamente simbolica è composta da un basamento rialzato sul quale viene posto un sarcofago classicheggiante contenente l’epigrafe e sovrastato da un timpano piramidale che rinchiude delle ghirlande e una corona di alloro, simbolo della sapienza. Il monumento è arricchito dalla presenza di tre sculture allegoriche: la personificazione della Prudenza a sinistra sul basamento, la Carità sopra il timpano, e l’Anatomia a destra sul basamento. La composizione geometrica del monumento e l’abbigliamento delle figure, che rivestono delle tuniche in stile romano dai sontuosi drappeggi e che hanno delle acconciature all’antica, si iscrive nella corrente neoclassica.

Per la raffigurazione della Prudenza e della Carità, Putti si rifà all’iconografia tradizionale delle due allegorie, che si ritrova ad esempio nelle Sette Virtù quattrocentesche dipinte da Piero del Pollaiolo e conservate alla Galleria degli Uffizi a Firenze. La Prudenza simboleggia la capacità analitica dell’intelletto. Tiene nella mano sinistra uno specchio che le permette di guardarsi alle spalle e nella mano destra un serpente, due associazioni religiose derivate dalla Bibbia. Infatti, la formazione triangolare delle statue potrebbe ricordare il ciclo della vita: si parte dalla giovane donna in piedi in basso a sinistra per arrivare alla madre posta in alto e si scende fino alla donna anziana, che tiene un teschio che serve di memento mori e che simboleggia la morte, chiudendo il ciclo vitale. Questa triplicità è presente in diversi aspetti del monumento che contiene tre allegorie poste in formazione triangolare, con una madre che tiene nelle sue braccia tre bambini. Il numero 3 è infatti molto simbolico: nella numerologia massonica, il numero 3 rappresenta lo sviluppo dell’intelletto, ciò che potrebbe fare riferimento alla professione intellettuale del defunto, e nella numerologia cristiana, il numero 3 simbolizza sia la Trinità sia la totalità e l’eternità espresse dalle tre dimensioni del tempo: il passato, il presente e il futuro. Giovani Putti esegue anche nel 1822 il Monumento Fornasari, commissionato dal padre per il figlio Giovanni, morto all’età di 21 anni poco dopo la sua laurea. La struttura è semplice, composta da un basamento rialzato sul quale sono sedute simmetricamente due piangenti, dietro delle quali si alza un cippo con un’epigrafe sormontato da una cimasa ornata da ghirlande e da una corona d’alloro, che allude alla recente laurea del defunto. La nicchia è arricchita da un sontuoso drappeggio ondeggiato che rispecchia le tuniche delle due statue. Entrambe portano un lungo velo: la piangente di sinistra usa il suo per asciugare le sue lacrime in un gesto tragico, ricordando la figura del monumento Uttini, mentre il velo della piangente di destra copre delicatamente il suo viso, emanando un sentimento di doloroso raccoglimento, richiamando il modello di Giacomo De Maria. 

Il figlio di Giovanni Putti, Massimiliano (1809-1890), segue le orme del padre e comincia anche lui una formazione di scultore, prima sotto la guida di Giacomo De Maria, e poi con il suo successore Cincinnato Baruzzi. Massimiliano Putti si conforma allo stile neoclassico di moda a Bologna fino alla metà del secolo, e a partire dagli anni 40, in seguito di un viaggio a Roma, si dirige verso una linea più purista, sicuramente influenzata dalla scoperta delle opere di Pietro Tenerani, caposcuola del movimento. La sua produzione maggiore si trova in Certosa, in cui esegue una trentina di lavori di ornamento (medaglioni, busti ritratto, opere di ornato) e una decina di veri e propri monumenti funerari. Poche delle sue opere sono firmate e datate, ma tra queste troviamo il capolavoro neoclassico eseguito nel 1868 per la cella della famiglia Pepoli nella sala del Colombario in Certosa. Il monumento è composto di un basamento in cui è incisa l’epigrafe, sormontata da un sarcofago ornato in centro dallo stemma della famiglia e sui lati dai due ritratti dei defunti, Giovanni e Gaetano. L’opera è dominata dalla figura imponente del Cristo Redentore che ricorda il modello realizzato dallo scultore danese Bertel Thorvaldsen, attivo a Roma all’inizio dell’Ottocento. Il Cristo di Putti, a differenza di quello di Thorvaldsen, è completamente avvolto in un’ampia tunica, e le sue mani effettuano un gesto protettivo verso le due anime che si elevano simmetricamente dai lati del sarcofago. La sostituzione dei classici Geni della Morte con degli Angeli sottolinea il passaggio dal Neoclassicismo al Purismo. Questa scenografia si ritrova nel monumento dedicato a Domenico Pallavicini, anch’esso datato al 1868. Qui, un Angelo della Pace dalle ali imponenti sembra fluttuare in uno slancio in avanti sopra il monumento, effetto visivo rafforzato dal suo sguardo rivolto verso il cielo e dai drappeggi ondeggianti del suo abito. Il monumento è fortemente simbolico: l’Angelo, coronato da una stella che simboleggia la vita eterna dei giusti, porta una mano al petto in un gesto reverenziale e tiene nell’altra mano un ramo d’ulivo, simbolo di pace. La figura celeste svolazza sopra una complessa struttura geometrica: il basamento, dove sono incisi le epigrafi e lo stemma della famiglia, è rialzato da un gradone ornato di ghirlande floreali e da motivi angolari decorativi. Sopra di esso sono collocati  i due sarcofagi classicheggianti, uniti nella parte posteriore da un piedestallo cubico dove un crisma viene inserito all’interno dell’ouroboros, simbolo d’eternità. Massimiliano Putti realizza nel 1867 il monumento funebre dedicato a Francesco Casalini. La struttura imita la forma di una lapide curva, coronata da una conchiglia alata, segno di vita e di resurrezione, da cui ricadono due festoni di fiori. Nel blocco di marmo inferiore è scolpito un bassorilievo che rappresenta il figlio e la vedova del defunto, vestiti con tuniche dai drappeggi sontuosi che non sono né realistiche né classiche, ma ricordando piuttosto tuniche rinascimentali. Le due figure sono presentate in un atteggiamento di raccoglimento religioso per la madre, e di dolorosa riflessione per il figlio. La scena è illuminata da un tripode sormontato da una fiaccola. Il lirismo dell’opera risiede nello sguardo che la vedova porta al busto del marito, posto sul blocco di marmo superiore. Nell’altorilievo scolpito in una nicchia circolare si trova il ritratto naturalistico del marito, vestito in abiti moderni e raffigurato a un’età già matura, con i baffi e lo sguardo severo. Il contrasto tra la scena in basso, di vena purista, e il ritratto del tutto naturalistico del defunto evidenzia la transizione artistica dello scultore avviata dopo la metà del secolo. In Certosa, Massimiliano Putti collabora anche alla realizzazione di monumenti progettati da altri artisti, eseguendo per esempio il basamento del prestigioso monumento Malvezzi Angelelli collocato nel Colombario. Dopo anni di conflitto tra il committente originario dell’opera, Felice Baciocchi, e lo scultore Lorenzo Bartolini, legato a un difetto nel marmo del viso che ritraeva Elisa, la moglie defunta di Baciocchi, il monumento viene finalmente comprato dal Marchese Malvezzi Angelelli, e la trasformazione del gruppo in allegoria di Pallade e il Genio della Gloria viene affidata a Putti. Lo scultore aggiunge sul basamento il medaglione che contiene il ritratto del defunto e gli ornamenti simbolici che includono una face rovesciata, gli stemmi di famiglia e gli emblemi della professione del marchese. Putti orna anche il monumento di festoni floreali, elemento tipico della sua produzione scultorea.

Angelo Venturoli (1749-1821) collabora alla realizzazione di numerosi monumenti e alla concezione dell’architettura del cimitero. Formato alla scultura nell’Accademia Clementina di Bologna, ne diventa il direttore di Architettura negli anni 1780. Fra i suoi progetti architetturali più importanti in Certosa, troviamo l’imponente cappella ispirata al Pantheon di Roma della cella Hercolani e il rimaneggiamento della Sala delle Tombe nel 1816. In ambito scultoreo, progetta i monumenti Ottani, Marchetti e Barbieri, tutti e tre realizzati dello scultore Giovanni Putti. Nel 1815, Venturoli progetta il Monumento Ottani al quale collaborano i pittori Flaminio Minozzi e Giacomo Savini per la realizzazione del fondo policromo e Giovanni Putti per la scultura. È uno dei rari monumenti a “tecnica mista” – pittura e scultura – del cimitero. L’opera è composta secondo una struttura piramidale: il basamento, in cui è incastrato una lapide circondata da corone vegetali, è sormontato da due figure dolenti, e dominato in cima da un’allegoria della Religione. Sul basamento, una piangente velata avvolta in un ampio panneggio che le nasconde il viso si china su un’urna funeraria, ricordando le statue dell’Ingresso monumentale anch’esse realizzate da Putti. Accanto ad essa si trova un Genio funebre alato, che tiene nella mano sinistra una torcia rovesciata, simbolo della morte. Il suo corpo atletico nudo, che ricorda i modelli canoviani, è coperto da un delicato panneggio che utilizza per asciugare le sue lacrime. Seduta in cima al monumento su un alto piedestallo si trova un’Allegoria della Religione che tiene nella mano sinistra un’imponente croce. Il fondo ad affresco crea un effetto di profondità, aprendo nel muro due finestre che mostrano da una parte un paesaggio dalla forte simbolica massonica che contiene una colonna e una piramide dall’ingresso simile a un tempio greco, e dall’altra una cappella in cui è posto un sarcofago dominato da due sculture grottesche. Angelo Venturoli disegna anche il modello del monumento Ferreris realizzato da Giovanni Putti nel 1818.

Formatosi presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna, Alessandro Franceschi (1789 – 1834) frequenta la scuola di Elementi di figura e la scuola di Scultura di Giacomo De Maria. Nel 1818 effettua un viaggio a Roma dove studia le opere greche e fa la conoscenza della scuola di Canova. Dal 1821 comincia l’attività artistica alla Certosa, dove realizza più di venticinque opere funerarie. Il Monumento di Camillo Zambeccari Zanchini, realizzato nel 1823, è un esempio della purezza dello stile neoclassico di Franceschi. L’artista si rifà al modello canoviano del Sepolcro degli ultimi Stuart, scolpito nel 1817-1819. Il monumento di Franceschi, come il monumento di Canova, è composto da un imponente cippo, meno piramidale di quello canoviano, sovrastato dallo stemma della famiglia, con una porta centrale circondata da due figure. I due Geni alati della Morte del monumento Stuart sono sostituiti da due figure allegoriche femminili avvolte in panneggi antichi, la Speranza a sinistra, che tiene un’ancora, simbolo di fede e di speranza, e la Carità a destra, incarnata in una madre e i suoi due figli. Franceschi toglie i motivi florali, le corone di foglie e i busti dei defunti che ornano il monumento Stuart per lasciar spazio alla purezza della pietra e al simbolo religioso del crisma. Un’altra opera importante di Franceschi in Certosa è il monumento di Francesco Arrighi realizzato nel 1821. Il monumento è costituito da un basamento sul quale sono poste a sinistra un’allegoria della Fede con ai piedi un leone, simbolo della resurrezione, e a destra una figura femminile di profilo che tiene uno specchio. Il ritratto del defunto si trova in un medaglione al centro del cippo, e sovrasta due faci rovesciate che simboleggiano la vita che si è spenta, e una bilancia, simbolo di giustizia. Si sente l’influenza di Canova nella scelta dei motivi iconografici: il timpano del cippo ricorda la forma della piramide, simbolo di eternità, e la figura della Fede con il Leone riproduce quella del Monumento al Papa Clemente XIII realizzato da Canova tra il 1787 e il 1792 per la Basilica San Pietro. Cesare Gibelli (1806 – 1885), allievo di Franceschi, figura con frequenza tra i plasticatori della Certosa. Esegue il monumento dedicato al maestro nel 1835. La stele presenta una Fama alata, che ricorda il Genio della tomba Stuart di Canova, che reca una corona d’alloro in mano, simbolo di immortalità, e che abbraccia il busto dello scultore con cui scambia uno sguardo profondo. Il Neoclassicismo trasforma radicalmente il paesaggio architettonico, passando dalla valorizzazione di edifici riccamente ornati, dorati, policromi, a un’architettura semplice, monocroma, caratterizzata dall’uso di forme geometriche assolute. L’architettura della Certosa, che sviluppa la sua forma attuale nell’Ottocento, si iscrive perfettamente nei principi neoclassici.

Ercole Gasparini (1771-1829) è l’incarnazione del Neoclassicismo, fino al suo nome. Mentre tutte le fonti e l’epigrafe della sua tomba riportano il nome “Ercole”, un’unica fonte scritta dedicata ai battesimi evoca un altro nome, ciò che potrebbe significare che Ercole sarebbe il suo nome d’artista, utilizzato in riferimento al mito greco di Ercole per riflettere la sua passione per l’Antichità. Studia presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna, dove ottiene la cattedra di Architettura. La sua formazione artistica lo conduce a Roma e a Napoli dove studia opere antiche, visita i siti archeologici e frequenta i cerchi culturali neoclassici dell’epoca. In Certosa partecipa sia alla concezione architettonica del cimitero sia alla realizzazione di monumenti scultorei. Nel 1811 progetta il portico della Certosa che si inserisce nel piano di rinnovamento urbanistico avviato dalla città in età napoleonica. Uno dei suoi capolavori architetturali era la Cappella dei Suffragi, realizzata all’inizio dell’Ottocento. La pianta si rifaceva agli esempi dei classici romani per l'accostamento della forma semicircolare al prospetto, composto da frontone e timpano triangolare sostenuto da sei imponenti colonne corinzie, mentre all'interno l'altare rimaneva separato dal coro da quattro colonne. La Cappella fu quasi totalmente demolita nel 1863 da Antonio Zannoni, che la trasformò nell’attuale Galleria degli Angeli. La Cancellata d’ingresso fu progettata nel 1802 e si compone da tre eleganti cancellate delimitate da quattro imponenti pilastri dei quali quelli centrali ospitano due lapidi che ricordavano la fondazione del cimitero avvenuta nel 1801. I due pilastri centrali sono sormontati dai “Piagnoni” realizzati dallo scultore Giovanni Putti. Per quanto riguarda la concezione di monumenti funebri, Gasparini si inserisce nella tendenza tipica della decorazione cimiteriale ottocentesca. Nel 1813 progetta il monumento di Giovanni Donati, avvocato benestante, che viene eseguito da Giacomo De Maria. L’opera ha una struttura geometrica composta da un basamento parallelepipede con arco scavato in cui si trova un’urna, che ricorda la monumentalità degli archi di trionfo romani. Sopra il cippo maggiore, diversi basamenti rettangolari si sovrappongono, formando una piramide che cresce verso l’alto e che culmina nel busto marmoreo che ritrae Donati. L’opera recupera dei simboli dell’iconografia neoclassica, come i due bassorilievi che rappresentano dei geni appoggiati a fasci rovesciate e la lanterna, simboli della vita che si spegne, e integra delle sculture che alludono all’attività di magistrato di Donati, come il fascio littorio, i volumi di diritto, un calamaio e delle penne. Nel 1815, Gasparini progetta il monumento a Prospero Ranuzzi Cospi, nobile e cultore delle arti e delle scienze. La composizione è semplice e raffinata: il busto del defunto, realizzato da Giacomo De Maria, è posto al centro della composizione, sormontato da una lunetta in bassorilievo - eseguita dallo stesso scultore - che raffigura un angelo funebre che volge lo sguardo in basso, in atteggiamento contemplativo. La struttura è chiusa da due colonne con capitelli corinzi che sostengono l’arco decorato di fregi che sovrasta il monumento. Un esempio simile di purificazione compositiva può essere trovato nel modello per il monumento di Giacomo Giro, realizzato nel 1822. Il monumento è molto semplice, composto da un alto basamento ornato in centro da un bassorilievo e sormontato da una struttura piramidale fatta da due gradoni che sostengono il busto del defunto, frontale, mostrato nella sua severità e maturità. In un disegno dell’architetto che mostra il progetto iniziale del sepolcro, Gasparini prevede per il bassorilievo una messa in scena teatrale e sentimentale dei familiari del defunto, mentre il monumento finale presenta una processione di donne e fanciulle vestite in ampi panneggi antichi e raccolte in un dolore silenzioso. Questo contrasto illustra il passaggio dalla tragicità barocca all’introspezione neoclassica. Il monumento dedicato ai fratelli Giacomelli, progettato da Gasparini e realizzato nel 1823 da Francesco Franzoni, riprende la struttura tipica dei monumenti neoclassici. L’opera è costituita da un imponente cippo parallelepipede sormontato da un sarcofago alato dal timpano piramidale. Attorno alla stele che contiene l’epigrafe, due figure femminili velate incarnano le allegorie della Giustizia e del Commercio, in riferimento alle professioni di Francesco, avvocato, e di Gianpietro, negoziante. Il sarcofago è ornato di motivi decorativi classici, festoni, ghirlande, e ouroboros, simbolo d’eternità, che raffigurano un gruppo di angioletti che recano il medaglione con i ritratti dei defunti in centro e una bilancia, che evoca il mondo della giustizia, e un caduceo e un’ancora, che simboleggiano il commercio.

L’altra figura principale dell’architettura neoclassica in Certosa è Giuseppe Tubertini (1759 – 1831), Direttore di Architettura presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna dal 1790 al 1803. Completa l’emiciclo del Chiostro V, che termina con una muratura ritmata da nicchie incassate al muro, alternate da colonne doriche; riadatta due delle celle monacali corrispondenti alle Celle I e II del recinto dei Cappuccini; e presiede alla realizzazione del Pantheon, o “Sala degli Uomini Illustri”. 

Per chiudere il soggetto del Neoclassicismo in Certosa, bisogna interessarsi al suo aspetto meno stimato ma non trascurabile: la pittura neoclassica. Mentre il Neoclassicismo ammira la scultura greca e romana per la sua purezza di stile, gli affreschi ritrovati nei siti archeologici come Pompei deludono i contemporanei, che li considerano una grottesca e impura derivazione dei capolavori antichi. Gli affreschi antichi vengono quindi messi da parte dai critici, e gli artisti cercano di elaborare una forma d’arte pitturale neoclassica completamente nuova, creando un’Antichità ideale e artificiale. A livello tecnico, i pittori provano a raggiungere un’epurazione dello stile, utilizzando una scatola prospettica semplice, la geometria delle forme, dei colori primari, a volte completamente negando il colore per concentrarsi sulla linearità delle figure. In Certosa, prima dei monumenti scultorei erano realizzati dei monumenti dipinti, presto sostituiti per la loro deperibilità. Pelagio Palagi (1775-1860) incarna l’esempio più alto della pittura neoclassica bolognese. Protetto dal nobile Carlo Filippo Aldrovandi, si forma presso la sua biblioteca di arte e le sue raccolte di dipinti e calchi di statue celebri, frequentando l’accademia che si riunisce nel palazzo degli Aldrovandi. Anche se la sua carriera viene soprattutto avviata dal suo soggiorno a Roma tra il 1806 e il 1815, durante il quale frequenta l’atelier de Canova e studia l’antico, realizza tra il 1802 e il 1804 quattro monumenti dipinti per la Certosa che possiedono già delle caratteristiche neoclassiche. Oggi solo due sono sopravvissuti: il monumento Pepoli e il monumento Sampieri De Gregorio.

Palagi realizza nel 1801 il monumento dedicato al musicofilo Edoardo Pepoli, che allude in molti elementi alla cultura antico-romana. La parete è coperta da un motivo geometrico che finge una nicchia curva con cassettonato, ricordando il soffitto del Pantheon di Roma. Attorno alla lapide in pietra che contiene l’epigrafe viene dipinto un sarcofago ornato di festoni e di trionfi di strumenti musicali che evocano la passione per la musica del defunto. Tra questi strumenti si distinguono sistri, crotali, cembali e strumenti a fiato, probabilmente tratti dai repertori di scultura antica che consultava Palagi nel palazzo Aldrovandi. Sopra il sarcofago è sdraiata una figura maschile opulenta avvolta in un panneggio, il gomito appoggiato al cuscino. Un serpente, che potrebbe essere l’ouroboros, simbolo d’eternità, è arrotolato attorno al suo braccio. La barba dell’uomo e il suo sguardo potente evocano le fattezze di Giove, capo degli dèi. La posa della figura imita sia i gisant etruschi sia la statuaria romana con le sue numerose immagini di divinità fluviali, come le personificazioni del Nilo e del Tevere di Tivoli, o del Tevere del Campidoglio di Roma, note agli artisti dai repertori a stampa e dai calchi in gesso delle Accademie di Belle arti. Benché a prima vista il monumento Sampieri – De Gregorio, realizzato nel 1804, non sembri rispettare i principi neoclassici di purezza e di semplicità, la sua composizione in due parti sovrapposte rispecchia in realtà due aspetti maggiori del movimento. La parte bassa del monumento esplora attraverso l’affresco le regole scultoree del neoclassicismo; il modello del sarcofago dal timpano piramidale verrà infatti scolpito numerose volte nella pietra. Sul sarcofago si distinguono dei trionfi d’armi tratti dai repertori antiquari dell’epoca che alludono all’attività militare di Luigi Sampieri. Sopra il sarcofago sono dipinti nello stesso colore terracotta dei festoni e ghirlande di fogli. Sopra la stele, nella lunetta, Palagi dipinge una scena narrativa su sfondo di paesaggio pastorale ispirato agli artisti seicenteschi come Claude Laurrain e Poussin che erano presi come modelli dai paesaggisti neoclassici. In questo paesaggio idillico e arcaico, una sposa velata viene condotta da una figura angelica allo sposo seduto, immaginato come un giovane seminudo in abbigliamento classico. Sulla sinistra è distesa la figura di un dio fluviale, appoggiato ad un’anfora. L’artista mescola evocazione religiosa, attraverso la figura della fanciulla simile a una giovane Madonna, e riferimenti mitologici, con le due figure maschili le cui pose evocano la statuaria antica.

Carlo Bianconi (1732-1802) è un artista, uomo di lettere e un colto collezionista d’arte che incarna l’esempio perfetto di figura intellettuale neoclassica. Impara da autodidatta la scultura, l’architettura e l’ornato, e studia anatomia con il maestro Ercole Lelli. Riceve sin dalla giovinezza committenze per l’esecuzione di pale d’altare e di affreschi, eseguendo anche diverse incisioni, stemmi e blasoni. In quanto pittore, realizza una serie di opere in chiese e palazzi e riveste anche il ruolo di decoratore in stucco ed architetto per progettare ed eseguire diverse gallerie e sale di palazzi bolognesi. La sua adesione al neoclassicismo è favorita dal suo incontro con Winckelmann, di passaggio a Bologna nel 1755. L’artista non lavora in Certosa, ma alla sua morte nel 1802, un monumento ad affresco gli viene dedicato. L’opera, oggi quasi interamente distrutta, rappresentava all’epoca un basamento a gradoni sul quale venivano appoggiate due anfore che richiamavano i modelli antichi. Lo sfondo dipinto en trompe-l’oeil produceva un effetto di profondità che imitava una cappella dalla volta a crociera appoggiata su delle colonne toscane. Il monumento era all’epoca riccamente ornato da motivi vegetali, con dei festoni di fiori e un ricamo di fogli. L’opera altamente simbolica raffigurava, sopra un piedestallo nel quale era incastrato una conchiglia alata, un’Allegoria femminile avvolta in un ampio drappeggio che teneva nella mano destra una corona d’alloro, simbolo di sapienza, che faceva da aureola al ritratto del defunto. Sul piedestallo erano collocati diversi oggetti che alludevano alla vita dell’artista: dei libri, un busto di scultura, una squadra, una tavolozza, etc. La memoria dipinta era frutto di una collaborazione tra Vincenzo Armani per le figure Gaetano Caponeri per gli elementi di ornato.

Il pittore Vincenzo Armani (1750-1825) è attivo in diversi monumenti in Certosa, come quello della famiglia Brunetti. L’affresco che circonda la porta d’ingresso alla cella della famiglia protestante unisce un gran numero di simboli funerari neoclassici. Sui lati, due animali fantastici alati posti simmetricamente di fronte a fiaccole accese custodiscono il monumento. Sopra la porta viene rappresentato un sarcofago classicheggiante sul quale si appoggiano due donne velate avvolte in ampi panneggi che tengono i ritratti dei defunti, e sul quale, in mezzo a una composizione vegetale, sono poste una clessidra, che evoca lo scorrere del tempo, e delle torce rovesciate, simbolo della morte. I piedi del sarcofago a forma di leone e l’ouroboros alato, simbolo d’eternità, ricordano altri importanti motivi neoclassici. Il monumento dedicato a Giovan Giuseppe Fabbri, realizzato nel 1810, è ancora più spettacolare, e ricorda la composizione della cella Hercolani eseguita nello stesso periodo. L’affresco raffigura un basamento ornato di festoni e motivi allegorici che evocano i diversi interessi e mestieri del defunto, uomo dotto ricordato per il suo intelletto: un libro e una pergamena per l’insegnamento e la filosofia; una corona d’alloro che simboleggia la sapienza; una spada e un caduceo incrociati che evocano la medicina. Infatti, l’epigrafe del monumento legge: “Monumento di Gian-Giuseppe Fabri, filosofo, e medico anatomico, Professore nell'Università, Accademico dell'Istituto, del Collegio Elettorale dei Dotti, della Commissione di Sanità, e del Cimitero; personaggio chiarissimo per virtù e sapere”. Nascosti dietro due colonne toscane che inquadrano il monumento si trovano due vasi ispirati all’Antichità greca. Sopra il basamento, due piangenti velate avvolte in drappeggi si appoggiano su un piedestallo, e in alto, eretto su un altro piedestallo più alto decorato di bassorilievi, si trova il busto del defunto. Una pittura trompe-l’oeil che raffigura una cappella circolare ornata di bassorilievi e di fregi scultorei dà un effetto di profondità all’opera.

L’altro artista che collabora alla realizzazione del monumento Bianconi è Gaetano Caponeri (1763-1833), pittore ed ornatista. Inizia la sua attività dipingendo soprattutto fiori, ma lavora anche su cantieri più ampi, intervenendo in diversi palazzi e chiese, e in particolare decorando il Teatro Comunale di Bologna. In Certosa, Caponeri partecipa alla realizzazione di almeno sette monumenti dipinti a quattro mani, in cui interviene in qualità di ornatista tra il 1802 e il 1815. Oltre al monumento Bianconi, solo due altri opere ci sono pervenute: il monumento di Bernardino Bargellini e il monumento di Giuseppe Salaroli. Il monumento Bargellini, realizzato nel 1805, fortemente neoclassico, unisce una composizione pura e geometrica a una simbologia complessa. Sopra un alto basamento diviso in due parti da un fregio a ricamo geometrico e sormontato da un fregio a motivo corinzio, due leoni sdraiati servono di supporto a un sarcofago classicheggiante a timpano piramidale. La parte inferiore del basamento è ornata da ghirlande, festoni e corone vegetali e da un ouroboros. Nella parte superiore, due Geni funebri vestiti con panneggi antichi si chinano su delle torce rovesciate. Queste figure di profilo ricordano le figure a puro contorno delle incisioni di Flaxman. Sulla lapide inserita nel basamento è iscritta l’epigrafe, che contiene i tre simboli cristiani tradizionali – alfa, omega e crisma – che evocano l’eternità incarnata in Cristo. Il timpano del sarcofago è ornato da una clessidra alata, che rappresenta la caducità della vita umana. Il monumento di Giuseppe Salaroli, realizzato nel 1805, evoca la grandezza dell’epoca romana. La composizione dell’opera allude all’attività militare del defunto. Sul secondo gradone del basamento, due aquile simmetriche, simbolo imperiale napoleonico che fa riferimento all’Impero romano, legate da festoni vegetali, circondano la lapide dedicata al defunto. Sopra il basamento, le figure in piedi di Minerva e di un Genio funebre si appoggiano su un piedestallo ornato da un bassorilievo raffigurante una scena militare. In alto, un trofeo militare composto da un repertorio di simboli e equipaggi antichi domina il monumento: un’armatura sormontata da un elmo è circondata da una proffusione di armi – lancie, spade, scudi – e di elementi metaforici – aquile, globi alati, leoni, fogli d’alloro-. Tutti gli elementi richiamano la Roma imperiale. Tra questi possiamo anche segnalare il bassorilievo con scena militare simile a quelli presenti nella Colonna Traiana e Antonina, e il trofeo d'armi ispirato a quelli antichi collocati alla sommità della scalinata del Campidoglio. La scelta monocromatica ad imitazione del marmo tende ad accentuare questo ritorno all'antico.

Il Neoclassicismo matura molto rapidamente e la sua fioritura è seguita da un periodo di decadenza e di deprezzamento rapidi. Il gusto imperiale, che può essere considerato da certi come l’apice dello stile neoclassico, può anche essere visto come una sua corruzione. Infatti, Napoleone prende come modello l’Antichità romana, tornando a una ricchezza ornamentale che richiama il goût grec del Settecento più che la purezza stilistica neoclassica. L’arte dell’Ottocento è un’arte fluttuante e profusa, e nel naturalismo di certi artisti neoclassici si intravedono già le premesse dell’arte verista, nello stesso modo in cui il lirismo di certe opere anticipa lo slancio sentimentale del romanticismo. 

Clothilde Guégan, 2021

Bibliografia di riferimento oltre ai link interni al sito: Neoclassicismo, Hugh Honour, Einaudi, 2010; Definizione «Neoclassicismo», Enciclopedia Treccani; «Lorenzo Bartolini», Enciclopedia Treccani; «Giacomo De Maria», Enciclopedia Treccani.

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Incontro on-line del 26 dicembre 2020 con Roberto Martorelli, del Museo civico del Risorgimento di Bologna - Certosa.

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Descrizione del Cimitero di Bologna
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Descrizione del Cimitero di Bologna (Description of the Certosa cemetery), fascicolo XLI, ultimo della Collezione. Giovanni Zecchi, Bologna, 1829. © Museo Risorgimento Bologna | Certosa.

Specimen inscriptionvm | vol. 1
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Specimen inscriptionvm coemeterii bononiensis, Schiassi Filippo, Tipografia Lucchesini, Bologna, 1809, volume 1. Collezione privata.

Specimen inscriptionvm | vol. 2
Tipo: PDF Dimensione: 12.98 Mb

Specimen inscriptionvm coemeterii bononiensis, Schiassi Filippo, Tipografia Lucchesini, Bologna, 1815, volume 2. Collezione privata.

Cimitero Comunale di Bologna
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Cimitero Comunale di Bologna. Estratto dalla rivista “Il mondo illustrato – Giornale universale”, Torino, nn. 34, 35, 36, 38, 42, 1847. Testi di Savino Savini, trascrizione a cura di Lorena Barchetti.

Piccol Reno (Il)
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Il Piccol Reno - Foglio settimanale. 1845-1846. Tipografia San Tommaso D'Aquino, Bologna. Repertorio dei testi sulla topografia della Certosa di Bologna. Trascrizioni a cura di Lorena Barchetti.

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Progetto di unire i portici di San Luca con le loggie del Cimitero Comunale di Bologna onde procurare a quest'ultimo stabilimento l'accesso coperto il più economico. Bologna, Tipografia Sassi, 1811. Collezione privata.

Uomini Illustri | Pantheon di Bologna
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Passeggiata nell'eternita' (Una)
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Una passeggiata nell'eternità. In occasione della Settimana dei cimiteri europei 2020. Un lungo percorso da svolgere in autonomia, partendo da alcune memorie che si trovano nel perimetro esterno, per poi giungere nel cuore della Certosa, alla scoperta di capolavori come di opere, eventi e personaggi poco noti.

Cenni storici della Certosa di Bologna
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Augusto Bastelli, Cenni storici della Certosa di Bologna, Tipografia Luigi Parma, 1934. Copia con annotazioni ed appunti autografi dell'autore. © Museo Risorgimento Bologna | Certosa.

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