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Carcere di San Giovanni in Monte

Carcere circondariale

Carcere

Schede

Edificato nel XIII secolo su una piccola altura in pieno centro cittadino, a fianco della omonima chiesa, San Giovanni in Monte fu sede conventuale fino all’epoca napoleonica. Successivamente i suoi locali vennero adibiti a prigione, e in questa veste funzionarono come carcere giudiziario di Bologna fino agli anni ottanta del secolo scorso.

IL CARCERE IN ETÀ NAPOLEONICA E LIBERALE

Pochi giorni dopo l'entrata delle truppe napoleoniche in città e l'instaurazione del nuovo «ordine», il 10 marzo 1797 venne soppressa la corporazione religiosa dei Canonici Regolari Lateranensi, che aveva sede nel Monastero di San Giovanni in Monte. La struttura, dopo essere stata inizialmente convertita in Tribunale Speciale, venne adibita a carcere giudiziario. Nelle piccole celle ricavate dal frazionamento dei vani in cui un tempo erano ospitati monaci e religiosi, fin da subito vennero tradotti detenuti politici, disertori e delinquenti comuni. Un decreto del 28 ottobre 1800 stabilì che fossero trattenuti nell'ex Monastero anche i condannati ai lavori pubblici o ai ferri, e non solo i prigionieri in attesa di giudizio. Esso stabiliva inoltre che ogni giorno, ad ore predeterminate, questi reclusi uscissero scortati dalla polizia «per ripulire le strade della città, massima d'inverno, e per annaffiare i pubblici passeggi d'estate, oltre vagliare la ghiaia, per la manutenzione delle strade di campagna e per altri lavori» (Tarozzi 1998, p. 55). La restaurazione del Governo pontificio non inficiò la nuova realtà di San Giovanni in Monte, che anche dopo il tramonto dell'età napoleonica continuò a servire come carcere giudiziario: anzi, il nuovo codice di procedura del 1831 ed il successivo codice penale del 1832 – promulgati durante il pontificato di Gregorio XVI – poneva questa e strutture similari al centro del sistema carcerario, facendone così «luoghi […] oltremodo sovraffollati poiché le autorità pontificie intendevano l'imprigionamento quale forma di repressione della piccola delinquenza e del vagabondaggio assai diffusi in un'area dove depressione, arretratezza economica e assenza di sviluppo erano i tratti dominanti» (Tarozzi 1998, p. 59). Tale situazione non mutò neanche con lo Stato unitario, che definiva “briganti”, “sovversivi” e “malfattori” anche i nuovi oppositori politici quali anarchici, internazionalisti, repubblicani e socialisti. Scrisse Romano Canosa che però questa «“grande” criminalità anarchica e socialista fu in gran parte una creazione artificiale degli apparati di governo e dei loro amplificatori ideologici (giornali, ecc.) i quali costituirono, partendo da fenomeni di protesta sociale collettiva (a basso tasso di violenza nella maggior parte dei casi per gli anarchici, a tasso di violenza zero o quasi per i socialisti) un nuovo stereotipo di criminalità politica ad alto contenuto di pericolosità. E questo stereotipo essi tentarono, spesso con successo, di imporre a tutto il paese, prendendo a pretesto alcuni fatti, indubbiamente gravi, ma altrettanto innegabilmente sporadici, accaduti negli anni Settanta». Ad esempio, furono arrestati con l'accusa di cospirazione i partecipanti al II Congresso dell'Internazionale organizzato da Andrea Costa a Bologna nel marzo 1873 – così come coloro che presero parte al fallito tentativo insurrezionale dell'anno successivo (agosto 1874). Un altro notissimo episodio fu quello che fece seguito al fallito attentato di Giovanni Passannante al re Umberto I, perpetrato nel novembre 1878 a Napoli. A Bologna le manifestazioni contro la condanna del cuoco internazionalista portarono ad una serie di arresti e rinvii a giudizio con l'imputazione di «far parte di un'organizzazione criminosa e di malfattori, detta l'Internazionale, che ha per oggetto di delinquere contro le persone, la proprietà e di distruggere le basi della società, cercando di raggiungere lo scopo sia con fatti ed atti di violenza sia con eccitamento a mezzo di discorsi e stampati clandestini» (Evangelisti 1980, pp. 159-160). Il 7 settembre 1879, giorno della sentenza, un nutrito gruppo di internazionalisti manifestò la propria contrarietà nella piazzetta di fronte al carcere dove furono tradotti i condannati: due dei più «scalmanati» – così come vennero definiti dai Carabinieri – vennero perciò arrestati. Uno di essi era lo studente ventiquattrenne Giovanni Pascoli, che rimase “ospite” di San Giovanni in Monte da quel 7 settembre al 22 dicembre successivo. In appendice alla raccolta dei Canti di Castelvecchio (1903), a proposito della poesia La voce, Pascoli ricordava come la fine degli anni Settanta dell'Ottocento corrispondesse a quello dei «primordi del socialismo italiano, in cui si processavano come malfattori quelli che aspiravano a togliere dal mondo il male; e si condannavano. Io protestai. E così ebbi occasione di meditare profondamente, per due mesi e mezzo d'un rigidissimo inverno, su la giustizia. Dopo la qual meditazione, mi trovai allora assolto e per sempre indignato. Ai cari compagni di quel tempo un saluto!» (Evangelisti 1980, p. 163).

Andrea Spicciarelli

IL CARCERE DURANTE L'OCCUPAZIONE NAZISTA

Durante l’occupazione tedesca San Giovanni in Monte continuò a svolgere lo stesso ruolo, raccogliendo gli arrestati dalle varie autorità di polizia della Rsi, e contemporaneamente divenendo il principale luogo di reclusione per le autorità militari e di polizia naziste. In particolare venne utilizzato dal locale comando SS, l’Aussenkommando Bologna, sezione distaccata della centrale veronese della Polizia di sicurezza e Servizio di sicurezza (Sipo-SD), cioè la polizia politica e il servizio segreto delle SS, comprendenti anche la sezione della Gestapo. L’area di competenza del comando SS bolognese fu fino all’estate 1944 praticamente regionale, e a San Giovanni in Monte vennero fatti affluire numerosi detenuti politici anche da altre province – specie Modena, Ferrara, Ravenna e Forlì – destinati ad essere interrogati e giudicati dai funzionari di polizia SS prima di essere inviati a fucilazione o deportazione. Furono alcune centinaia i detenuti di San Giovanni in Monte coinvolti in esecuzioni e rappresaglie da parte di autorità fasciste e tedesche: tra l’inverno 1943 e l’autunno 1944 i carcerati furono uccisi soprattutto al Poligono di tiro e in piazza Nettuno, mentre tra l’inverno 1944 e la primavera 1945 essi furono oggetto di segreta eliminazione da parte delle SS negli eccidi di Sabbiuno di Paderno e San Ruffillo.
Parallelamente altre centinaia e centinaia di detenuti furono inviati nei lager di transito di Fossoli e Bolzano, anticamera alla deportazione nei Konzentrationslager di Mauthausen e Gusen, Flossenbürg, Dachau, Ravensbrück, o all’impiego nel lavoro coatto per l’industria bellica del Terzo Reich. Complessivamente fra l’8 settembre 1943 e la Liberazione, dalle celle e dai “cameroni” di San Giovanni in Monte transitarono oltre 7000 fra detenuti e detenute, sotto autorità sia italiana che tedesca. Per la maggior parte si trattava di prigionieri “politici”: partigiani, antifascisti, operai scioperanti, ma anche, renitenti al servizio militare e del lavoro, ex-militari, o semplici civili rastrellati. Nello stesso periodo il carcere bolognese funzionò anche come luogo di transito per prigionieri di guerra alleati e russi, e per internati ex-jugoslavi. Tra l’autunno 1943 e l’estate 1944 inoltre servì come luogo di concentramento per gli ebrei destinati allo sterminio, membri della comunità israelitica locale o ebrei stranieri in fuga dalla persecuzione razziale in atto nei paesi di origine. Incarcerati sia sotto autorità tedesca che italiana, venivano periodicamente trasferiti – in genere con agenti italiani di Ps – al campo di concentramento di Fossoli, da dove poi erano caricati sui convogli diretti ad Auschwitz. Complessivamente furono quasi un centinaio gli ebrei deportati a partire da San Giovanni in Monte. Da ricordare l’audace intervento di un nucleo di partigiani della 7a Gap che il 9 agosto 1944, immobilizzando il corpo di guardia, favorirono l’evasione di gran parte dei prigionieri della sezione maschile.

Andrea Ferrari e Paolo Nannetti