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monsignor Luciano Gherardi

Schede

L’ultima settimana non ha riscontri precisi al di fuori del Libro dei Morti. Si è fatto buio a mezzogiorno. Anche l’animo impavido di don Giovanni è vulnerato. I nazisti invasero il paese; verso le ore 15 della domenica 8 ottobre nella canonica di Sperticano si insediò il comando di un reparto delle SS. Lo guidava un capitano tozzo e basso che stabilì il suo quartiere nell’ufficio parrocchiale e, appena entrato, cominciò a scaraventare a terra libri e registri. Le donne dovevano essere pronte ai suoi cenni, rifargli il letto e spolverare la scrivania, su cui era sistemata una radio rice-trasmittente. Dovevano tenere in ordine le divise, lavarle e stirarle. Sette ufficiali con gli attendenti occupavano alcune stanze della canonica. I militari di truppa erano alloggiati nella scuola con circa 40 brandine. Al bivio fra la chiesa e Borgo Fontana, presso il lavatoio, avevano allestito un’infermeria da campo.
Ci riducemmo tutti nel salone di fianco al soggiorno - ricorda la piccola Caterina - e don Giovanni nella dispensa. L’archivio parrocchiale fu stipato dentro una cassa dietro l’altare maggiore. Le campane tacevano dal 29 settembre; il volto della nonna era il riflesso della situazione. Una sofferenza continua. Non capiva cosa stesse succedendo, né riusciva più a confidarsi con don Giovanni; l’avrebbe forse potuto fare con Luigi, ma era irraggiungibile. La guerra stringeva il suo cerchio. In uno di quei giorni cadde un bengala di notte sugli ippocastani di fronte alla canonica e fu subito un immenso falò.
Alle donne toccava far da mangiare e servire a tavola. I rapporti con don Giovanni si guastarono subito, quando vide i suoi libri buttati a terra e l’archivio a soqquadro. Ciononostante faceva di tutto: sbadilava per i cadaveri e manteneva vivo il lumicino della liturgia. Celebrava alle 6 del mattino; e anche la domenica 8 ci fu la Messa per la famiglia.
Nel corso di quelle angosciose giornate, il cielo si era abbassato con pioggia sferzante e nubi incombenti. Don Giovanni parlava poco. Si sentiva come recluso in casa propria. Quando rivendicava il suo spazio di azione, non subiva che rifiuti. Avvertiva imperioso il bisogno di andare su alla Pieve di San Martino. Sapeva della morte di don Ubaldo e dei suoi; ma gli era ignota la sorte di don Casagrande.
Il mercoledì 11, il Libro dei Morti registra gli ultimi due funerali: Armando Masotti, di Malfolle, ucciso dai tedeschi il 2 ottobre a Sassatelli; e Francesco Rovigo, marito della Tommasina e papà di Pietro, che, colpito da una cannonata, raggiunse i suoi cari massacrati il 30 settembre. Non restavano che gli occhi per piangere.
Il giorno 12 si aprì con il segno del banchetto, che era stato il preludio della morte di Giovanni il Battista. Le donne misero nel forno i dolci da servire a tavola, per il compleanno del comandante. Gli ufficiali mostravano una insolita cortesia nella prospettiva di una serata di baldoria, con invito alle donne di casa. L’idea accrebbe l’inquietudine: nondimeno l’arciprete parve fare buon viso a cattiva sorte e si autoinvitò alla festa.
Gigi era di nuovo clandestino. Lo vide per l’ultima volta nascosto nel vano dell’organo, confidandogli che il giorno dopo sarebbe salito a San Martino, per seppellire i morti e per vedere don Casagrande. Non si incontrarono più da vivi.
Sulle 19, le SS tornarono per accompagnare le donne alla festa nell’aula della scuola. Corinna riuscì a esonerarsi, con la scusa che Caterina non stava bene. Le due ragazze sfollate in canonica - Anna Zappoli, Carla Degli Esposti - non riuscirono a sottrarsi all’invito. Si preannunciava una di quelle orge che don Girotti aveva descritto nella sua agenda. Ma don Fornasini era un testimone scomodo; e guastò la festa. Verso la mezzanotte non si sentirono più le risa e i canti e i walzer di Strauss. Ciò che avvenne è narrato dalla cronaca postuma, preferiamo per ora stendere un velo.
Le narrazioni apparse fino ad oggi colgono solo aspetti esterni e occasionali di questa vicenda assurda e drammatica. Oltre al concitato dialogo fra il capitano in preda ai fumi dell’alcool e il sacerdote che fece scudo al pudore delle giovani ospiti, ci fu uno scambio di sguardi, carichi di minaccia. Don Giovanni fece l’ultima spola fra la canonica e l’aula. Ricondotte in casa le ragazze, ripiombò in quella bagarre infernale, come gli aveva intimato il comandante: ”Bene, pastore! Accompagni pure le ragazze in canonica; ma lei torni subito qui!”. In quell’ora fu decretata l’immolazione.
Con puntualità teutonica il capitano, la mattina di venerdì 13, alle 8, era in cucina a sorbirsi la tazza di caffè. “Dov’è pastore?” domandò. “A letto” rispose Maria Frassineti. “Vada a svegliarlo e gli dica che mi segua”. Poi partì attraverso la solita scorciatoia, scomparendo con la sua scorta dietro gli alberi. Contrariamente alle abitudini, don Giovanni si era destato tardi. Quella notte aveva sperimentato il Getsemani. Pregò, pianse, disse il suo fiat alla volontà del Padre. Poi sopraffatto dalla stanchezza, come gli capitava dopo le sue sfacchinate, si buttò sul letto e si addormentò. Uscì dalla stanza ancora assonnato con il breviario in mano: “Dov’è andato il comandante?”. “Faccia colazione, don Giovanni” gli disse Corinna. “Non ho tempo” rispose “bisogna che vada”. Prese l’aspersorio, il ritualino tascabile; e anche le ostie e il vino per la Messa, nel desiderio segreto di celebrare con don Casagrande a San Martino. Sopravvenne la mamma: “Don Giovanni, dove vai? Non andare. Ti ammazzeranno!”. Le buttò le braccia al collo: “Mamma, debbo andare!”. Mentre era sulla soglia, Corinna gli chiese: “Quando torna don Giovanni?”. “Quando torno mi vedrete”. Poi si incamminò per la consueta strada con il passo risoluto. Corinna lo seguì con gli occhi per una quarantina di metri.
Passò da Borgo Fontana, diretto alla Pieve per Campidello. La via più corta. Ricorda Anna Casalini, nata Grappoli, moglie di Armando: “La mattina del 13 ottobre, sulle 8,30-9 io e mia suocera Maria Comastri in Casalini, lo vedemmo passare con il passo svelto davanti a casa nostra a Borgo Fontana. ‘Dove va, arciprete?’ chiese mia suocera. Disse che aveva un appuntamento a San Martino. Lo vidi serio in viso. Di solito era sereno e cordiale; amava trattenersi in conversazione. Quella volta si allontanò in fretta, senza dire altro; e non lo vedemmo più”. Sono le estreme testimonianze di chi scorse don Fornasini ancora vivo quella mattina. Alla suocera di Anna Casalini che lo aveva esortato: “Non vada lassù, è pericoloso” rispose agitando la corona del rosario: “Ecco la mia arma!”. Amiamo guardalo salire così per quella via erta e ripidissima, recitando i misteri della passione. Sulle orme del divino Maestro, anche lui fece la faccia dura e si diresse verso Gerusalemme (cfr. Lc. 9,51).
Il capitano rincasò, come al solito, per il pranzo a mezzogiorno. Don Giovanni non si vide; ma i suoi pensarono fosse rimasto lassù a compiere il suo dovere. Le SS si tolsero la giacca e mangiarono senza dire nulla. Non si notò alcunché di diverso dal puntiglioso rituale degli altri giorni. Dopo mezz’ora, il comandante si alzò da tavola e insieme ai suoi segugi risalì la montagna. Tornò all’imbrunire, per la cena, verso le 18. Don Giovanni non riappariva; e la gente di casa cominciò a preoccuparsi. Le donne servirono a tavola i loro ospiti-padroni. Un silenzio innaturale pesava su tutti. Corinna non poté più trattenersi e, rivolgendosi al capitano delle SS, lo interrogò: “Il pastore?”. Rispose: “Pastore , kaputt!”.
(…) Per molto tempo si divulgò l’ipotesi di una morte a due - don Fornasini e l’invalido Dario Moschetti - dietro il cimitero di San Martino. Si pensava inoltre che una raffica di mitra al collo avesse decapitato il parroco di Sperticano. Solo il 24 ottobre 1983, in un colloquio con Nerina Moschetti, figlia di Armando e nipote di Dario e di Lido, si è potuto appurare lo svolgimento dei fatti: “Eravamo scampati miracolosamente alla strage del 29 settembre, nascondendoci in una cunetta fra Caprara di Sotto e San Giovanni. Purtroppo, il 3 ottobre, una cannonata colse in pieno mia madre, Augusta Possati, presso la fontana dove era andata a fare il bucato. In quei giorni fu un continuo vagare. Nella notte del 30 ci eravamo nascosti nel bosco, e avevamo dormito dentro una grotta sopra Caprara. Morta la mamma, scendemmo di nuovo a Caprara di sotto. Le case erano bruciate; si era salvata solo la stalla e l’edificio detto ‘Fornace’, dai muri spessi, ma scoperchiato. Il 13 ottobre, mentre la nonna Gemma Corbellini faceva da mangiare, poco prima di mezzogiorno ci investì una bordata di cannonate. Perirono sul colpo Amelia e Vittorina Ventura, insieme a Bruna e Maria Concetta, figlie dello zio Dario. Ida Stalli, sua moglie, ebbe un tallone trapassato, mentre il piccolo Mario di sei mesi morì poco dopo per un orrendo squarcio al bacino. Io riuscii a salvarmi, perché mi ero rifugiata nella stalla con la nonna. Giuseppe e Giorgio, miei fratelli, rimasero feriti dalle schegge; il primo più gravemente a un fianco, l’altro lievemente a un piede. Lo zio Dario rimase colpito alla gamba buona. L’altra era già fuori uso a causa della sinovite. Faceva il falegname: non mobili di lusso, ma taglieri e ‘ciappini’ vari. Papà Armando si era dato alla macchia per paura dei tedeschi. Lo zio Lido, che era già menomato per un colpo di sole, non si fece niente.
Nel pomeriggio del 13 ottobre scendemmo verso il Casoncello a cercare un medico, per curare la ferita di Giuseppe che minacciava cancrena. Passammo da San Giovanni di Sotto e vedemmo i segni della strage. Ma le disgrazie non erano finite. Al Casoncello nonno Ferdinando fu investito da un colpo di cannone e morì. Rimanemmo lì la notte, riprendendo la strada del mattino dopo fino a Rivabella sopra La Quercia. Cercavamo un medico, ma non c’era. Ci dissero di risalire a S. Martino. Giungemmo poco prima di mezzogiorno al comando tedesco installato in canonica. Sapevamo della morte di don Marchioni, ma niente di don Casagrande e di don Fornasini. I tedeschi ci dissero di scendere verso il Reno sulla Porrettana. Fecero una pulitura al largo squarcio sul fianco di Giuseppe. Aveva 12 anni, Giorgio 14, io 9. Fu così che passammo dalla strada dietro il cimitero: io, lo zio Lido che portava in spalla Giuseppe, nonna Gemma che sosteneva Giorgio. Vedemmo dietro la cappella mortuaria, vicino al muro di cinta, l’arciprete di Sperticano con la faccia al cielo. Morto, ma ancora tutto intero.
Era il sabato 14 ottobre. Non pioveva. La nonna disse: ‘dovrebbe aver sofferto poco. L’hanno colpito al petto’. Io me lo ricordo…steso, con gli occhiali…la sottana nera…l’ho avuto davanti per tanto tempo.
Lo zio Dario ci seguiva, zoppicando sulle stampelle. Aveva detto: ‘Andate avanti; io vi raggiungerò’. Lo scorgemmo in lontananza fino a S. Martino, poi non lo vedemmo più. Arrivati in fondo, passammo da Sperticano. Era la via obbligata. Giuseppe e Giorgio vennero caricati su una camionetta e portati a Bologna. Noi, prima dell’imbrunire, tornammo indietro. Ci chiedevamo dove potesse essere Dario. ‘L’avranno preso i tedeschi’ disse la nonna. Istintivamente volli andare a vedere dietro il cimitero. Lido si fermò a distanza. La nonna mi seguì. ‘Hanno ammazzato anche lui!’. Lo presentiva… e scoppiò in singhiozzi. Vicino al prete di Sperticano, in senso inverso, con i piedi rivolti alla cappella del cimitero, stava lo zio ‘Minghino’. Notammo che non era stato colpito da schegge di cannone. Non può essere stato che un colpo di pistola o di un fucile mitragliatore, come per don Fornasini. Ebbi tanta paura. Venni subito via. La nonna c’è tornata; io no. Diceva: ‘Se i tedeschi volevano ucciderlo, perché proprio vicino all’arciprete di Sperticano?’”.

Luciano Gherardi, "Le querce di Monte Sole. Vita e morte delle comunità martiri fra Setta e Reno 1898-1944", Introduzione di Giuseppe Dossetti, Il Mulino, 1994
[QM]
Note
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