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monsignor Luciano Gherardi

Schede

Appena don Elia [Comini] ebbe deposto i paramenti bianchi della Messa, arrivò trafelato un messaggero che chiedeva un intervento alla Creda, dove era in corso il massacro. Elia e Martino [padre Martino Capelli] non esitarono; si buttarono allo sbaraglio, portando con sé - come usavano fare in quei giorni di emergenza assoluta - la stola e l’olio degli infermi… “Andarono incontro a una sorte segnata”.
Quando giunsero alla Creda, l’eccidio era consumato…
(…) Don Elia e padre Martino “furono arrestati dalle SS, che ritenendoli spie e maltrattandoli si servirono di loro come giumenti per il trasporto di munizioni, facendoli più volte scendere e salire per il monte sotto la loro scorta”.
(…) I cirenei del 29 settembre, con le spalle oppresse dal peso delle munizioni, vennero uniti a un gruppo di rastrellati nella chiesa di Pioppe: in tutto 111 persone. Qualcuno - giovani toscani coinvolti nella detenzione e nella strage - incise con un graffito dietro l’altare un ultimo messaggio: “Signor priore, avvisi le nostre famiglie che noi siamo qui”.
Tra i detenuti, anche altri sacerdoti e religiosi trascorsero la notte fra il 29 e il 30 entro quelle mura: don Venturi, padre Artusi, padre Nannetti; e, reclusi a parte, don Fornasini e padre Memmolo.
Poi, la selezione. Gli inabili, le braccia inutili, furono stipati nella scuderia antistante la chiesa. Ingenuamente essi stessi avevano marcato visita, sottoscrivendo così la loro sentenza di morte. Gli altri, intruppati nella Todt, in gran parte scamparono. Anche i preti, eccezion fatta per padre Martino e don Elia, poterono prendere la strada verso Bologna. Per don Giovanni Fornasini sarà solo un rinvio al 13 ottobre.
A segnare la sorte del dehoniano e del salesiano sarà il dito puntato di “Cacao”, un collaborazionista dei nazifascisti, ex partigiano, che dirà di averli visti in mezzo ai ribelli. Per Martino, in particolare, peserà il fatto di aver messo piede nella canonica di don Ubaldo Marchioni; e sarà quindi il servizio della Parola il crimine imputatogli. Per don Elia il capo d’accusa sarà la carità pastorale estesa a tutti senza eccezione.
Durò tre giorni - dal venerdì alla domenica - la lenta agonia che doveva concludersi nella “botte” della filanda; e la scuderia divenne cella della morte. Solo in parte possiamo cogliere ciò che trasformò quell’ambiente da carcere a santuario. Ma i segni tramandati dalla buona memoria di suor Alberta, della Rosetti Pescio, di Marina Piretti e di due scampati - Aldo Ansaloni e Pio Borgia - sono sufficienti a far intravedere quanta e quale luce illuminò quell’inferno dei vivi.
Dalla canonica di Salvaro, dove Monsignore era in preda a una comprensibile agitazione -ma sperava ancora contro ogni speranza - partono gruppi di donne, veri eroi della carità, per confortare e soccorrere i prigionieri della scuderia. “Sabato 30 - dice suor Alberta nell’intervista del 1982 - ho cercato con una sorella di intercedere per loro, recandomi a Pioppe dal comandante in persona. Dopo avere oltrepassato quattro posti di blocco, con SS e cani lupo, arrivai dal comandante tedesco, che ci fece mettere le spalle al muro, spianandoci dietro le armi. Pensavo proprio che quella sarebbe stata la nostra ultima ora; ma tentai di convincerlo che i sacerdoti non erano spie, e gli altri non avevano mai fatto male a nessuno. Per tutta risposta mi vibrò in piena faccia un pugno, che mi fece cadere; e poi con un calcio mi costrinse ad alzarmi immediatamente… uscendo ci sentimmo chiamare da una finestra. Era don Elia…ci chiese di avvertire il cardinale. Ma questo non poteva riuscire in quei momenti, isolate come eravamo dal resto del mondo… Ritornammo indietro sconsolate per non essere riuscite nel nostro intento. Una cosa ci aveva particolarmente addolorato, l’aver udito distintamente due SS ‘le bombe infilate nel cinturone e il mantello lungo fino al ginocchio’ parlare in dialetto bolognese”.
Più sinteticamente il diario, alla stessa data, riferisce: “Noi suore ci siamo prestate tutte con l’opera e il soccorso…nel pomeriggio la superiora e suor Ester sono andate a Pioppe a far visita ai due sacerdoti, chiusi in ostaggio nella casa dei birocciai. Oltre essere insoddisfatte, sono cacciate via col fucile alla schiena. Un sacerdote l’hanno potuto vedere alla finestra. Era don Elia che, additando il cielo, salutava con gli occhi imperlati”. Segue un N.B. che dice fra l’altro: “Noi suore abbiamo assunto la carità dei due sacerdoti scomparsi, aiutando il più possibile Monsignore e tutte le persone bisognose di aiuto”.
Altre donne - Amelia Tartari, Dina Pescio, Marina Piretti - non senza grave rischio riuscirono a portare un po’ di cibo e qualche indumento ai reclusi. Intanto avviene un fatto nuovo: il cav. Emilio Veggetti - un uomo che conta e che è ancora in grado di esercitare un ruolo di mediazione - fa un estremo tentativo per liberare almeno don Elia. Ma il sacerdote, dalla finestra della scuderia, risponde energicamente alla sua proposta: “O ci libera tutti o nessuno!”. Questa replica esprime in modo inequivocabile il codice fraterno e solidale che ispira don Elia e padre Martino. Ogni commento è superfluo. Lo stesso principio impedisce ai sacerdoti di Monte Sole di defilarsi di fronte al pericolo. È il motivo della “disobbedienza” di padre Martino: la comunione nella croce e nel sacrificio.
Un’ulteriore testimonianza viene dalla Rosetti Pescio: “I due sacerdoti ci avevano fatto sapere di portare loro il breviario, un po’ di biancheria e un po’ di cibo. Le prime ad andare furono le suore (senza risultato) e, il giorno dopo, andai io. Al milite di guardia mi presentai come sorella di uno di loro e mi permise di salutarlo per pochi minuti. Entrai: dal folto gruppo (una cinquantina di uomini) sdraiato sulla paglia si alzò don Elia. Col solito sorriso cercò di confortare me, pregandomi di rassicurare sua madre, poi mi benedisse. Padre Martino, che si era anche lui avvicinato, non aprì bocca; fece un segno di assoluzione e seguitò a pregare, mentre gli altri uomini imploravano i sacerdoti di non lasciarli e pregavano me di far qualcosa per tutti. Il tempo che trascorsi con loro fu più breve di quello che mi serve ora a descriverlo, perché la guardia mi tirò fuori in malo modo. Le implorazioni mi accompagnarono per il lungo tratto di strada verso la parrocchia”.
L’eccidio della botte fu consumato il 1° ottobre, a vespro. Era la prima domenica del mese.
La cronaca delle ancelle del S. Cuore registra in poche parole: “Giorno festivo - giorno d’angoscia. Nell’uscire dalla chiesa si sentono i gridi e i lamenti che arrivano fino a noi. Che strazio!…Molti uomini fra i quali, è opinione, i due sacerdoti, sono uccisi dai tedeschi nella botte d’acqua dello stabilimento e lasciati lì a galleggiare, impedendo il loro recupero. Mio Dio!…”.
In due gruppi gli ostaggi erano stati condotti alla canapiera. Prima che venissero falciati a colpi di mitraglia, don Comini aveva intitolato le litanie alla Vergine. Il canto alla Regina del cielo sull’orlo dell’abisso si sente in lontananza… Solo una fantasia macabra poteva trasformare la cisterna della filanda in un poligono di tiro. Era, quella vasca quadrata, un’immagine popolare, simbolo di una faticosa prosperità lungo la sponda del fiume. Lo stabilimento tessile, considerato come un fiore all’occhiello dalla popolazione del medio-Reno, entra nella topografia della strage con l’oratorio di Cerpiano, il cimitero di Casaglia, l’aia di San Martino, la concimaia di San Giovanni di Sotto, la rimessa della Creda…
Pio Borgia, scampato insieme a Aldo Ansaloni - altri tre non fecero che trascinare per un piccolo tratto le loro membra straziate - riuscì ad arrivare alla canonica di Salvaro: “Con la faccia insanguinata - ricorda don Angelo Carboni Junior - entrò in cucina dove le donne e i bambini erano intorno al fuoco con il vecchio arciprete…parzialmente coperto dal corpo di don Comini, era sfuggito alla scarica mortale; e, pur ferito, poté scorgere padre Martino che con uno sforzo immane si alzava dal fango della botte; e, premendosi con una mano il ventre orribilmente squarciato, con l’altra tracciava un segno di cuore ampio e solenne sulle vittime della carneficina. Poi era ricaduto con le braccia aperte nella cisterna”.
L’indomani altre donne di Salvaro - fra cui Dina Falconi e Egidia Baccolini - tentarono di recuperare i corpi martoriati; ma il comando tedesco lo vietò. Pure don Giovanni Fornasini, rientrato da Bologna, cercò di intervenire senza esito.
In quei giorni di lacrimata insepoltura, chi passò davanti alla cisterna vide nell’impasto di fango e acqua intriso di sangue la tonaca e il cordiglio di padre Martino. È ancora la cronaca di suor Alberta a riferire il particolare, che nel contesto della vicenda di Salvaro assume un rilievo iconico: “9 ottobre. Nel pomeriggio una donna è venuta ad avvisare di andare giù alla botte, dove si riconosce il corpo di un morto: padre Martino… 10 ottobre. Suor Innocenza e suor Marta si dirigono verso Pioppe. Il cielo è tutto nuvoloso di aerei che mitragliano…sono andate per raccogliere le spoglie dei due sacerdoti; ma non si è potuto far nulla, perché mancavano gli uomini. Il dolore e lo schianto sono al colmo. Il cadavere di padre Martino è già riconosciuto; manca quello di don Elia. Non si è potuto rintracciare. I tedeschi vi fanno guardia”.
Passati 20 giorni, fu un salvarese - Augusto Girotti - per una decisione ormai improrogabile ad alzare le griglie; e il fiume divenne fossa comune. I corpi, spogliati e crivellati di colpi, flagellati da piogge incessanti, tumefatti, furono trascinati nei gorghi; né più si trovarono.

Luciano Gherardi, "Le querce di Monte Sole. Vita e morte delle comunità martiri fra Setta e Reno 1898-1944", Introduzione di Giuseppe Dossetti, Il Mulino, 1994
[QM]
Note
6