Salta al contenuto principale Skip to footer content

La rapina al Monte di Pietà di Bologna

1789 | 1791

Schede

Sulla Gazzetta Universale degli anni 1789- 91 sono stati pubblicati 16 articoli sul furto di gioielli al Monte di Pietà di S. Petronio e sulla esecuzione capitale del più famoso ladro vissuto a Bologna nella seconda metà del Settecento. Questo periodico pubblicava normalmente notizie da tutto il mondo (prevalentemente dall’Europa). All’Italia il giornale riservava uno spazio contenuto (le notizie relative a Bologna erano quindi molto succinte) e raramente trattava fatti di cronaca nera. Invece la notizia di questo rocambolesco furto fu considerata degna della massima attenzione perché detta impresa criminale sembrava umanamente impossibile da compiere e, nel contempo, perché l’autore risultò essere niente meno che un nobile. Si trattava infatti del conte Girolamo Ridolfi, originario di Padova (identificato anche come Gio. Battista Rossi o Girolamo Luchini) o, meglio, possiamo dire che si trattava di un ingegnoso ed atletico furfante con “una sottigliezza d’ingegno quasi inaudita”. Vediamo come si svolse la vicenda che portò alla condanna capitale. Girolamo, avendo terminato il denaro ac-cumulato con altri furti, portò alcuni oggetti d’argento al Monte dei Pegni di S. Petronio. In questa circostanza osservò il luogo dove il cassiere teneva le chiavi del denaro e dove il Massaro poneva le chiavi delle tre porte che sbarravano l’accesso alla stanza dei gioielli. Dovette purtroppo constatare che la stanza dove erano conservati i preziosi era molto protetta e quasi inaccessibile. Per rendersi conto della difficoltà che un ladro avrebbe incontrato nel compiere questo furto, dobbiamo pensare che il cortile del palazzo Arcivescovile, dove si trovava il Monte, aveva - lungo tutto il perimetro - una grossa muraglia alta oltre 6 metri. La finestra della stanza dei preziosi, che si affacciava sul cortile, si trovava ad un’altezza di 10 metri dal terreno ed era dotata di inferriata.

Girolamo studiò bene il piano, preparò a casa tutto il necessario per portare a termine l’impresa, e programmò di fare il colpo la sera di sabato 24 gennaio 1789. Fra gli attrezzi preparati per l’occasione mise anche vari pezzi di legno colorati in modo da mimetizzarsi con il muro su cui sarebbero stati appoggiati. Essi, una volta sovrapposti uno all’altro e fermati con viti ad uguale distanza, componevano una ingegnosa e sicura scala. Dopo aver forzato una porta d’ingresso, scavalcò con detta scala il muro per entrare nel cortile. Quindi appoggiata la stessa scala sotto la finestra se ne servì per salire fino ad una altezza di 6 metri, da dove, per mezzo di una corda con un uncino di ferro, attaccò all’inferriata una scala di corda a stecche traverse (tutto materiale facilmente trasportabile, a differenza delle scale tradizionali). Con tali mezzi giunse all’altezza della finestra, si riposò sopra una specie di bilancia (da lui ideata), tenuta ferma ad una giusta distanza dal muro da due stecche. Poi, sospeso in aria in questo modo, iniziò a tagliare uno dei ferri perpendicolari all’inferriata con un attrezzo (una specie di tenaglia) con lime sottilissime, efficaci e silenziose. Ruppe totalmente i ferri nella parte superiore e per metà in quella inferiore, in modo da poter piegare l’inferriata, senza levarla. Fatti questi tagli, egli tolse uno dei vetri della finestra e, colla mano e un ferro adunco aprì le stanghette che chiudevano l’infisso, indi - piegata l’inferriata - entrò tirando dentro le scale, la bilancia e tutti gli attrezzi. Raddrizzò il ferro, coprì con cera nera i lucidi tagli operati sull’inferriata e rimise al suo posto la lastra di vetro. Non dovette usare i due vetri somiglianti e polverosi che aveva portato per l’eventualità che quello originale si fosse rotto. Poi richiuse la finestra. Accese il lume di una lanterna e iniziò l’impresa di scasso; recuperò le chiavi della cassa del denaro e due della stanza dei gioielli. Mancava però la terza chiave che il Massaro teneva con sé. Seppur con molta difficoltà, egli riuscì a farne una copia, rilevando le caratteristiche della serratura e facendo molte prove: impiegò un’intera giornata, lavorando di lima e appoggiandosi sulle sue ginocchia per non far rumore. Usò anche un mantice per stagnare alcuni pezzi. Finalmente, entrato nella stanza del tesoro, prese tutti i pegni che trovò, poi aprì la cassa e prese 700 scudi in contanti. Infine attese la notte per partire. Lasciati diversi attrezzi nella sala, calata la sua sporta e la sacchetta con la refurtiva, discese in sicurezza usando una corda annodata all’inferriata e una ingegnosa macchinetta da lui costruita per evitare che l’inferriata si staccasse. Dopo 30 ore in cui visse quasi digiuno, tornò col ricco bottino alla propria casa, dove l’aspettava la sua compagna e governante Berenice. Nascose sotto terra il bottino del valore di circa 30.000 scudi, in modo che sarebbe stato impossibile scoprirlo senza una sua confessione. Come riuscirono pertanto gli inquirenti a contestargli il reato di furto? Principalmente per l’imprudenza della sua donna, la quale per vanità sottrasse dalla refurtiva qualche prezioso. Varie persone ammirarono questi gioielli indosso a Berenice e ciò fece nascere il sospetto che l’autore del fantomatico furto fosse proprio il compagno. La donna fu condotta davanti all’Inquirente e sottoposta a un duro interrogatorio. Ella da prima resistette e poi, non riuscendo a giustificare come mai possedeva quei gioielli e, soprattutto, lusingata dalla promessa di impunità, con fessò che l’autore del furto era Girolamo, al quale, dopo questo tradimento, non rimaneva altro che confessare il reato e il nascondiglio della refurtiva. Durante il sopralluogo che ne seguì furono ritrovate non solo le gioie del Monte, ma parecchie altre cose preziose di gran valore rubate in vari tempi e forse in altri Paesi. C’erano anche i soldi sottratti all’ufficio Annona di Padova, nonostante la cassa fosse serrata con tre chiavi tenute da tre diverse persone: “il denaro fu portato via senza rottura veruna e rimanendo il deposito assicurato come prima colle tre serrature”: mai ne fu scoperto l’autore. Dopo la confessione, gli inquirenti trovarono nella sua abitazione, anche un “industrioso torchietto” di cui Girolamo si era servito per battere monete false (4700 mezzi scudi), messe in circolazione qualche tempo prima. Il 31 luglio 1790 i Soprintendenti della Zecca esaminarono diligentemente le monete e misero in funzione la macchina, risultata peraltro perfetta nel suo genere, molto economica e facile ad usare. Restò però un mistero come fosse riuscito il Ridolfi a far sì che il finto conio con la superficie d’argento e il fondo di rame avesse le stesse dimensioni e lo stesso peso di quelle vere, fatte di solo argento (che ha un peso specifico diverso).

I Sovrintendenti sottolinearono al S. Padre che non esisteva un attrezzo simile nella Zecca e che pertanto sarebbe stato conveniente per la Città poterla avere, terminato il processo. Durante la confessione, in un sol punto Girolamo non fu sincero, quando nascose volutamente la complicità della donna, che era al suo servizio, dichiarando che ella non era a conoscenza dell’accaduto. Egli però non sapeva che Berenice lo aveva già tradito, dichiarando anche la propria ingerenza nel furto del Monte, dopo aver ottenuto per tale confessione l’impunità. A questo punto il Cardinal Legato, munito di tutte le necessarie facoltà accordategli ampiamente dal S. Padre, avocò questa causa al suo Tribunale, ignorando il privilegio della Curia Ecclesiastica, a cui apparteneva il processo. Il reo confesso rimase in carcere due anni, in attesa della condanna definitiva. L’11 febbraio - durante il processo - la difesa fatta dall’avv. Ignazio Magnani in discolpa del Ridolfi fu così ragionata, convincente e 6 profonda, che il pubblico si schierò a favore dell’imputato. Sapendo che la vicenda si sarebbe comunque conclusa con la sua condanna a morte, ad un certo punto l’imputato pensò che evadere da quel carcere non sarebbe stata un’impresa impossibile. Egli, ancora una volta, mise alla prova il proprio ingegno. Chiese più volte alle guardie un pettine per motivi d’igiene. Alla fine l’ottenne e con esso cominciò a pettinare una parte della stoppa contenuta nel suo strapunto e, servendosi del suo cucchiaio come un fuso, filò una certa quantità di stoppa, con cui fece una corda. La tenne cinta gelosamente attorno al suo corpo, affinché nei controlli giornalieri non fosse veduta dagli Ispettori. Secondo quanto progettato Girolamo l’avrebbe usata per strangolare il guardiano. Poi staccò dal suo letto un ferro e lo trasformò in un temperino aguzzo tagliente da ambo le parti, a forza di pazienza e di sfregamenti: questo strumento rimase sempre nascosto in una sua manica durante le visite. Ebbe però la cattiva sorte di vedersi tradito da uno dei due compagni con i quali condivideva la cella. Costui o per zelo, o piuttosto per timore domandò un colloquio durante il quale riferì che il Ridolfi era pronto a darsi alla fuga. Se questa si fosse verificata il reo avrebbe coronato le sue coraggiose imprese e acquistato una “fama immortale”; invece ebbe una collana di ferro al collo e una grossa catena alla mano. Fallito il tentativo di fuga, i giudici, già molto disposti a un giudizio di condanna per i numerosi delitti commessi nei 18 anni di permanenza a Bologna, videro nella sentenza capitale l’unica soluzione. Fino all’ultimo però il risultato non sembrò scontato, perché a Bologna e in tutto lo Stato Pontificio era in vigore una miriade di leggi, talvolta tra loro contrastanti, emanate con bolle papali in diversi tempi, che potevano dare adito alla nullità del processo. Il 15 febbraio 1791 nel tribunale fu tenuta una piccola Congregazione Criminale, preliminare alla inappellabile sentenza, poi emessa il venerdì 18: Girolamo Ridolfi fu “condannato a pieni voti a perdere la vita” e venne stabilito che l’esecuzione doveva essere eseguita dopo 8 giorni, sabato 26 febbraio. Nell’articolo viene fatta questa considerazione sulla genialità del Ridolfi, usata a scopi malvagi: “Ecco un uomo condotto al patibolo da un genio impareggiabile di meccanismo, che diretto altrimenti avrebbe potuto fare onore alle Arti portandole a maggior grado di perfezione. Ma il cattivo uso di questo genio medesimo spinse il Ridolfi a commettere azioni criminali le più indegne della sua nascita e della sua educazione”. Prima dell’esecuzione i giudici scoprirono che il condannato non era stato cresimato; pertanto la mattina stessa fu chiamato anche il Cardinale Arcivescovo per dare il Sacramento. Per sentenza della Giustizia che lo riconobbe autore del noto furto eseguito con arte quasi superiore all’umano ingegno del Monte di Pietà detto di S. Petronio, questo uomo straordinario, il più famoso in tal genere, per destrezza, e capacità di entrare nei luoghi più impenetrabili, venne giustiziato alle ore 16 e mezzo della mattina.

All’esecuzione parteciparono più di 20 mila spettatori, la maggior parte forestieri attirati dalla celebrità del reo. Non solamente lo spazio attorno al palco eretto apposta nella gran piazza della Montagnola, ma tutte le finestre d’attorno, e perfino i tetti delle case erano pieni di gente affollata, a cui non faceva ribrezzo lo spargimento del sangue. Dopo la somministrazione del sacramento della Cresima, il reo ringraziò il cardinale Arcivescovo e il direttore spirituale, mandato - secondo lui - dalla misericordia di Dio; ringraziò l’Eminentissimo Legato, a cui fu debitore del taglio della testa invece della forca, che gli era stata decretata; il Senatore Caparra ed il suo difensore l’Avvocato Magnani.

Giorgio Galeazzi

Testo tratto da 'UN ARSENIO LUPIN A BOLOGNA ALLA FINE DEL ‘700', in 'La Torre della Magione', Anno XLVII - N.3 Quadrimestrale Settembre-Dicembre 2020. In collaborazione con il Comitato per Bologna Storica e Artistica.