Partigiani dell'Europa dell'Est

I PARTIGIANI SOVIETICI

Ci sono delle pagine della Resistenza italiana poco note, tra cui quelle riguardanti la narrazione dei partigiani sovietici in Italia. Un numero cospicuo di combattenti sovietici arrivò in Italia e si immolò per la libertà dal nemico nazista.  Come giunsero nel nostro paese?

Per comprendere correttamente il fenomeno storico è necessario ripercorrere quei giorni di terrore e violenza inaudita. Nella notte tra il 21 e il 22 giugno 1941 la Germania diede il via all’“Operazione Barbarossa” senza una precedente dichiarazione di guerra, con il desiderio di annientare una razza considerata inferiore. I tedeschi imprigionarono cinque milioni di soldati dell’Armata Rossa, una cifra mai registrata in nessun'altra guerra. Molti di questi uomini vennero relegati a lavori ausiliari e manuali per l’edificazione di rifugi e infrastrutture varie, dapprima nella Germania nazista, e poi in tutti i paesi occupati dalla Wehrmacht. Tra le destinazioni figurava l’Italia, dove parte di questi prigionieri, dai cinque ai settemila, disertarono e abbracciarono la causa partigiana, vedendo la possibilità di combattere contro il nemico comune e contribuire alla sua sconfitta. Erano combattenti tecnicamente superiori in quanto avevano sulle spalle l’addestramento nell’Armata Rossa e nella Wehrmacht, e fuggivano dai nazisti con le armi, supportando i nostri giovani partigiani italiani più inesperti. Presero parte con coraggio alle operazioni più importanti. 

Dall’autunno del 1943 alla primavera del 1945 non c’è stato un giorno privo di combattimenti in questo territorio, non un giorno in cui i tedeschi non abbiano trovato difficoltà nell’avanzamento. Nelle brigate partigiane dell’Emilia- Romagna la presenza sovietica è una delle più numerose, con più di novecento combattenti e più di ottanta caduti in combattimento. In questa sede cerchiamo di percorrere i sentieri della storia dei partigiani sovietici in Emilia-Romagna, nello specifico nel bolognese.    

In provincia di Bologna hanno combattuto 132 sovietici, divisi tra 36a Brigata Garibaldi “Bianconcini” attiva nella zona dell’Appennino tosco-emiliano, Brigata Matteotti di montagna “Toni”, Brigata “Stella Rossa Lupo” operante sui monti di Marzabotto-Grizzana, e un numero cospicuo nella 63a Brigata Garibaldi “Bolero”, in azione nella zona collinare del circondario di Casalecchio. Quest’ultima, nata dopo l’Armistizio, aveva raggiunto le 800 unità nell’estate del ‘44, mestamente ricordata per l’apice di violenza raggiunto dai nazisti che avviarono una serie di operazioni culminate nel bagno di sangue di Montesole e Marzabotto.  L’8 ottobre ci fu un rastrellamento a Rasiglio e la brigata fu circondata.  Grazie all’intervento messo in atto dai GAP l’accerchiamento fu sfondato e molti uomini riuscirono a salvarsi. Alcuni partigiani morirono, tra cui i primi sei sovietici. Nella provincia bolognese il totale dei caduti sovietici fu  21, di cui 8 caduti durante due degli episodi più tristemente noti: la strage del cavalcavia di Casalecchio del 10 ottobre 1944, e  la battaglia di Casteldebole del successivo 30 ottobre. In entrambi gli episodi i partigiani sovietici erano inquadrati nella 63a Brigata Garibaldi, e alcuni nella Brigata Stella Rossa.

Nella Strage del Cavalcavia si conosce il nome completo di un solo combattente sovietico, Marùssa Filip Andreévic, e il nome o pseudonimo di altri due, Miska e Vassìli, mentre gli altri tre  sono rimasti ignoti.

Nel combattimento del guado di Casteldebole persero la vita il soldato Grigori e l’ufficiale Karaton, di  non  identificabili origini, ma di eterna nomea per il suo coraggio, per il suo veemente “Hurrà Stalin” con cui pietrificava i nemici e per le sue imprese sul campo: si era distinto nell’azione di Caparra del 29 settembre ‘44, nell’ambito degli eccidi di Marzabotto.

La strage del cavalcavia è rimasta viva nella memoria di Casalecchio: il  25 aprile 1947 fu infatti inaugurato un monumento commemorativo nella piazzetta della strage, e dal 1955 alcuni rappresentati dell’URSS parteciparono alle cerimonie celebrative. Non sono mai cadute nell’oblio le modalità dell’eccidio, in cui i corpi delle vittime venivano legati a pali, cancelli ed alberi con filo spinato all’altezza del collo, per poi essere fucilati gradualmente dal basso verso l’alto, partendo dai piedi, poi dalle gambe. Non riuscendo più a sostenersi, la morte sopraggiungeva per lento e straziante strangolamento. I sovietici furono riconoscibili subito perché furono gli unici ad essere lasciati a torso nudo. Anche il ricordo di quel funesto 30 ottobre sono ben radicati nella nostra memoria grazie ad un’altra pietra di memoria, il monumento ai Caduti della Brigata Bolero nella battaglia di Casteldebole.

Questi libri di pietra parlano dei partigiani italiani e sovietici uniti nella lotta contro il nazifascismo e delle  radici profonde di una fraternità solida e duratura, andata oltre la fine della guerra.

Bibliografia 

Anna Roberti, Dal recupero dei corpi al recupero della memoria, Nicola Grosa e i partigiani sovietici nel Sacrario della Resistenza di Torino, Torino, Impremix 2014

Mauro Galleni, Ciao, russi. Partigiani sovietici in Italia, 1943-1945, Venezia, Marsilio 2001