La guerra di Etiopia fra i bambini dell'asilo

La guerra di Etiopia fra i bambini dell'asilo

1935 | 1941

Scheda

Mottetti nefasti d'epoca nefasta. “La moglie del Negus andava in bicicletta / nel far una curva stretta / si è rotta la braghetta / Bombe a man carezze col pugnal”.

E un altro, diciamo così politicizzato: “Il Negus Neghesti aveva un figlio maschio/ che appena ha aperto gli occhi/ ha gridato evviva il fascio/ Dai dai dai l'Abissinia la vincerai”. Siamo nel 1935, dal 3 ottobre è in corso l'avventura coloniale per la conquista di un “posto al sole”, cioè l’Etiopia.

Pretestuosamente è accusata da Mussolini di avere provocato l’Italia. Negus Neghesti, re dei re, è l’imperatore Hailé Selassié assurto al trono quando era ancora ras Tafari. Lui regna su “un popolo di selvaggi”, mentre l’esercito italiano “è portatore di civiltà”, come dice la tambureggiante propaganda del regime.

Siamo mobilitati anche noi bimbi di Medicina per contribuire a sconfiggere “i negri”. Terreno del... combattimento la nuovissima Casa dei bambini Ludovico Calza (della quale il ricordo nostalgico è indelebile), inaugurata appena due anni prima e gestita dalle suore, a loro volta guidate dalla Madre Superiora.

Tre le classi: dei “piccoli”, dei “medi”, dei “grandi”, compresi fra i tre ed i cinque anni di età. Io, essendo del ‘30, appartengo alla terza con maestra suor Serafina. Mi si potrà chiedere: come l’hai in mente? Rispondo che non l’ho mai dimenticato, che quell’episodio me lo sono sempre portato appresso. E parlandone qualche volta con coetanei, tra un ricordo e l’altro.

Così come conservo nella mente quanto ci veniva impartito con l’ausilio del “museo”, ovvero la saletta con le scatole di cubetti geometrici di legno colorati, album con figure, fogli per la tessitura cartacea, i gessetti, un microscopio, giocattoli da montare. E ancora: i materiali per l’attività all’aria aperta, come cerchi, boccette, sotto gli “alberi del paradiso” dai caratteristici fiori bianco-rosa piumati. Tale era l’impronta montessoriana, ma il riconoscimento vero e proprio dello straordinario indirizzo pedagogico di Maria Montessori è avvenuto molto ma molto tempo dopo. La rappresentazione bellica che ho citato prima, voluta dalle autorità locali di solida caratura fascista, si svolge nell’ampio “Giardino d'Inverno”, all’epoca un salone centrale col tetto di spesso vetro retinato, quindi assai luminoso anche a cielo moderatamente coperto e nuvoloso. Ci sono molte autorità, anche venute da fuori. Dunque, noi cinquenni ci fronteggiamo in due gruppi.

Da una parte i “figli della lupa”, quella che allattò Romolo e Remo, da cui la fondazione della Città Eterna. Portano in testa il fez nero con fiocco ed attorno al tronco dell’esile corpo la fascia bianca incrociata sul petto e sul dorso che li colloca, poco più che poppanti, nel primo scalino della graduatoria del regime. Tra le mani reggono un fuciletto-giocattolo. Dall’altra ci siamo noi, i nemici abissini, avvolti in un lenzuolino bianco, scalzi, ovviamente perché non conosciamo la civiltà, faccia annerita da turaccioli carbonizzati con la fiamma di candela ad opera delle bidelle. E come arma, una canna d’India a mo’ di lancia.

Lo svolgimento è il seguente. I soldatini coloniali, seguendo gli ordini ed i gesti della maestra del coro in divisa fascista, attaccano e cantano il “faccetta nera bella abissina/ aspetta e spera che già l'ora si avvicina/ quando saremo accanto a te/ noi ti daremo un altro duce e un altro re…” eccetera. Di fronte ad una certa distanza noi selvaggi eseguiamo, saltellando, una disordinata danza propiziatoria accompagnata dalla nenia che ci hanno insegnata: “gori, gori, gori-gori-gori, gori-gori-gori, gorangò...”. Mi si consenta, come si potrebbe dimenticare una messinscena del genere? Poi gli ordini dell’istruttrice, che qui rammento in stretta sintesi. Quando dico puntate voi italiani alzate il fucile e mirate; quando faccio scoppiare una castagnola sul pavimento tutti insieme gridate “pum!”; di conseguenza voi nemici vi lasciate andare sul pavimento, mi raccomando piano per non farvi male. Vittoria e sconfitta sono fatte, con tanti applausi, bravi bravi, e noi e loro molto divertiti.

Ma nella realtà la vicenda coloniale scatenata all'inizio del 2 ottobre 1935 è stata ben tragica. Decine di migliaia le vittime, sul campo e tra le popolazioni, specie per gli indiscriminati bombardamenti dell’aviazione italiana e per l’uso massiccio dei gas asfissianti e urticanti (armi che gli etiopi non possedevano), quest’ultimi in violazione della legge proibitiva emanata dalla Società delle Nazioni nel 1926 dopo l’impiego micidiale durante la prima guerra mondiale.

La quale Società delle Nazioni dalla sede di Ginevra il 18 dicembre dello stesso 1935 proclamò le inutili sanzioni economiche nei confronti dell’Italia, tese a interrompere gli scambi commerciali ed i rifornimenti esteri di materiale destinato a scopo bellico. Il regime fascista scatenò allora una straordinaria campagna propagandistica e istituì il “rito della fede”: “Date alla Patria oro e argento e ferro”. A cominciare dalle fedi nuziali col seguito di monili, barriere dei giardini, bronzo (anche di campane), rottami metallici di ogni genere.

A Medicina la raccolta degli anelli delle spose, nel momento risarcite con uno di ferro, avvenne, obbligatoriamente, sotto il portico del Comune, dentro un elmetto militare più volte svuotato. E per renderla più solenne e patriottica la cerimonia si svolse sotto la lapide con inciso l’interminabile elenco dei medicinesi Caduti nella prima guerra mondiale 1915-18. Vi partecipai a braccetto di mia madre Concetta che era con alcune amiche, costrette a compiere l’atto tutte con tristezza. Stesso destino per il rame, tramandato da famiglia in famiglia, cioè pentole, paiuoli, mestole, padelle, coperchi, tegami. Ricordo di essere andato assieme alla mia nonna paterna Claudia (la fraba) con la carriola al grande garage ed Maghèn, angolo provinciale San Carlo-comunale Piave.

Portavamo un vecchio calzaidar, secchio di rame, e altre cose di vicini di casa, anch'essi braccianti, i quali non potevano certo perdere l’ovra, la giornata di lavoro. Mia nonna aveva accondisceso di buon grado; il favore reciproco era di norma tra le famiglie povere di allora. Nel capannone c’era una montagna di roba già accatastata e un frastornante rumore provocato da alcuni fabbri chiamati da fuori paese, che con mazzetta e punteruolo bucavano i recipienti (donne in pianto) per dimostrare che sarebbero andati esclusivamente alla fusione. L’oro, destinato a pagare l’esosa gabella imposta dalle sanzioni per poter passare il canale di Suez e raggiungere l’Africa orientale, si seppe poi che era finito copiosamente anche nelle case di gerarchi. Il materiale ferroso, essendo state fortemente ridotte le importazioni dall’estero, era finalizzato a costruire armi e quant’altro. In buona parte ricavato, oltre naturalmente dalla ricerca “patriottica” di rottami, tagliando le barriere fissate sui muretti di recinzione sia del patrimonio comunale (ad es. delle scuole elementari del capoluogo) sia delle villette private. Sostituite da laterizi in varie forme prodotti dalla fornace Volta di Ganzanigo.

Il Negus, denunciata al mondo dalla tribuna della Società delle Nazioni, senza esito favorevole, l’aggressione italiana, ripara in esilio a Londra con la moglie e cinque figli. Il 5 maggio 1936 l’esercito italiano entra nella capitale etiopica Addis Abeba, dopo otto mesi di stragi e devastazioni. Mussolini annuncia “all’Italia ed al mondo” la proclamazione dell’impero e ad imperatore re Vittorio Emanuele III di Savoia, del quale si auto-attribuisce il titolo di “cugino” suo. Stampa e radio si scatenano.

Il “Carlino” di Bologna col titolo a tutta pagina: “Nell’apoteosi della vittoria il Popolo grida la sua riconoscenza al Condottiero”. Migranti italiani vanno a cercare fortuna in Etiopia. Anche medicinesi, che non molto tempo dopo però in buona parte torneranno a casa delusi. Tanto più che laggiù non vi è pace. La guerriglia prosegue in varie parti dell’Etiopia, che le immani rappresaglie dell’occupante fascista non riescono a sradicare. Il finale è ormai non molto distante. Il 10 giugno 1940 l’Italia entra in guerra al fianco della Germania nazista, che lo è da un anno.

L’esercito coloniale, quel che ne resta, è ingabbiato visto che il Mediterraneo è dominato dalla flotta inglese e il canale di Suez è chiuso agli italiani. Deve combattere, senza prospettive contro i ben dotati avversari della vicina Somalia britannica, ai quali, il 21 maggio 1941, sconfitto, è costretto ad arrendersi. Il Negus Hailé Selassié rientra in Patria dall’esilio. Fine della (dis)avventura imperiale. Non così la seconda guerra mondiale che divamperà per altri quattro anni in Europa ed Asia. E della quale anche la nostra Medicina subì le feroci conseguenze. Così come noi ex “soldatini” e “abissini” ai quali in quella battaglia del 1935 nel Giardino d’Inverno vollero far credere che fosse un divertimento. Ma era solo cinica propaganda.

Remigio Barbieri

Testo tratto da "Brodo di serpe - Miscellanea di cose medicinesi", Associazione Pro Loco Medicina, n. 15, dicembre 2017.

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Brodo di serpe - Miscellanea di cose medicinesi, Associazione Pro Loco Medicina, n. 15, dicembre 2017. © Associazione Pro Loco Medicina.

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