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Il Norge e Al Palaz Réèl

1844 | 1960

Schede

Il Norge e Al Palaz Réèl erano le costruzioni che nel Borgo si distinguevano dalle altre perché più imponenti: il Norge era il macello pubblico, costruito nel 1844, come ancora è scritto sulla facciata, in alto, trasformato poi, nel Novecento, in tanti appartamenti popolari, con ringhiere di foggia delicata e di gusto neoclassico, delimitanti il passaggio esterno da un appartamento all’altro. Nessuno ha mai saputo dire il perché il Norge veniva chiamato così: il nome era usato da tutti gli abitanti del Borgo e non da molti altri, perché per gli altri l’ira e l’é al mazèl vèc e basta. A stag al Norge. Bèn, mo in duv él al Norge? A lè pr’andèr al zimitéri. Può darsi che qualcuno abbia cominciato a chiamare così l’edificio per la sua dimensione e in omaggio al colonello Umberto Nobile che, nel 1926, aveva felicemente attraversato regioni inesplorate e sorvolato il Polo Nord con il dirigibile “Norge” e nel 1928 aveva ripetuto l’impresa con il dirigibile “Italia” al cui seguito il nostro medicinese Giuseppe Biagi, bravo radiotelegrafista, riuscì con grande perizia e tenacia a mettersi in contatto con chi sarebbe andato in loro aiuto in un momento tragico della spedizione. A pochi passi dal Norge c’erano i gabinetti pubblici, perché nessuno aveva in casa i servizi igienici, come anche l’acqua, che si andava a prendere cun una mastèla o dåucun quèlca zócca dalla fontana vicino al fàuran èd Luciano, al centro del Borgo.

Il Norge ha a che fare con la mia comparsa in questo mondo: quando chiesi, un po’ timidamente, a mio padre dove aveva incontrato per la prima volta mia madre: Avsén ai gabinètt pobblic dal Norge, perché il mio babbo abitava al Norge e mia madre lì vicino, dove c’era al Camaròn di Peli. Erano tutti e due, quel giorno, nella fila di attesa del loro turno di entrata. Fu certamente un incontro un po’ disagiato, perché da quei locali usciva giorno e notte un odore acre e pungente di creolina e di qualcosa d’altro ch’at féva vgnir di luzlón a i ucc e un brusaur ed clètar mond enc int’la faza. Una volta non era così semplice, come oggi, fermarsi a parlare con una ragazza; se riuscivi a ingavagnèla in quèlc mód, non bisognava mollare la presa duv t’ir t’ir. Al Palaz Réèl nella parte anteriore dava l’impressione di imponenza, perché le case attorno erano tutte a un piano e piuttosto basso, ma, se si voltava l’angolo e ci si avvicinava alla parte posteriore, puvrétt nó; acsé tótt in t’una volta, s t’an stiv aténti a t’ciapéva un smalvén èd chi bón. La gente era costretta a sopperire alla mancanza di servizi igienici in casa, stando all’aria aperta, in un luogo un po’ appartato e, se possibile, un po’ riparato, precisamente dietro al Palazzo Reale nel “Bucistronzi”, come qualche maciòn medicinese aveva simpaticamente battezzato quel luogo, che era anche ricettacolo di tutto ciò che oggi va a finire dentro ai servizi igienici di casa. D’estate, soprattutto, che olezzo di verbena! Però era un luogo familiare: si ricorda ancora oggi, in tono scherzoso, quel nome che a Medicina è diventato storico.

Non era finita lì: quando si passava sotto le finestre delle case lungo il primo tratto della contrada adiacente al Palazzo Reale, bisognava stare molto attenti, guardare in alto e accelerare il più possibile il passo, sgambilér in furia, perché ti poteva capitare ch’at caschéss adòs, acsé a la burida, un squas di liquido di dubbia natura. Il povero passante, imbazurlì e moi cmé un pisén, guardava subito in alto e si sfogava inviperito: Cioo, sgrazia, mó chi t’è insgné a stèr al mònd, di zéngan sicur; té ti d’èsar nèda in mèz a un’aldamèra. Vin zò, vin, ch’a t’amac i gèndal t’è in t’la testa. In alto tutto taceva, tutt’al più, senza vedere nessuno alla finestra, si potevano sentire parole come queste: Quènti smani, cum l’é sufèstic il signorino. La rabbia allora saliva alle stelle e aveva inizio, a poco a poco, un litigio che attirava la curiosità e faceva divertire chi era lì nei pressi. Questi momenti teatrali erano un’esclusiva del Borgo e, in certi periodi, soprattutto estivi, quando le finestre si tenevano aperte, diventavano più frequenti. Non erano, però, queste, liti vere e proprie che lasciavano un lungo strascico, ma diventavano piuttosto di bitibói che si prolungavano con scambi di parole un po’ eccitate che però potevano anche essere nel tempo dimenticate. Le liti veramente da dramma erano un po’ meno frequenti, ma esistevano e avvenivano quasi sempre all’aria aperta con spettatori che osservavano e ascoltavano tacendo, ma sotto sotto molto divertiti.

Vicinissima al Palazzo Reale c’era “la Fossa dei serpenti”, l’osteria del Borgo, così denominata dalla gente, molto frequentata dal sesso maschile, di solito il tardo pomeriggio dopo il lavoro e la sera: la domenica addirittura qualcuno al féva óvra tótt al dé alé dèntar. Quando il gomito degli avventori era alzato più di una volta e tótt i jran in grèn sgarzula incominciavano i cori a due, tre o più voci, veramente in armonia. Alcuni degli avventori più assidui che, abitando nel Palazzo Reale, nel Norge o nei pressi, erano più spesso lì dentro, i jran di cantarén nèd. Si ascoltavano dalla strada con piacere. A volte potevi assistere anche al canto di brani di opera come “Libiamo nei lieti calici” della Traviata di Verdi, che non mancava mai nel loro repertorio e che impegnava tutti a mettersi in piedi, ad innalzare il bicchiere con il vino per un brindisi e, se necessario, a riempirlo di nuovo. Cantavano piuttosto bene anche brani di altre opere, perché i medicinesi, attraverso il teatro che il paese possedeva, avevano acquisito una certa sensibilità musicale e una discreta conoscenza soprattutto nell’ambito della lirica: An i jran po’mia di zavai dal tótt in t’al Baurg, enc se i catuén, i jran sempar piuttost vud! Le stornellate poi, che erano improvvisate, avevano un certo fascino. A volte qualche moglie trascorreva con il marito un po’ di tempo nell’osteria per unirsi al coro. A me trasmetteva un’emozione particolare la canzone “Casèrio”, che ho sentito far parte, ancora oggi, dei canti del Gruppo delle mondine di Medicina. Le mogli non erano, però, tutte uguali: a volte accadeva che si aprisse ad un tratto la bóssla dell’osteria e comparisse un moglie inviperita, vestita così com’era in casa cun al grimbél a l’arvérsa, per farlo sembrare più pulito, i cavì piuttost… sgarmgné ch’la tachéva la rumba: cus’éla sta babilonia, stal plocc ch’a fi. Poi, rivolta a suo marito: cioo, al mi bèl sgaligén , l’é aura t’a t’ardusa un po’ a chè; té t’mè ciapè a gódar, mó t’a ti sbagliè ed cal poc. Auvitta! In chè nostra, bèla gioia, bisòggna badèr a la chènta, set, se no andèn tott a la limosna, J udet! T’è ciapè una sgalmira cl’a nun piès gnèn un po’. Il marito taceva cun un grèn buiòn ed dèntar. La donna continuava: l’è una faza ch’a si amaca al carburro. Si alzava a questo punto una voce un po’ irritata. La smèttet un po’ ed fer cla masula; avéièt bèn sobbet premma t’ciapa al tu avair. Va bèn a let e po’ crivet. Il termine dialettale carburro era noto nel Borgo perché nel Norge, prima che si arrivasse alla luce elettrica, gli incaricati comunali di accendere la sera i lampioni del paese con l’acetilene, in luogo apposito, i amachévan sempar al carburro. I bambini, sulla strada, con un po’ di carburo che raccattavano qua e là in qualche modo, riuscivano a creare un piccolo razzo che faceva schizzare in alto molto velocemente qualche oggettino accompagnato da un grèn, sfumaràz.

Davanti al Norge si estendeva un prato piuttosto spazioso, che aveva come limite a Nord la strada San Vitale (allora era una strada non asfaltata lungo la quale si poteva anche fare una passeggiatina riposante) e si incuneava nello spazio del prato dietro al Chè Novi. Mio padre ricordava con nostalgia le belle dormite notturne, d’estate, con gli amici sull’erba fresca di quel prato, quando le case erano un forno per tutta la notte: l’ira un gudiól enc se il zanzèl it magnévan viv. Mo chi li sintéva il zanzèl: dopo una giornata di lavoro pesante, da muratore, dopo diversi chilometri per tornare a casa con una bicicletta spesso un po’ zirunzåuna, dopo avere mangiato un po’ èd quèl ed essersi lavato, si sdraiava sull’erba del prato, già un po’ freschina insieme a qualche compagno di lavoro e tótt i s’inciudévan ed bòta fino alla mattina. A una cert’ora della notte a s’livéva un’ariarina ch’l’aré fat arvgnìr un mort. Il mattino, cun una maroca ed pèn fat in chè da magner a strazabisàca, durante il giorno, magari con una fetta di mortadella piotòst sutila ripartivano per il lavoro freschi cmé una rósa.

Quando tornavano la sera, sempre in bicicletta, spesso anche da Bologna o nei pressi, avevano ancora la forza di giocare al pallone tra di loro. Auf, altri generi a chi timp! Il prato era la gioia dei ragazzi per il gioco del calcio con gli amici anche di altre contrade del paese. Arrivò un giorno per giocare un ragazzetto di un’altra contrada, vestito benino ènc cun la cavsèla; cioo, ragazu’ l’è la cavsèla stuchequé, al tuleggna liståss?, mo sé va lè. Loro sudati e affaticati avevano i capelli alla boia d’un Giuda, ma fecero un atto cameratesco. Spesso i giocatori dovevano fermarsi e provare di nascondere tutto perché stava arrivando la guardia comunale che, oltre a una bella sgridata, sequestrava il pallone, aggiungendo con tono perentorio: andì po’ a tól in Cmón. Chi ci andava? Mé no sicur, al balòn l’è al tua però, per cui nessuno andava in Comune e il pallone era perso. Si sapeva che in Comune giungevano sempre tante lamentele perché il bucato steso si sporcava, i vetri delle finestre potevano rompersi; Sigadén e Sufia si lamentavano giustamente perché il pallone, entrando attraverso le finestre aperte al piano terra, finiva sulle cassette della frutta che vendevano in casa, precisamente nella camera da letto; lo spazio nelle case era ridotto ai minimi termini. Povere partite di calcio dei ragazzi! Ogni tanto, quando il gioco era diventato emozionante, capitava anche qualche visita inconsueta: un pizòn o du ed Burasca o on di su du caval scapè fora dal camaron, che riuscivano a scompaginare tutto e innervosire i giocatori. Bèn cum fèggna. Mé a m’avéi; e dopo poco il gioco finiva. Lumåtta, invece, portava spesso sul prato i suoi cavalli, che servivano per il lavoro, allo scopo di farli un po’ riposare, poi diceva ai ragazzi che erano lì attorno: S’a m’aiutì a guardèr i caval (noti coi nomi di Tosca e Palo, che erano stati fissati in qualche modo) a vag un po’a pusèm, po a tàuran ch’a zughèn ai tóff, che erano carte da gioco molto diffuse nel Borgo. Il prato del Norge si animava moltissimo quando arrivavano qui di zug con il tiro a segno, il calcinculo, le automobiline e il tendone per le rappresentazioni. Al tempo dei nostri nonni e bisnonni, tutti gli anni arrivava un Circo Orfei, i cui componenti avevano nel tempo molto familiarizzato con gli abitanti del luogo perché rimanevano sempre lì per alcuni mesi. Bagónghi era il capocomico: l’ira un mazacròc che indossava sempre calzoni molto larghi, spesso a la cagarèla. Piacevano molto i suoi spettacoli anche perché girava un po’ ed sgalémbar e teneva un occhio ed sbalérz. Il nome Bagonghi nel Borgo diventò familiare: Cioo, guèrda cucalé ch’al pèr Bagónghi. Una madre, per esempio, appiccicò questo soprannome a uno dei suoi figli appena nato, al mi Bagonghi cum l’è bèl in un abbraccio di grande amore, e il bambino diventò Bagonghi per tutta la vita. Medicina era speciale per i soprannomi.

Abitava nel Norge la Vera di tamaràz, come veniva chiamata da tutti perché faceva o metteva a nuovo i materassi di lana e di crine. Nei giorni precedenti, la lana l’andéva sgramgné pulid, lavata e messa al sole; io, bambina, volevo sempre aiutare, ma mi dicevano ogni volta ch’a laséss stèr parché a jra un indòvs. Ci piaceva la Vera perché, oltre ad essere brava nel suo lavoro, sapeva animare la giornata con la sua parlata medicinese simpatica; tutto avveniva nella contrada vicino alla porta di casa. Conosceva tutti, per il suo lavoro, la Vera: cioo Mario, cum it andè in villeggiatura acsé luntèn? A jò fat al sgnàuri da bòn; a um mitéva tótt al dé in un sdrai fenomenel, avsén a la piscina, sòtta a un bel umbarlòn e po’ a géva: cameriere, un’aranciata! Che sguazén; a um paréva d’èsar un re! E la Vera, pronta, con il suo spiccato senso dell’umorismo: T’aviv propi bisògn d’andèr fén a lè par dir Cameriere, un’aranciata! A t’la purtéva ènc Fredo, e po’ at mitéva a sédar in t’un bel tavlén in piaza, che al dopmezdé as liva sempar un’ariarina ch’l’è un bèlsum. Ti propi un bagèn! Quando la Vera finiva il suo lavoro e se ne andava con tutti i suoi arnesi, si sentiva un gran vuoto attorno.

Questo era il Borgo, nel quale sono orgogliosa di essere vissuta tanti anni, in casa dei miei nonni materni e di mia zia Eva, e di averlo frequentato anche dopo, ogni giorno. Gran parte della mia formazione deriva da quel mondo, che ha rappresentato per me una lezione incomparabile di vita: non per niente il dialetto del Borgo è la mia lingua madre. Attorno al Norge, al Chè Novi e in t’al Camaròn di Peli, in cui si lavoravano le erbe palustri con la gente del luogo, ho imparato che cos’è la sincerità, la trasparenza, la sobrietà, la serenità nel lavoro, il coraggio di affrontare i momenti difficili della vita senza arrendersi, il senso della propria dignità di persona, il senso della solidarietà e anche quello dell’umorismo. Ho visto anche cum as fè a fer nòz cun dil lumég, perché così si era costretti a fare in parecchie case; Vin mo a magnèr, puvrén, che stasira a jé dal pasgàt e di ranuc chi fèn voja. Ho però anche imparato, in casa e nei “rugletti” a fèr la sulåtta, a fèr cuvlén con i ferri da maglia, a cucire le pezze nei calzoni o in t’i gabèn da lavoro di mio nonno, e fare la sfoglia con qualche buco e brisa puc sméral d’atàuran, a fèr i sotmèn e i cavalétt sugli abiti che confezionava mia zia, ad andare a comprare al cutòn d’imbastir, al sfragått, i cic cic, l’elastic e i ptón. I giv poc vuétar!

Giuliana Grandi

Testo tratto da "Brodo di serpe - Miscellanea di cose medicinesi", Associazione Pro Loco Medicina, n. 14, ottobre 2016.