Il giornalismo bolognese nel Risorgimento

Il giornalismo bolognese nel Risorgimento

1796 | 1859

Scheda

Spina dorsale del giornalismo bolognese fu la Gazzetta di Bologna, un quid medium tra il classico camaleonte della zoologia politica, e la tradizionale, retorica torre ferma che non crolla. Nota con l’incolore titolo di “Bologna” uscendo il secolo decimosettimo, più per fortunata speculazione di un furbo che per reale bisogno di leggere, si conservò fino al 1876, due volte secolare e prosperevole, dopo aver mutato sette volte di nome e settanta volte sette di indirizzo politico. Fra il primo numero, che è del 5 gennaio 1678 e l’ultimo, del giugno 1876, riposa intera la rivoluzione francese e tutto il romanticismo per cui risorse la nazione italiana. Centonovantotto anni di materia eroica, impaginata, incolonnata, elencata: due secoli buoni di alternanti vicende, di sopraffazioni e di eliminazioni, di pensieri in urto e di volontà trionfanti, monarchie, imperi, repubbliche, confederazioni succedentesi, compenetrantesi, trasformantesi, mentre, al disopra di tali forze, le grandi, giuste idee facevano breccia e cammino.

Di questi eventi, bene o male, poco o molto, il vecchissimo foglio petroniano è indice e specchio; cercare una direttiva nel conflitto di pensamenti e di fedi che condussero il nostro paese dal dominio degli altri al governo di se medesimo, sarebbe difficile anche per lo storico dell’idea italiana: tante forze cooperarono all’impresa unificatrice e tutte in contrasto tra loro, per quanto intese a un medesimo fine. Carattere, forse, di stabilità sopravvivente alle continue dubitazioni di questo foglio fu la officiosità sua, e della quale amò rivestirsi in ogni epoca della lunga carriera, così da essere accetto, sempre e egualmente, a coloro che, sotto qualsiasi reggimento, amano mascherarsi da ben pensanti: di modo che imperando Cesare o Pietro, paolotti o paterini, Cardinal Legati o Comitati rivoluzionari, il benpensantismo bolognese potè ricorrere ognora a una sua fidata gazzetta, discreta e arrendevole.

Per dir dei nomi soltanto che questo giornale mutò basterà aver presente che, dopo cent’anni di vita, alla vigilia proprio della rivoluzione francese, l’officiosa Bologna diventava la Gazzetta di Bologna (1788): poi, salito in auge Napoleone, democratizzandosi ogni cosa per effetto dei tempi nuovi, si tramutò in Redattore del reno (1807); col 1812 eccola diventata il Giornale del Dipartimento del Reno, nome che conserverà fino al 1815, col tramonto dell’astro napoleonico. La restaurazione – tutto ritorna a posto, anche i nomi, anche i re – vide di nuovo La Gazzetta di Bologna, che si legò mani e piedi al rinnovato governo, finchè il ’31, col suo ciclone rivoluzionario, squassando troni e agitando in piazza alberelli sterili di libertà, non consigliò alla Gazzetta di battezzarsi in fretta Monitore bolognese: ma il foglio del governo provvisorio delle Romagne, dopo un mese e mezzo di affermazioni liberalissime, tornava ad essere ancora la Gazzetta di Bologna: poi che Francesco IV era tornato a Modena, il papa nelle legazioni e gli austriaci, come il prezzemolo, un po’ dappertutto nelle faccende d’Italia. Con questo nome, dalle tradizioni pacifiche e concilianti, filò diritta fine al ’59, allorchè i plebisciti dell’Italia centrale e la squilla di guerra franco piemontese, non persuasero il direttore, gran cuoco di giornalismo, a nominarlo il Monitore di Bologna, titolo che doveva accompagnarla alla tomba, la quale si aprì per essa una sera del giugno 1876.

Tale in breve la cronistoria di questo che fu, senza forse, il massimo tra i giornali bolognesi. Altri, e furono parecchi, poterono foggiarsi su di esso, ma sempre con carattere di transitorietà e di minore efficienza; può darsi, anche, con meno mende: ma chi oserebbe contar le colpe ad un vecchio due volte secolare?

Tralasciando ora ogni esame particolareggiato della Gazzetta, passiamo senz’altro a illustrare, col sussidio del giornale qualche spunto di vita bolognese, fermandoci brevemente su cose e persone degne di qualche ricordo, luci e ombre di un passato glorioso, e talvolta, un po’ più allegro dei tempi in cui ci è toccato di vivere. Questa, con quella pancia promettente e il viso arguto e bonario, è per l’appunto Gioacchino Rossini, che fu un perseguitato delle linguacce, un po’ dovunque, una specialmente a Bologna. I suoi avversari scrissero e dissero di lui cose da far sudare il più ardito pennaiuolo delle gazzette francesi. Con lui ce l’avevano: non sapevano bene perché, ma ce l’avevano. Per burla lo chiamavano esimio, egregio: per dispetto gli contestavano il titolo di Maestro: per far della confusione attorno al suo nome gli affibbiavano la paternità di opere altrui: ma la Gazzetta di Bologna vigilava. Dal 1815 in poi, il giornale è a disposizione del Rossini. La sera del 10 agosto 1816, al Contavalli si dà il “Barbiere”: l’opera aveva precedenti tumultuosi: ebbene il critico (chiamiamolo un po’così) riferendo della serata nel suo giornale, esce a dire: “Vi sono dei pezzi che possono chiamarsi sorprendenti. Sentonsi invero delle voci che accusano l’autore di aver copiato e specialmente in questa composizione”. L’accusa è spicciola e senza circonlocuzioni; ma la Gazzetta non ci crede: “codesto nuovo Orfeo” chiama il Rossini, giusta un’espressione del Giornale delle due Sicilie: e i napoletani in fatto di musica non sono secondi a nessuno. Elogia orchestra e cantanti: rammenta, anzi a titolo di grande onore, Gertrude Righetti Giorgi, una Rosina ammirabile: invita i bolognesi ad accorrervi: ma le famose voci non tacciono. Per un po’ di tempo, intorno al nome del Maestro, non si fa che polemizzare: contro chi? Delle ombre: ma il giornale si inquieta e restituisce al Cazzaniga o all’Orlandi (non lo sa bene neanche esso) una Dama soldato, intitolata a Rossini. Il quale arrabbiato va via, e, nel marzo 1817, lo troviamo a suonare il contrabbasso a Spoleto, nell’ “Italiana in Algeri”. Suona, e intanto compone la Cenerentola.

La Gazzetta prepara l’attenzione del pubblico, con soffietti imponenti; i soliti ignoti trovano da ridirci: l’impresario del Contavalli è attaccato violentemente: preso fra due, la paura e l’interesse, molla sull’una e tien duro sull’altro: rifà il cartellone e scrittura il Rossini per un’opera nuova, nel Carnevale venturo. Gli avversari non si danno per vinti: vanno a Firenze, zittiscono la Cenerentola alla Pergola, mandano alla Gazzetta una corrispondenza, che è un fiore di perfidia: i fiorentini hanno detto che invece di Cenerentola, stando alle buone norme etimologiche e linguistiche, si dovea scrivere Cenerognola: Cendrillon francese non potrebbe dire altrimenti. E parlarono di Zirzio. Così tra attacchi e contro attacchi, il Rossini dei primi tempi non trovò in Bologna che la Gazzetta, disposta bene, e diecimila malamente disposti. Il perché è noto.

Se si deve dire il vero, dove sembra che il giornale abbia un po’ varato il Rossini, è nel 1848, proprio in quel tramestio della prima guerra della indipendenza, che faceva di Bologna la città più agguerrita e operosa, fra tanta gente che andava e che tornava, che predicava e stava a sentire ingombrando le piazze, e accattava per i crociati d’Italia, e inventava scandali per il gusto di far trionfare la virtù e dava di ladro al P. Gavazzi per dire bravo al Padre Ugo Bassi. Fra coloro che diedero danaro ed oggetti per le spese di guerra, il Maestro compare, in un numero della Gazzetta, come oblatore di scudi 500 più due cavalli. Poco, si disse: il giornale raccolse, prudentemente spogliandola d’ogni importanza, la voce: ma la raccolse. Soltanto che, qualche giorno appresso, pubblicava una lettera – un letterone – del Rossini al Padre Bassi, con la quale il Maestro ringraziava da Firenze dell’onore fattogli di invitarlo in momenti simili, tanto più che egli considerava Bologna sua patria adottiva: ma quanto a muoversi era un altro affare, perché aveva la moglie ammalata. Pure, se non era che questo, era disposto a “ritentare l’esercizio della sua abbandonata professione, sopra a un inno italiano” dettato dal Padre Bassi.

Il rifiuto fece le spese delle linguacce e la Gazzetta non vi intervenne: i tempi eroici, e poi qualche intriguccio di redazione avean finito per consigliar l’abbandono di un uomo, discaro a molti e reputato universalmente un po’ freddo per la causa italiana. Non si può essere sempre in grazia degli altri, specie quando questi altri fanno la professione di essere sempre in disgrazia di qualcheduno!...

Ma a Bologna, a parte i guai che parevano inevitabili in tempi di fortunosa politica, cosa non difettò fu il buonumore e la voglia di divertirsi. Per seria che voglia parere la stampa grave, il frizzo e la risatina spicciano dappertutto. Si potrebbe anzi dire che su questo punto andarono sempre d’accordo gazzette e lettori, caricaturisti e caricaturanti. A leggere quei fogli, si vede come i padri nostri sapessero divertirsi: a Bologna, poi era sempre carnevale. E quando non era carnevale, e i teatri (raro caso) eran chiusi, c’erano i concerti; e se i concerti languivano, si improvvisavano divertimenti all’aperto: capitavano dei serragli ogni tanto: ma se anche le bestie feroci tiravan di lungo, senza fermarsi, per la via di Toscana (dove, tra parentesi, il granduca non ce le voleva) si contentavano, così per ridere, dei burattini. Rimane il nome di un Pietro Maggi, direttore di marionette, ridottosi, nel 1819, con una compagnia stabile a Bologna, vivamente raccomandato dai giornali, non solo al pubblico, ma anche alle famiglie private, come eccellente suscitatore di riso.

Nei giorni di calamità, quando non resti più altro che ascoltare e tacere, udir le libere marionette ragionar di politica, deve pur essere una voluttà saporosa per gli spiriti fini! Ora, poiché i giornali lo sapevano, dedicavano delle buone colonne alla cronaca degli spassi: c’è un “Abbreviatore o appendice critica a tutti i giornali e altri fogli di novità librarie” uscito nel 1820, con lo stesso nome di un altro dell’epoca napoleonica, (1797) il quale si diffonde in confabulazioni critiche sui teatri e sugli spettacoli del giorno, perdendo di vista tutto il resto contenuto nel titolo programma. Il suo coraggio è tale da rimproverare, con queste parole, il libretto della “Semiramide”: “a chi vanta gusto un po’ delicato fa l’effetto delle rime di G.B. Marino o di Ugo Foscolo…. Che sono rombo di parolone, delle quali non si capisce nulla o quasi nulla”. Che Dio gli perdoni le peccata! Mentre poi si loda ogni cosa: per i cantanti, i Tigelli novissimi della musicale Bologna, si usa una deferenza speciale. Quante non furono le polemiche tra petroniani e genovesi per la Righetti Giorgi, deliziosa Cenerentola! O intorno alla Caterina Amati, insuperata Rosina dei tempi suoi, non arrivò a dir la Gazzetta che i versi dell’Atto I Scena III del Barbiere, erano stati scritti appositamente per lei? “Sentite il suo ritratto, che vi fo in due parole. Grassotta, genialotta, capelli neri, guancia porporina, occhio che parla, mano che innamora”.

E c’erano gli invidiosi che se la rifacevano con il Maestro! Perfino gli improvvisatori – passione generale e funesta di quella prima metà del secolo decimonono – ricevevano il plauso e l’esortazione della stampa. Nel 1850 un tal professore Costantino Minon, poeta estemporaneo, sbalordì salotti e platee col fabbricare su due piedi poesie “leggibili in nove modi”. In tutti forse, fuori che quello giusto! Va bene: ma, intanto, ci si scomodò la Muzzi, scrittrice pregiata, con un articolo interminabile in cui si parlava del mostro , come uomo dotato “della più orrevole rinomanza”!

Ma già che sono ai divertimenti, poiché ricordare è rivivere, il più gustoso e interessante, anche per noi moderni, è il ricordo di uno che fu tra gli spassi più prelibati dai bolognesi, e a cui si legano vicende giornalistiche di un certo grido: voglio dire l’aereonautica. La vita aerea, prima come dilettantismo quindi come possibilità pratica, e in ultimo come pura e semplice dilettazione acrobatica, trova nella stampa bolognese larga eco e incoraggiamento. Già il 21 agosto 1821, i giornali annunciavano una ascensione movimentata che sarebbe avvenuta il primo dell’ottobre venturo, a Porta Lame, per opera di un Isidoro Spiga, inventore di un grosso globo arestatico. Tutto era pronto e una gran folla aveva invaso il recinto, quando lo spettacolo, o per dir meglio, il pallone sfumò: il gas se ne andò via, tra le mormorazioni del pubblico, che volle indietro il danaro. La Gazzetta trovò la scusa nella cattiva qualità dell’idrogeno, che avea apprestato il farmacista Luigi Barbieri: il quale fu il capro espiatorio e poco mancò se, oltre alla reputazione di onesto farmacopola, non ci rimise qualcosa di peggio.

Vero è che la partita, anziché perduta, venne considerata rimessa da chi, reduce dagli sfortunati allori mietuti dallo Zambeccari fra il 1804 e il 1812 – anno della sua tragica fine – ne aveva serbato la fede ed educato l’idea. Sicchè nel 1825, Francesco Orlandi, scolaro dello stravagante mongolfierista, prendeva il volo sopra Bologna con una nuova sua macchina, gigantesca e decorativa, munita di vele, trinchetto, timone, valvola e attrezzatura. Nel Caffè di Petronio, interessante giornaletto dell’epoca, troviamo riportata una poesia, opera di un conte Ottavio Carletti milanese, nella quale si decanta la gloria dell’Orlandi: il foglietto volante, volò per davvero sulla bella città fra la meraviglia dei petroniani che se ne contesero la conquista, e lessero avidamente quelle parole, tutt’altro che per metafora, alate. Eccone un saggio: (e dovette parere cosa assai bella se il predetto giornale, osa pubblicarla accanto a una canzone del giovane conte marchegiano Leopardi Giacomo), e che incomincia “Cara beltà….”

Ma lasciamo l’Arcadia, che dai giardini fioriti è salita a poetar nelle nuvole, e seguiamo il furore aereobatico attraverso la prosa cattedratica e paludata degli estensori di gazzette. Nel 1834, un redattore che firma omega, pone in appendice al suo racconto, in cui si parla di un tipo nuovo di macchine aereobatiche, con molto garbo e sufficiente speditezza: giacchè la prolissità ammala tutti codesti giornalisti dei tempi andati. Ma nel ’47, in mezzo ai bollori di Pio IX, la passione risorse più furiosa: Luigi Piana, un veterano degli studi aereostatici, si fa scrivere un vertiginoso soffietto sopra ai giornali, per annunziare come il 1° maggio sarebbe partito con un pallone di sua fattura, maravigliando tutti: era dal 1826 che trafficava attorno a quell’arzigogolo aviatorio. E deve essere stata cosa di grido, se la cronaca manoscritta del Bottrigari si dilunga in particolari di un curioso interesse. Senonchè il 3 gennaio 1819, due anni dopo, come conclusione di un seguito decennale di insuccessi, i giornali portavano in grassetto l’annuncio che Luigi Piana avrebbe donato trenta scudi di premi, a colui che gli avesse riportato la macchina aerea fuggitagli di mano durante un pubblico esperimento! Il dottor Marcellino Venturoli, autore di una pregevole cronistoria bolognese, annota sotto la data 11 luglio: “questa mattina si ebbe notizia che il pallone aereostatico del Piana si è rinvenuto in una valle nelle vicinanze di Ravenna….” Del resto faceva perdonare l’umorismo della cosa il fatto che il Piana era uno dei reduci dell’armata italiana, sotto il grande capitano del secolo: sicchè lo salvava dai frizzi e motteggi, l’ora del tempo e la dolce stagione!

Chi invece fece sul serio e confortò l’aspettazione dei bolognesi, fu il francese Poitevin, acrobata di fama europea, il quale nel 1854 venne a mostrare in Italia le meraviglie della sua audacia. La stampa è piena del suo nome: codesto uomo, divenuto celebre fra i petroniani, offerse a un coraggioso cittadino un posto nella sua navicella: e ne trovò due. I nomi ci vengono conservati: e veramente furono degni di passare alla storia, codesto Francesco Mingardi brigadiere dei pompieri urbani e Luigi Guizzardi, i quali si installarono sul pallone, mentre il Poitevin se ne stava ritto su un cavallo vivo, appeso con delle corde alla navicella. E ci racconta la cronaca come essi salissero, per un affocato meriggio di luglio, nel cielo straordinariamente azzurro, fra il delirio della folla, e le armonie di militare concerto: e la sera, dicesi a Galliera, tornarono a Bologna e andarono a farsi applaudire al teatro del Corso dove la Compagnia Robotti e Vespi, recitava il “Goldoni e le sue sedici commedie”. E’ anche vero che, quattro anni appresso a Malaga, in un esperimento consimile, il Poitevin moriva, aggiungendo la Gazzetta, per essere salito in aria con asini e muli. Chi si deve essere sentito racconsolare, penso sia stato di certo il pompiere Mingardi e l’altro ardimentoso!

Ma se i divertimenti occupavano gran parte della giornata bolognese di allora, la letteratura non era lasciata languire anche per un senso doveroso di riguardo all’appellativo di dotta posto a fare il paio col grasso della vecchia Bologna. Sicchè, mentre la stampa politica mutava modi e pensieri a seconda degli avvenimenti circostanti, il giornalismo spicciolo (umoristico, cattedratico, sentenzioso) rampollava sull’albero secco della libertà, sceneggiando una primavera inesistente, in cui i fiori erano di retorica e i riflessi di qualche incendio subitamente domato. Gli stessi titoli dicono le intenzioni di quei devotissimi estensori: ne cito alcuni tra i più significativi.

Nel 1824, comparve un “Novellatore o le fanfaluche, giornale di scienze lettere ed arti, composto da un amico della verità e nemico delle contese”. Quale più chiara definizione del corcontento di toscana memoria? – Nel 1825 vede la luce il Caffè di Petronio foglio discretamente redatto, e che tornò a farsi vivo nel 1840, in giorni di marina buia. E’ del 1832 un Repertorio enciclopedico: codeste rassegne dello scibile umano avevano preso a perseguitare l’Europa dopo le prove fortunate dell’enciclopedia francese. Durò due anni (1838-39) un Istitutore, raccolta di prose e poesie: cavatine di tenori arcadici, senza sugo e senza colore.

E così dicasi per la Ricreazione del 1834, l’anni in cui tutta la stampa bolognese e italiana parve concorde – e fu l’unica volta – nel dispregiare il generoso gesto di Mazzini, sfortunato in casa e fuori, e più ancora con coloro cui avea commesso le sorti della infelice spedizione di Savoia. C’era, sì, di che ricrearsi nel leggere gli epigrammi di Zefirino re! Nel 1838 vien fuori un Ricoglitore di cognizioni utili, o antologia di cose inutili, così lontana dall’idea che spinse il Cattaneo a fondare, di lì a un anno, il Politecnico di Milano, giornale di soda fibra, tutto muscoli e nervi, maravigliosa guerra di scienziati e di patriotti. Ma a Bologna si pubblicava Il solerte e La farfalla, con l’intenzione di addormentare la gente, con quel sonno che non fa commetter peccati: e ci riuscivano perfettamente, fino al punto da penetrare nelle midolla dei giornali politici, che ne uscivano rincitrulliti.

Così il Felsineo, che dal 1840 al ’46 fu un frutto senza sapore, striminzito e legnoso, ma che un bel giorno svegliandosi al rombo delle cannonate che salutavan Pio IX e la costituzione romana, buttava giù buffa e diveniva un giornale politico, con la sua coda al pari degli altri, ma per lo meno più sincero. Ma, passati i giorni bollenti delle speranze e degli eroismi, naufragati a Novara i bei sogni dei preparatori, poi che le ultime fucilate si erano dileguate in una nuvoletta leggera presso la fossa ove Ugo Bassi giaceva disteso, i vecchi nomi, insulsi e sbiaditi, tornavano in voga primo e più curioso di tutti quel gazzettino periodico, che i savii compilatori chiamarono l’Eraclito e Democrito. Povera filosofia!

E c’è anche questo: che lo storico il quale cerca sotto quella cenere un po’ di fuoco, difficilmente lo trova, perché, se si tolga qualche parolaio suggerito dalla troppo breve e dolorosa concitazione del trentuno, battaglie vere e proprie, dalle colonne dei giornali, non se ne combatterono. I tessitori, che nella mite e sonnolenta Toscana, lavoravan nell’ombra, capitanati da quello splendido organatore di anime che fu Giampiero Vieusseux, qui operano in casa propria, senza torchi né redazioni, ma in concordia col movimento segreto che fa capo al Mazzini, oppure a ideologie costituzionali, ventilata in Piemonte: insomma, un’Antologia o un Conciliatore, o un Politecnico, in Emilia non ce lo troviamo. Le condizioni politiche che fornivano singolari libertà agli spiriti toscani di manifestare i propri pensamenti con la stampa letteraria, o la esasperazione delle anime e delle volontà lombarde, ridottesi ad asserire la verità nella scienza, come espressione più alta e universale di un vero che era nei loro più intimi e indistruttibili convincimenti, questa cosa e quella mancarono ai bolognesi, i quali, invece, congiurarono con la fierezza della loro indole, e quando i tempi furon maturi si trovaron vicini (chi li avea preparati?) in quel mattino dell’otto agosto.

Il governo delle legazioni, sempre incerto, sempre titubante, non domandava gli eroi, che Napoli o Milano offrivano alla grande causa: fino al 1847 è un sopore calmo, in cui si contemperano, apparentemente, tutte le tendenze: la Gazzetta privilegiata di Bologna è il più cospicuo campione di questa livellazione di forze. Soltanto il 1831, l’episodio più saliente della vita emiliana prima del ’47. Rivela nel gran stupore di quel moto fra il popolo che stenta a credervi e non lo capisce, un lavoro costante e tenace, che ha i suoi operai e i suoi fedeli: operai e fedeli. Che non tarderanno a rientrare nell’ombra dei propri conciliaboli, quando, nel giro di un mese, soppresso e tornato il dominatore, ogni pensiero ribelle metteva saio di penitenza e il giornale ribattezzato chiamava legittimi i governi di Roma e di Modena, quest’ultimo, anzi, sanguinoso ancora di Ciro Menotti, lodava in nome di quei Croati che gli avevano riaddotto il molto amato sovrano. Codesto trentuno, che è un grido di sfortunato valore, vide per un momento colorirsi di rosa il cielo delle speranze italiane. In quel breve ansimo di libertà, che lusso di berretti frigi, di alberi giacobini, di emblemi e di titoli rivoluzionari! E quanti, sorpresi alla sprovvista, dovettero in tutta fretta decidersi a rivoltar la giubba, non senza speranza, po’ poi che quella vecchia tenuta sarebbe tornata di moda.

Primo, fra i primi la Gazzetta di Bologna, direttore l’avvocato Carlo Monti. Di quest’uomo, il quale rappresenta il più autentico tipo del giornalista, per oltre un quarto di secolo, quando reggere il timone di una gazzetta non era affare per tutti, e poi in Bologna e poi in Emilia, c’è caso, a non pensarci sopra, di dire più male che bene. Studiando la sua figura partitamente, attraverso le infinite colorazioni della sua opinione politica, riflessa nel suo giornale con stupenda disinvoltura, si è tratti a credere che in fondo, costui si fosse della famiglia dei Girella emeriti, servi del trono o del popolo, a seconda delle occasioni. L’argomento è complesso e coinvolge, per poco che ci si addentri, un po’ tutta la fisiologia della stampa e non soltanto di ieri.

Ma nel trentuno fu grossa. Il quattro febbraio scoppia il moto: prima un “fermento non occulto”, come lo definisce Carlo Monti nell’articolo di fondo del mattino successivo; poi una sommossa, una rivolta, un pronunciamento. Tre giorni appresso la Gazzetta diviene organo ufficiale del Governo provvisorio, col nome di Monitore Bolognese. E’ rivoluzionario anche nelle apparenze: su in cima, nella testata, si ammira un leoncino rampante, sulla bandiera spiegata al vento (che non si vede ma è fra le colonne del giornale) della libertà. Il formato, i caratteri, le notizie, i pensieri, i soprusi e i respiri si ampliano, in quel bel giorno, Bologna è tutta bella e festiva: il moto provinciale pone in bocca alla gente, che non sa e non intende, parole e nomi provinciali: Modena, le Romagne, Cento, e poi governo romagnolo invece di Bolognese, guerriglie di campanile, libertà gettate a piene mani e raccolte con differenza, infranciosamento d’ogni attività pubblica, un ottantanove in sedicesimo insomma.

Ed escono quattro giornali, in una volta. Il Precursore, il Moderno quotidiano bolognese, la Sentinella della libertà e la Pallade italiana. Si teorizza, e fu il danno comune a tutto il moto italiano: si sofistica, e fu il peggiore ateismo che incriminasse la fede unitaria, e che ritardasse di qualche decennio il compimento della nazione: non si crede più a nulla, poi che gli austriaci muovono per riporre sul trono il tiranello di Modena.

Prima a spirare è la Sentinella della libertà: la fedele vedetta quando vide il nemico all’orizzonte, piuttosto che arrendersi, si soppresse al suo settimo giorno di vita: breve vigilia! Secondo in ordine di tempo fu il Moderno quotidiano che durò un mese e cinque giorni. Insieme caddero Il Precursore e il Monitore bolognese: ma questo per risorgere subito il 22 marzo, col vecchio nome di Gazzetta di Bologna e una stomachevole ritrattazione. La Pallade italiana, per quanto Atene fosse dea saggia e guerriera, non potè che morire, senza più scudo nè asta: così dicono discendesse dal suo piedistallo, poi che Atene cadde in mano ai Persiani. Dall’alto del suo pennoncello, il leone rampante avea lasciato cader lo stendardo e con esso la parola fatidica: poi era disceso esso stesso per le vie buie che portano a tutti gli esilii, lasciando il campo a un aggettivo, sfolgorante di untuosità sanfedista, e di giovevole degnazione: il privilegio di Roma aveva legato, con una parola sola, volontà e sentimenti dell’antico rivoluzionario dei quaranta giorni. E fu ripreso il cammino!

Nell’agosto 1846 – Pio IX era già papa e il suo nome saliva alle stelle per tutta Italia e in special modo nelle Legazioni – si inaugurava in Genova il Congresso degli scienziati, solenne esperimento per un’intesa intellettuale che avrebbe dischiuso il campo alle riforme e, forse, all’indipendenza. La stampa bolognese, chissà perché, non fu contenta di questo fatto: l’idea che dei dotti, avrebbe detto il Giusti, si raccoglievano in momenti critici come eran quelli, senza uno scopo chiaro la sgomentava. La Gazzetta di Bologna sostenne che la fisionomia del Congresso era bifronte: da un lato molti discorsi, molte parole, molta diffusione, oratori insufficienti, altri declamanti, intesi più a brillare, anziché a istruire: da un altro, scambio incessante di lumi, “comunicazioni agevolate fra le diverse provincie della Penisola”: ecco il pericolo! Chi la capì perfettamente, invece, fu l’Unità il giornale di Luigi Frati, che nel 1848, quando gli scienziati tornarono ad adunarsi, inneggiò a quel Congresso eminentemente politico, che da anni – ispirandosi ai criteri di Carlo Cattaneo – andava preparando una Confederazione italiana, nel nome della sapienza e del libero orientamento degli spiriti.

L’idea federale, non ultima e neppure la più imperfetta tra le varie che animavano il complesso meccanismo del risorgimento, avea trovato convinti sostenitori a Bologna, tanto negli uomini egregi, per pensiero e per tradizione, quanto nella folla incerta ed anonima di coloro, i quali, per un po’ di amore al campanile, non se la sentivano a un tratto di diventar servi (dicevan loro) del Piemonte. Era uno sbaglio, ma non vuol dire. Rappresentanti delle due tendenze, unitaria e federativa, sono due giornali usciti a breve distanza fra loro, e che si fissarono su due bei nomi del patriottismo bolognese, il Frati e il Rusconi: l’Unità del Frati, succeduta all’Eco, aveva per programma l’unificazione italiana, ma in modo da non imporre rinuncie e sacrifizi ai municipi, i quali altrimenti avrebbero dovuto addossarsi il peso di una centralizzazione amministrativa, soffocatrice di ogni iniziativa privata. Invece, la Dieta italiana del Rusconi (scritta, redatta, stampata e venduta da lui solo) non aspirava che alla unità italiana, nella forma più semplice e naturale: la Nazione al di sopra dei cittadini e i cittadini ammessi a formar la Nazione: la repubblica, infine.

Le polemiche cominciaron sul nome. Come, si disse, l’Unità mira a un frazionamento inevitabile, e la Dieta, che ha carattere federativo, si professa unitaria? Inde trae: stoccate, bottate, tiratine da una parte e dall’altra.
Ma in Lombardia si combatteva: erano i giorni gloriosi in cui a Curtatone e Montanara si rinnovavan le gesta delle Termopili: non solo, erano i giorni in cui le turbe dei soldati romani e napoletani tornavano indietro, dopo l’allocuzione del Papa, causando subbugli e legnate alle porte della città: Anzi queste bastonate dei bolognesi impressionarono molto i giornali napoletani: la Concordia, ad esempio, invitava senz’altro i soldati a tornare sopra alla flotta “chè per mare non ci sono i bolognesi a minacciare i capi se si parla di ritorno”. E il Rusconi, a metà giugno, aguzzando quella sua penna “badillarde” come diceva Desmoulins, contro le Due Sicilie, gridava a gran voce: “Ma il posto dei deputati napoletani è a Cosenza, dove c’è un Comitato di salute pubblica, non giù a Roma”.

Tutto ciò mentre il Frati e il Rusconi, ciascuno per suo conto si sentivan tirare le orecchie da Carlo Monti, estensore della decrepita Gazzetta di Bologna. Il giornalista consumato attaccava con sicurezza perfetta, uomini e idee, punto preoccupato delle risposte pepate, che quei due galantuomini refilavano: sicchè quando trattò il Rusconi di “repubblicano piagnucoloso” e il Frati di Radetzsky, ebbe il dolore di veder morire la Dieta che non gli dava fastidio, e risorgere con maggior forza l’Unità, la quali gli rinfacciò le giacchette mutate, rappezzate e riunite, di cui dovea avere un guardaroba completo.

Ma fu un disastro per il Frati: pochi mesi dopo una turba di giovani si recava, serrata e minacciosa, al Comunale gridando “Morte all’Unità!”. Cosa c’era nel grido? Il buon Frati amareggiato e confuso, diceva di sentirsi tentato di vanagloria, vedendo il suo giornaletto fatto segno di insulti a teatro e di filippiche per le gazzette. Le grida invereconde che la stampa reazionaria levava contro il Vieusseux, il D’Azeglio, il Capponi, il Salvagnoli, il Lambruschini accomunavano anch’esso nella loro fortuna: ed egli si sentiva ora forte della onestà sua, come non si era sentito combattendo contro la Gazzetta, allorchè, in un articolo editoriale, aveva accusato i bolognesi dell’otto agosto di essersi lasciati “imporre da un pugno di affamati ladroni e di crudeli assassini”.

Ma sopraggiunta Novara e scatenatesi tutte le ire compresse nei lunghi giorni della rivoluzione quarantottesca, il Frati finiva nel Forte urbano di Castelfranco, donde non sarebbe uscito così presto, se amici degni e devoti non ci si fossero messi di mezzo: l’Unità era morta anche nel fatto e fu azzardo non piccolo il far risorgere, sulle sue ceneri, un giornale nuovo che fu la Vera Libertà. In quell’anno stupendo per ingenuità ed eroismi, per retorica e sangue che fu il 1848, videro la luce a Bologna, tre curiosi giornali e, più che giornali, libelli, i quali rappresentano, ognuno per conto suo, tre momenti e tre atteggiamenti dello spirito cittadino. Divenuti rarissimi (i primi due, anzi, introvabili) se ne perderebbe anche il ricordo, se ad uno di essi non si collegasse un nome celebre, nella storia del movimento italiano e non ancora abbastanza studiato. Ma andiamo per ordine.

IL 16 marzo di quell’anno il dottor Giovan Battista Ercolani, uomo di buoni studii e di antico nome, quale atto di riconoscenza verso Pio IX, assertore di italianità e di libertà, pubblicava, per i tipi del Felsineo, un suo Petroniano, giornaletto minuscolo e senza pretese, tutto gonfio di belle frasi e di pensieri rotondi, che si vendeva al prezzo di bajocchi uno, ma con questa aggiunta: “gratis a chi non ha denari”. Di molti, però, non ne doveva avere neanche egli, perché, dopo quel primo numero, del foglio si perde traccia, ed è sorte che io mi sia imbattuto nell’unico esemplare, superstite in un fascio di carte vecchie.

L’altro è un Bollettino del popolo bolognese, apparso nell’ottobre del 1818, e anche questo, in breve ora, smarritosi per la via. E’ interessante, a ogni modo, perché può riconnettersi a quel movimento (diciamo pure la parola) modernista, che si maturò in Toscana, e precisamente in Pisa, con l’intervento del Montanelli e di altri, fra cui – biasimato dalla Curia Fiorentina – il grande Abate Lambruschini. Il foglietto bolognese, nella copia che si conserva in una Raccolta di vecchie stampe clandestine e volanti, pur senza entrare nel merito, trova modo di scherzare sulla posizione presa da certi preti francesi, di fronte al celibato, e del resto assai discussa in quei tempi. Nulla di nuovo nel mondo! Tra le notizie importanti della giornata, quel tre di ottobre, si leggeva questa: “Avviso alle donzellone. I preti si vogliono ammogliare. I preti di Francia (forse per portare anch’essi la loro croce) si vogliono ammogliare: hanno fatto anzi una mozione al pontificato. Il 22 settembre la cosa fu trattata con calore al Comitato dei culti, ma, dopo lunga e seria discussione, fu rimandata. Così si apriranno le speranze di moltissime donzellone, le quali minacciano di restare fondo di magazzino: così avremo una nuova gerarchia femminina”. Scherzucci di dozzina, avrebbe detti il Giusti, come quell’altro – citato sempre dallo stesso giornale – fatto al duca di Modena: al quale, un bello spirito, mandò in quei giorni una lettera e una scatoletta: nella prima c’era un invito a dimettersi, nella seconda due palle di piombo.

Ma il documento più importante e più raro, e che costituisce una vera scoperta nella miniera, ancor tutta da lavorare, del giornalismo italiano, è un mazzetto di bollettini pubblicati fra il 17 ottobre e l’11 novembre 1818, dal Padre Alessandro Gavazzi, cappellano maggiore della crociata italiana. Di questo giornale, che il bollente Frate pubblicò con una veemenza di frasario e una pertinacia formidabile, a dispetto di tutti, mi occupai, con una certa larghezza, non appena rinvenuto: qui basterà accennare alle cose più stravaganti che vi furono scritte, anche perché, dietro la dubbia figura del mestatore patriottardo, sta l’alta e solenne ombra del martire, Ugo Bassi.

Il Gavazzi, un’anima disperata, fatto apposta per condur lo scompiglio dappertutto, nel periodo di incertezze per Venezia e per la causa italiana, che va dall’armistizio Salasco alla ripresa delle ostilità, pubblicò, a sue spese, a suo rischio, con idee sue, con suo inchiostro, autore, editore, rivenditore e strillone, un Esperimento, dello stesso formato del Ponero, altro giornale d’avanguardia (direbbero ora) ma più sensato. Però che “senso” nel significato preciso della parola, nel giornale del P. Gavazzi sarebbe difficile trovarcelo: c’è, sì, un guazzabuglio di idee dritte e storte, di frasi grosse e di aggettivi più grossi anche delle frasi, imperativi disperati, schiamazzi, minacce, piagnistei, gonfiature: ma quello spirito misericorde che animava Ugo Bassi, suo compagno di fede ma non di bottega, e che lo accompagnò dai gradini di S. Petronio, ove arringava la folla, al martirio della sua carne, senso o non senso, non ce lo riusciamo a trovare: sicchè siamo indotti a chiederci se, per caso, non avessero perfettamente ragione quei toscani che avevano cacciato dal pacifico stato quel sussurrone, o i romani che ne avevano diffidato, o il Minghetti che lo aveva crocefisso con poche ma ardenti parole.

Il foglio, dunque, di nessuna apparenza, pieno di svarioni tipografici e tutto intriso dalla fretta con cui era stato compilato e pensato, si distaccava da tutti gli altri dell’epoca per una originalità, che lo faceva curioso fino negli accessori: niente indicazione di anno o di numero: il primo foglio porta scritto in grande, nel sottotitolo: “Sono uno” e poi: miscellanea di interessi locali”. Personali, più che locali: e lo sentì il direttore della “Gazzetta di Bologna”, che non aveva voluto pubblicargli un articolo difensivo, presentato col titolo fulminante: “Non ho rapine”. Ma l’avvocato Monti, che si era giubilato proprio allora delle molte fatiche della sua vita agiata, non se ne diede pensiero e lasciò dire: il che era la cosa migliore, in faccende di quella guisa: solo che, ogni sera, si riservava il diritto di far pubblicar le entrate della giornata, riscosse per via e per le case, dagli agenti del P. Gavazzi, dalle quali, a onor del vero, appare in luce meridiana l’infamia delle calunnie lanciate contro il tribuno.
Avversario irriducibile di ogni vecchio avanzo di macchinosa burocrazia, sostenne la necessità della riduzione dei funzionarii nei pubblici impieghi: Bologna era piena di mangiapani, in attesa di giubilazione, senza nulla concludere: un po’ di coraggio e fuori. E lo stesso frasario, sciatto, acre, violento, si accaniva contro la censura e i censori, gli uffici militari e i burocrati della guerra, contro la stampa venduta o da vendere, insomma, contro tutto il rancidume retrogrado di quei giorni. Per combattere il quale, con qualche speranza di successo, ci voleva altro che l’Esperimento del P.Gavazzi, sia pure con la loquela di cui madre natura l’aveva provvisto, simile a quella viperina, ma così toscanamente saporosa, del fiorentino Montazio!

Tant’è vero che, all’ottavo numero, moriva: non si sa più se di stenti o perché la missione del Gavazzi si riteneva, dallo stesso suo apostolo, finita. Fatto sta che il giorno 11 di novembre, il giornale chiuderà le pubblicazioni e il direttore giurava che sarebbe partito, con la legione purpurea, verso la nuova crociata. L’altro, il martire, consacrava la vita alla patria, e si disponeva a morire, di li a poco, per la sua idea. Restaurati i governi (austriaco, toscano, pontificio e napoletano) tutta l’Italia subì l’umiliazione di aspre leggi repressive, ma specialmente in fatto di stampa, la quale, da una grande libertà, fu costretta ad una mortificante moderazione. Perfino la Toscana diventò intransigente: la censura qui, anzi, assunse forme nuove e grottesche, tiranneggiate dai belli umori del felice granducato, i quali, non potendo reagire con la forza della verità, insorsero con l’ironia, che è sorella della tragedia.

Tipico è il caso di Milano, una perla della storia eroica del giornalismo. Carlo Tenca, poi che gli Austriaci eran rientrati in Lombardia, mise su un giornaletto in collaborazione con l’Allievi, il Camerini, il Massarani, il Visconti Venosta, e l’intitolò Il Crepuscolo: fu solamente letterario, e non si occupò mai dell’Austria. De Austria nihil, come se non esistesse. E la lotta durò dieci anni, sorda, cupa, in penombra, finchè le campane del ’59 ebbero annunciato la partenza degli austriaci e per sempre. Qual giorno il Crepuscolo moriva: esso non aveva più la sua ragione: la guerra del silenzio era finita: chiuso vittoriosamente il suo decennale di resistenza.

Ma nell’Emilia, con la scomparsa della libertà, parve sparire anche il buonumore. La caricatura, che sarà formidabile in Toscana e in Piemonte, qui non fiorisce: dall’alto del suo trono, il Vero Amico sentenzia e ammonisce: gli uomini più eminenti si rifugiano fuori delle legazioni: dove è ora la penna di Marco Minghetti? C’è un arresto nella vita politica della nazione e specialmente a Bologna: ma, forse, mai si ebbe una così perfetta coscienza dei nuovi doveri e una visione così limpida del problema, di cui si andava cercando affannosamente la soluzione, come in quegli anni.

Pure, se i fatti erano stati infelici, gli uomini non erano più incerti: ognuno aveva una sua fede e un programma: lo stesso popolo aveva compreso che qualche grande destino si veniva compiendo. L’esperienza del ’48 e ’49, maturata in una più tragica pratica trentennale, aveva insegnato che nel silenzio si affinano le volontà, si illuminano i punti oscuri di infinite questioni, si compiono quei destini che non è in noi, in nessuna maniera, anticipare. E la stampa fu obbediente ministra ed interprete di questo sentimento del nuovo dovere: con gli sguardi al Piemonte, in cui il Cavour ordiva la sua mirabile tela, il giornalismo, non propriamente venduto ai governanti d’Italia, discuteva, più che narrare, costruiva, più che distruggere.

Per un momento, e fu ventura politica, parve che i pensieri ribelli fossero tutti naufragati in alcune discordie, apparentemente insanabili e cariche delle più gravi minacce, tra Piemonte e Papato: ed in questo Bologna, città legatizia, ebbe una parte cospicua. La legge Siccardi, che aboliva i fori ecclesiastici e gli altri diritti del clero, generò un vivacissimo malumore tra i partiti d’Italia, i quali si affrettarono a prendere posizione: sicchè il conte di Cavour, in questo mareggiare di non imminente tempesta, governava la sua nave verso più lontani porti, ove lo attendeva la speranza e la fortuna d’Italia.

A fiore di tutte le discussioni, le polemiche, i libelli, troviamo, nell’aprile 1858, decisamente avverso al Cavour e a Napoleone III, un giornale del partito intransigente emiliano, l’Osservatore bolognese. Cosa fosse e perché fosse sorto, non lo volle mai dire. Gli altri lo giudicarono, severamente forse, spietatamente certo. In un numero, dei primi suoi, con un’arguzia petroniana, nella quale amerei riconoscere la figura dell’avvocato G. Battista Casoni, si fa la cronaca degli epiteti usati per definire l’Osservatore, da giornali nostri e stranieri da bolognesi, e non bolognesi, impressionati del sorgere di questo foglio, pieno di mezzi e di atteggiamenti battaglieri, in un momento critico della storia italiana. Il Journal des Dèbats lo chiamò ipocrita.

La Sferza, invece, zanzara giornalistica, uno scomunicatore, una pallidissima appendice alla Gazzetta di Bologna, un Sanfedista. Il Montanaro un suscitator di liti, di divisioni, pieno di contraddizioni, ostile alla guerra, incendiario, erede del Vero Amico, organo della società di S. Vincenzo dei Paoli etc.etc. Con tutto questo, era un giornale ben fatto. Appunto perché scherzava su quei quaranta palmi di coda che tutti gli rinfacciavano, diceva la verità senza scrupoli, ma senza neppure discendere alle contrizioni della Gazzetta, la quale aveva molto da battersi il petto ed ogni volta che interloquiva, faceva appello alla libera manifestazione di tutti i pensieri.

Alla testa dell’Osservatore, era un uomo di forte ingegno e di vita onorata, il quale non figurava, ma c’era: il Cardinale Viale Prelà: e con lui il dottor Marcellino Venturoli, l’avvocato Roncagli, il Casoni, il prof. Battaglini. Costoro, che rappresentavano il partito moderato bolognese, ed ai quali si doveva – come in Toscana al Capponi e al Ridolfi – se la restaurazione era avvenuta il meno peggio possibile, ora, nell’imminenza di una nuova guerra, erano sorti a ricercarne gli scopi e a prepararne gli eventi. Ma non pareva loro necessario un accordo italo francese, cui si legava il recente episodio di Crimea, il quale, per bene che fosse finito, non giustificava agli occhi, di molti italiani, il sangue inutilmente sparso. Ci fu, per qualche tempo, una forte corrente antifrancese a Bologna, incanalata e condotta, appunto, dall’Osservatore.

Bonario e scherzevole, progettava di porre, accanto al nome dei morti giornalmente della città, quello del medico curante, sotto il titolo generico di “Cause ed effetti”. Si limitava a brevi resoconti teatrali – erano i bei giorni della “Satira e il Parini” al Comunale – quando non dedicava due colonne intere a Giannina Milli, la celebre improvvisatrice. Combatteva tutti i giornali italiani che la pensavano diversamente (ed eran di molti) accusandoli di cavourismo o di lepidezza: i toscani li poneva tra questi ultimi. Lanciava la scomunica alla crinolina delle donne, su cui, anzi, correva in quei tempi, questo epigramma di Francesco Capozzi, pubblicato dall’Eccitamento (o Assopimento, come lo chiamavano i maligni).

Ma abbiamo detto che le mongolfiere, a Bologna, eran di moda! Poi quando la guerra parve decisa, e il grido di dolore proclamato dal Re ai piedi delle Alpi, sembrò sinceramente richiamare gli echi dolle più lontane regioni d’Italia, fu aspro, tagliente, mordace. Cavour trionfava: l’uomo, che aveva studiato diritto canonico in Inghilterra e da governanti educati nel protestantesimo, aveva ottenuto l’alleanza e la guerra. I prestiti di denaro e di sangue erano affluiti dinanzi a lui, generosamente, largamente: ormai gli eserciti erano in piedi e Napoleone III cavalcava prossimo al figlio di Carlo Alberto. Allora l’Osservatore ebbe un grido disperato, che fece male anche al cuore di parecchi cattolici: “Speriamo che non sia una seconda Novara!” Alessandro Manzoni, da poco uscito da una grave malattia, avrebbe fremuto alla bestemmia!

Ma i fati tennero lungi l’augurio: mentre il Piemonte si avviava a Magenta, l’Osservatore preparava le valigie.
Qualche sprazzo ancora dell’antica gaiezza, ma soffocato dalla passione di parte, rimane a testimonio di quelle ultime giornate di lavoro. Era morto Ferdinando II, il Re Bomba, senza rimpianti. Cosa combinò l’Osservatore? Dà da intendere, in una corrispondenza fabbricata a Bologna, che il re fosse morto di veleno, per un sigaro datogli da un generale. La notizia fece il giro: arrivò a Londra: Poerio minacciò una violenta protesta sui fogli inglesi, mentre la stampa italiana, commentava variamente l’annuncio. Con quest’ultima trappola, della quale ride il Casoni in un suo eccellente libretto, ebbe fine l’Osservatore: 10 giugno 1859. Un anno e due mesi di vita: proprio giusto per sostenere, fino agli sgoccioli, il più vacillante governo delle Legazioni. Gli anni che seguirono ai plebisciti, non sono, giornalisticamente, importanti che per le battaglie politiche e parlamentari, le quali, attraverso, a una terza guerra e a un trasferimento di capitale, condussero a Roma. Ma il periodo vivo del giornalismo bolognese, come fenomeno e attività municipale e locale, è terminato, Ed ora riepiloghiamo.

Anche senza essere profondamente edotti nelle vicende che accompagnarono il risorgimento italiano, dalle cospirazioni alle guerre, dal cannone alla penna, dalla galera al patibolo, pure rimane abbastanza chiaro che Bologna, centro di irrigazione ideale e strategica, non ebbe poi una così gran parte nel movimento, e non già per scarsezza di fede nei figli suoi, ma forse appunto per quella posizione di intermediaria, tra il nord e il mezzogiorno d’Italia, sorvegliata da una parte dall’Austria, unghiata feroce, dall’altra lambita dalla liberale toscana, trattenuta da Roma con briglie non poi tesissime, e tali, insomma, da lasciar modo a chi volesse scavezzarsi un pochino, di farlo, ma con criterio. A ciò aggiungasi il carattere dei bolognesi, ardente negli sdegni, tranquillo e bonario in tutto il resto: dall’appennino toscano saliva la dolce aria del granducato, consigliando la quiete e la tranquillità dello spirito: ma se qualcosa era penetrato da Modena, era stato un soffio di tempestosa rivolta nel trentuno: sotto l’ardore della rivoluzione, in un momento, si erano incendiati i cuori.

E la stampa non poteva non rispecchiare questo stato d’anima: il giornale, più che di fatti, è materiato di sensazioni, le quali, specie in regime di servitù politica (censura, guerra o rivoluzione) si traducono in un impercettibile scintillio, che guizza tra le parole e le righe, senza abbagliare, ma senza nemmeno conservare il brio. Così è che nei giornali bolognesi, prevale l’elemento insegnativo e cattedratico, più che non prevalga a Milano, dove invece la stampa fa udire lo stridore delle catene che le avvincono i polsi. A Bologna si educa, si sorride, si fa sorridere: i teatri sono il tempio dell’arte e a ciò si dà l’importanza e l’imponenza d’una tradizione: ma, fuori di qui, i teatri sono campo di battaglia, ora tacito ora fremente, ora sanguinoso, come appunto a Milano. Il pensiero è orientato verso l’interpretazione del diritto, come gloriosa consuetudine, e gli studii di economia vi fioriscono: si crede in Dio, ma senza pensiero religioso: si parla di democrazia e di demagogia, ma, il giorno della prova, si chiamano pazzi gli uomini del trentuno e si rivede con soddisfazione l’ordine restaurato: la Gazzetta di Bologna è il grande indice di questo moto: in fondo essa non veste che i panni che le offron le circostanze: la sua guardaroba è l’opinione pubblica, dispensiera di commende e di infamie, di allori e di fango.

E aggiungerò questo: che l’essere stata Bologna nodo strategico di primissimo ordine durante la prima guerra di indipendenza (essa era, si pensi, quasi il quartier generale degli approvvigionamenti, e stazione di tutte le truppe che si recavano al fronte) contribuì grandemente a plasmare quello spirito di indifferenza che, dopo gli eroismi dell’8 agosto, penetrò i cittadini, sia nella ripresa della campagna, sia dopo Novara, sia durante il governo tumultuario delle legazioni, proclamandosi in Roma la repubblica di Mazzini. Tutto ciò spiega la mancanza in Bologna di una perenne stampa, sia pur clandestina, di opposizione. E spiega come, fin nei periodi di più solenne affermazione italiana, la stampa si mantenesse misurata e guardinga, poco credendo al Mazzini e meno ancora al Cavour; a cui, comunque, aveva aderito, fino dai giorni difficili, con tutta l’anima e l’intelletto, il fiore del liberalismo bolognese.

Gli anni che seguirono, privi di contenuto eroico, non hanno riscontro in un giornalismo combattivo e fremente, se non per passione politica. Dalla morte di Cavour alla conquista di Roma, è tutto un cozzo di opinioni e di idee, riassunte nella espressione unica del partito e del parlamentarismo, divenuti supremi regolatori della stampa, priva perciò di fede e di volontà propria. A voler dire le cose come stanno, è per l’appunto in questo periodo che Bologna manifesta il proprio carattere arguto e felice: i giornali umoristici gareggiano con quelli piemontesi e col fiorentino Lampione: argomenti non mancano: e siccome la passione municipale ha sempre dominato l'Italia, in radice di ogni altra preoccupazione politica, il frantumarsi dei partiti chiesuola, nati e prosperati in questa parte od in quella, generò uno scoppiettio di mordaci frizzi, che punsero più che non pungesse, ai suoi tempi, la retorica esasperazione dei patriotti cospiratori e quarantotteschi. Perciò ne andrebbe parlato separatamente.

I naufraghi del Mazzinianismo, inghiottiti la più parte dalla piena cavouriana, i neoguelfi (così potenti in Emilia da annoverare il Minghetti fra i loro, fino a tardissima ora) i repubblicani federalisti, gli autonomisti e gli altri ruderi codineggianti non ancora finiti di crollare, figurarono come quantità negative nei giornali umoristici, in cui si rovesciò quell’italico aceto, del quale il buon Orazio celebrava la forza e la schiettezza, in mirabili versi. E la stampa ufficiale fece capo al Minghetti, divenuto arbitro della vita italiana, insavoiardata da capo ai piedi e disposta, sotto la sua guida, ad operare e a brigare. Ma appunto perché quel sapore di antico e di generoso manca a codesti fogli, in cui la briga parlamentare è flusso necessario per alimentarne la vita, e d’altra parte, con l’annessione delle Romagne al Piemonte, finisce un periodo storico per darne origine a un altro, che è interamente diverso, abbiamo creduto migliore lasciare ad altri - e sappiamo che saran degni – la cura di ricercarne le fasi attraverso le gazzette e le redazioni.

Edgardo Gamerra

Testo tratto da “La vita cittadina” rivista mensile di cronaca amministrativa e di statistica del Comune di Bologna. Anno sesto – Agosto 1920. Trascrizione a cura di Lorena Barchetti.

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