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Giosue Carducci e i carducciani

Sociale 1860 | 1907

Schede

Pur non prendendo parte direttamente alle lotte per l’indipendenza, la figura di Giosue Carducci è a tal punto connessa con le vicende del Risorgimento da avere ben meritato l’appellativo di “vate della terza Italia”. Per tutta la vita egli sentì e visse il Risorgimento con ardore di patriota, tuttavia questa passione non andò mai disgiunta da un ricerca scrupolosa della verità storica. Con lo stesso metodo severo e paziente che usava nel campo letterario e critico, “ricercava libri, opuscoli, documenti, testimonianze di superstiti: risaliva ai primordi e riconfermava gli sviluppi […] sempre più attratto a prendere notizia di ciò che si riferisce al Risorgimento”: la Biblioteca del Poeta conservata a Casa Carducci è il risultato e la grandiosa testimonianza di questo lavoro. Carducci però non era uno storico, ma poeta e letterato, e per di più militante: così, se da una parte i suoi versi ci hanno lasciato una vera e propria storia del Risorgimento “attraverso una sintesi, una illustrazione una esaltazione impareggiabili”, dall’altra tale storia risulta sempre disegnata a partire da precise scelte di campo che, pur evolvendo nel corso del tempo, conservano una loro interna logica. Nella passione politica e nell’impegno poetico, il Risorgimento resta comunque “il centro su cui si raccolgono i suoi affetti, la sua visione della storia e la sua concezione della vita”.

Ricordando la prima volta che aveva sentito dalla voce della madre le poesie guerresche del Berchet, così confessava: “Versi benedetti: anche oggi ripetendoli, mi bisogna balzare in piedi e ruggirli, come la prima volta che gl’intesi. […] Dopo sentiti cotesti versi […] avevo una voglia feroce di ammazzare tedeschi”. Animato da questo spirito romantico e patriottico, nel 1859 Carducci divenne uno “dei moltissimi che accolsero la formola garibaldina Italia e Vittorio Emanuele senza verun entusiasmo per la parte moderata”, ma perché attraverso questa scelta “la storia d’Italia troverebbe meglio il suo completamento necessario, la liberazione, la unione e la grandezza di tutta la patria”. Il “re guerriero che pugna e vince” è da lui celebrato
“… Non perché dai Sabaudi a la marina / stendi lo scettro de l’avito impero … / ma perché figlio amant  / sei dell’antica madre in ch’io mi vanto”.

L’inno “Alla croce di Savoia”, e le poesie celebrative delle vittorie piemontesi di “Montebello”, e “Palestro”, nascono in questa prospettiva. Carducci torna all’opposizione “Dopo Aspromonte”: la monarchia ha rotto il patto con le forze popolari e democratiche:
“Ahi grave è l’odio e sterile / Stanco il mio cuor de l’ire / Splendi e m’arridi o candida / Luce de l’avvenire!”

E Garibaldi ferito dagli stessi soldati italiani appare al Poeta come l’unico eroe di quella infelice giornata. “Chi vinse te? Deh cessino / I vanti disonesti:
te vinse amor di patria / E nel cader vincesti”. Per Carducci Garibaldi “ci raffigura il più bello ideale della nazione italiana. In lui la grandezza della storia di Livio, in lui la gentilezza epica degli eroi di Virgilio, lo slancio avventuriere dei paladini dell’Ariosto, la fede dei cavalieri del Tasso. In lui tutta l’epopea del nostro Risorgimento”. Quanto a Mazzini, per il poeta egli è “l’ultimo dei grandi italiani antichi e il primo dei moderni, il pensatore che de’ Romani ebbe la forza, de’ Comuni ebbe la fede, de’ tempi moderni il concetto”. Mazzini è “il politico che pensò e volle e fece una la nazione” e verso il quale l’Italia ha un incalcolabile “debito per l’avvenire”. Avvicinatosi progressivamente alle posizioni repubblicane e divenuto bardo giacobino del partito d’azione”, egli dedicò ben cinque canti alla “nuova infamia” di Mentana: “Triste novella io recherò tra voi: / la nostra patria è vile”.

Anche le poesie “Per Eduardo Corazzini morto delle ferite ricevute nella campana romana del 1867” e “Per Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti martiri del diritto italiano” costituiscono violente invettive contro la Francia e contro il Papa, espressione del livore anticlericale allora assai diffuso presso le classi dirigenti italiane. A quel periodo risale anche l’ode “Nel vigesimo anniversario dell’8 agosto 1848”, nella quale il popolo bolognese vittorioso venne celebrato come “santa canaglia”. I Bolognesi che, trent’anni dopo, avrebbero chiesto a Pasquale Rizzoli di raffigurare nel monumento celebrativo non tanto obelischi e leoni, ma un giovane popolano “forte e generoso” dovevano conoscere bene quei versi. Nel 1870 si giunse infine a Roma ma “a frusto a frusto, fra una pedata e l’altra”; il Canto dell’Italia che va in Campidoglio nella sua ironia, esprime molto bene la delusione per questo epilogo del Risorgimento così poco eroico: “Oche del Campidoglio, zitte! Io sono / l’Italia grande e una / Deh, non fate, oche mie, tanto rumore, / Che non senta Antonelli”. Ora Carducci sente la necessità di dare unità al nuovo Stato, e dopo avere maledetto Pio IX, “Polifemo cristiano”, confessa: “Oggi co’l papa mi concilierei” e con ironia lo invita: “Vieni: a la libertà brindisi io faccio: / Cittadino Mastai. bevi un bicchier”.

Egli può cogliere ed esprimere così l’intima coerenza del Risorgimento, al di là di contrasti e contraddizioni: “Vittorio Emanuele conspirante ad un fine con Giuseppe Mazzini e con Giuseppe Garibaldi”: “un repubblicano monarchico, un monarca rivoluzionaria, un dittatore obbediente”. In questa prospettiva, si comprende meglio la “conversione” alla monarchia, l’ode “Alla Regina d’Italia” (1878) e il saggio “Eterno femminino regale” (1882): “non un preteso tradimento da parte dell’antico poeta ‘petroliere’ o incendiario, ma una conversione storica di tanti uomini della Sinistra”, in questa prospettiva egli torna a celebrare il “Piemonte” e i suoi eroi, non solo quelli vittoriosi, ma anche quelli sconfitti: Re Carlo Alberto “italo Amleto” morto in esilio e Santorre di Santarosa, che accompagnandone l’anima al cielo, prega “Dio, rendi l’Italia a gl’Italiani”. In quegli stessi anni Carducci non esitò però a tuonare ancora contro “i tiranni di fuori e i vigliacchi di dentro”: gli uni avevano ucciso l’irredentista Guglielmo Oberdan, gli altri avevano taciuto per convenienza politica. La lapide posta all’interno del Palazzo Comunale costituisce la testimonianza della polemica feroce che il poeta suscitò nella città di Bologna e nell’intera nazione con le sue parole di fuoco. Con la sua opera, Carducci plasmò un’immagine del Risorgimento complessa al tempo stesso coerente, semplice da cogliere con uno sguardo di sintesi e al tempo stesso analitica, attenta a personaggi ed eventi anche minori, una miniera inesauribile di definizioni, un repertorio di immagini, e lo trasmise alle generazioni successive, fino quasi ai giorni nostri. I Bolognesi e gli Italiani per molti decenni avrebbero pensato, sentito, guardato, raffigurato il Risorgimento avendo la mente – e spesso anche il cuore – pieno dei suoi versi.

Otello Sangiorgi

"Amo Bologna; per i falli, gli errori, gli spropositi della gioventù che qui lietamente commisi e dei quali non so pentirmi. L'amo per gli amori e i dolori, dei quali essa, la nobile città, mi serba i ricordi nelle sue contrade, mi serba la religione nella sua Certosa", così scriveva Giosue Carducci nel 1888. Tributo d'affetto alla sua "seconda patria" dove era venuto ad abitare nel novembre del 1860, "con l'Italia e l'unità", chiamato dal ministro Terenzio Mamiani a ricoprire la cattedra di eloquenza italiana nell'Ateneo della città. E non c'è dubbio che fra i luoghi cari al poeta, insieme alle "solenni strade porticate" e alle piazze "austere, fantastiche e solitarie", anche questa "grande città dei morti", ai piedi del Colle della Guardia, rappresenti uno spazio coinvolgente. Ora nella qualità di monumento storico legato a un passato remoto glorioso ("Dormono a' piè qui del colle gli avi umbri che ruppero primi" e, dopo questi, gli Etruschi, i Galli e poi i Romani, quindi Longobardi, Fuori alla Certosa di Bologna) ora in quella di sacrario delle memorie e degli affetti privati. Qui, infatti, il "vate dell'Italia unita", spentosi il 16 febbraio 1907, riposa con la madre Ildegonda, con i figli scomparsi ancora "parvoli", Francesco e Dante, nella tomba di famiglia (Campo Carducci) che poi ha accolto la moglie Elvira, le figlie Laura, Beatrice, Libertà.

Quanto all'amata "Lidia" delle Odi barbare, il sepolcro di Carolina Cristofori Piva, con iscrizione dettata da Carducci, è ubicato nella Loggia del Colombario. E' per impulso di Carducci che Bologna è diventata, fra il 1870 e il 1890, un centro prestigioso di iniziative culturali, dove l'amore per la poesia si unisce a quello per la ricerca filologica ed erudita, dove il fervore per l'indagine scientifica convive con la passione storica e politica. Sono numerose le personalità illustri ed emblematiche della "Bologna carducciana" sepolte alla Certosa. Fra i colleghi del "poeta-professore" all'Alma Mater Studiorum si segnalano: l'archeologo Edoardo Brizio, il geologo Giovanni Cappellini, il grecista Vittorio Puntoni, il fisico Augusto Righi nel Chiostro VI, mentre Francesco Magni, docente di clinica oculistica e lo storico della filosofia Francesco Acri riposano nel Chiostro VII. Insieme ai giuristi Cesare Albicini (Sala delle Catacombe) Giuseppe Ceneri (Chiostro Maggiore) e Oreste Regnoli (Galleria degli Angeli) sono meritevoli di ricordo il chimico Pietro Piazza (Sala Gemina) e il latinista Giovanni Battista Gandino nel viale lungo il muro di cinta parallelo al Canale di Reno. Fra i sodali della Deputazione di Storia Patria per le provincie di Romagna, la rinomata società culturale di cui Carducci è stato segretario e presidente, lo storico e patriota Giovanni Gozzadini che riposa con la moglie Maria Teresa Serego-Allighieri, pittrice e letterata, insieme alla figlia Gozzadina, nella tomba di famiglia nel Chiostro Annesso al Maggiore, nonché Luigi Frati, bibliografo ed erudito, nella Sala del Colombario. Nel novero dei discepoli di Carducci spiccano i nomi del letterati Severino Ferrari (Campo Carducci), Gino Rocchi (Cortile VII), Adolfo Albertazzi (Campo Carducci), Giovanni Federzoni (Sala del Colombario), del latinista Giuseppe Albini (Galleria degli Angeli) e dello storico Albano Sorbelli (Campo Carducci). Insieme a loro tanti altri personaggi con cui Giosue Carducci ha intessuto rapporti di amicizia e di lavoro. Fra gli altri il suo segretario Alberto Bacchi della Lega (Chiostro Annesso al Maggiore), i suoi Editori Nicola, Cesare e Giacomo Zanichelli nella tomba realizzata da Alessandro Massarenti (Chiostro VII), il conte Nerio Malvezzi de' Medici nella tomba eseguita su progetto di Ercole Gasparini e adorna delle sculture di Giacomo De Maria (Chiostro Terzo), Alberto Dallolio, Sindaco di Bologna dal 1891 al 1902, nel Chiostro Maggiore. Neppure vanno dimenticati, protagonisti della "dotta" Bologna, il poeta-bibliotecario Olindo Guerrini sepolto nella Sala del Colombario ed Enrico Panzacchi che riposa nel Campo Carducci.

Simonetta Santucci