Salta al contenuto principale Skip to footer content

Gioacchino Piretti, superstite dell’eccidio

Schede

Incolonnati ci portarono a Pioppe, rinchiudendoci in una casetta vicino alla chiesa. Stipati nella stessa stanza eravamo in 64, altri ancora erano in chiesa e nelle case prossime. Nel pomeriggio del 30 vennero da noi un signore di Grizzana, anziano, che preso da pietà, volle intercedere per noi presso il comando nazista. Quando tornò dalla sua missione, riferì che un giovane ufficiale a Pioppe e un ufficiale superiore a Sibano gli avevano assicurato che presto i rastrellati sarebbero stati posti in libertà, salvo quelli da avviare al lavoro.
La sera del 1° ottobre era quasi calata e si stentava a scorgere i monti di fronte, quando i nazisti con modi brutali ci tolsero gli orologi, i portafogli ed anche le scarpe e ci avviarono alla “botte” del canapificio di Pioppe di Salvaro. Si tratta di un bacino non molto vasto, quadrato, da tre lati chiuso da muri, formato dall’acqua industriale della fabbrica.
Ci fecero schierare sulla passerella con ringhiera del lato di fondo, di fronte presero posizione una ventina di nazisti con due mitraglie puntate.
Non si vedeva scampo, tutti eravamo rassegnati, con gli occhi bassi verso l’acqua scura ai nostri piedi. C’era un grande silenzio, nel buio arrivava distinto lo scatto degli otturatori per mettere le pallottole in canna. Poi le raffiche e gli scoppi delle bombe a mano.
Avevo conservato un po’ di sangue freddo, o forse l’istinto, e quello mi salvò. Al primo colpo infatti mi lasciai cadere: quando mi scossero trattenni il fiato e feci il morto, e una volta buttato nella “botte” ebbi la fortuna di capitare in un punto di acqua bassa, dove, puntellato sui gomiti, mi riusciva a tenere fuori dell’acqua mezza faccia e respirare col naso. Ritengo di essermi salvato grazie soprattutto alla debole luce dell’ora ormai tarda per la stagione d’autunno.
Rimasi là dentro fino a notte, in quella che non era più acqua, ma un liquido spesso e viscido fatto di fango e di sangue. Appena uscito dalla “botte” trovai uno orribilmente ferito, che si reggeva gli intestini con le mani, perché li perdeva da un grande squarcio al ventre. L’aiutai a raggiungere una casa disabitata, da dove non fu più capace di muoversi e morì. Sentii nel buio dei passi che mi spaventarono, seppi poi che era un certo Ansaloni, anch’egli scampato dalla “botte”.
Finalmente riuscii a rintracciare la mia casa, vi arrivai stravolto e non ero capace di parlare.
[MP]

Renato Giorgi, "Marzabotto parla", Milano-Roma, Venezia, Marsilio editori 1991

Ci incolonnarono e ci portarono a Pioppe, rinchiudendoci in una casetta vicino alla chiesa. Eravamo 64 nella camera dov’ero io. Poi ce n’erano nella chiesa e altrove. Rimanemmo lì fino al momento in cui ci condussero alla fucilazione. Ma devo dire che nel pomeriggio del 30 venne da noi un signore di Grizzana, di circa 60 anni…mi pare che si tratti di un certo Vannini [Veggetti]. Egli venne per intercedere per noi e so che andò a parlare col magg. comandante, che doveva appunto essere a Sibano. Quando tornò indietro ebbe un gesto di disperazione ci fece capire che la sua missione era fallita.
(…) Restammo rinchiusi fino alla sera del 1° ottobre, saranno state le 19 e cominciava a imbrunire. Ci portarono con molta violenza, dopo averci fatto levare le scarpe, consegnare orologi, portafogli e ogni altra cosa che si aveva addosso, alla “botte” del canapificio di Pioppe. Si tratta di un bacino non molto grande, formato dall’acqua industriale dello stabilimento. Esso è circondato dal fabbricato su tre lati, e su due corre una passerella con ringhiera. Fummo schierati sulla passerella del fondo, di fronte al lato libero. Piazzarono di fonte a noi due mitragliatrici. I tedeschi erano una ventina. Subito cominciarono col gettare una bomba a mano per uno di loro [nel corso della testimonianza chiarisce che le bombe vengono dopo i colpi di mitraglia]. Poi presero tutti e, facendoci passare sotto il ponte che corre su quel lato, ci buttarono dentro il serbatoio sottostante. Io sono caduto tra i primi, perché mi ero lasciato andare al primo colpo. Quando mi scollarono non mi mossi. Quando fui abbattuto nel serbatoio, ebbi la fortuna di cadere in un punto in cui l’acqua era poco profonda, in modo da rimanere immobile, appoggiando la testa al gomito, con naso e mezza faccia fuori dall’acqua. Devo la mia salvezza soprattutto all’ora tarda, per cui ormai la luce cominciava ad essere debole… Uscito a notte fonda dall’acqua, potei raggiungere una casa che subito abbandonai perché sentivo dei passi. Ma era l’Ansaloni. Io raggiunsi infine la mia casa dove fui asciugato e vestito. Avvertii quelli dell’Ansaloni che gli andarono incontro: egli era ferito. Appena uscito dalla “botte” trovai anche uno scampato di cui non ricordo il nome. Era ferito gravissimamente e lo aiutai a raggiungere una casa abbandonata dove lo lasciai perché non poteva più muoversi e non potevo fare nulla per lui: era ferito al ventre e costretto a tenersi il sacco intestinale con le mani. Lo si è poi trovato morto.

Annamaria Cinti, "La strage di Marzabotto nel processo Reder", Tesi di laurea, Università degli Studi di Urbino, 1970-71
[SM]
Note
2