Fiorini Giuseppe

Fiorini Giuseppe

28 Settembre 1861 - 1861 | 1934

Note sintetiche

Scheda

Conoscete Bazzano, la piccola terra ai cui piedi si svolge sinuoso il Samoggia, mentre in alto la piccola acropoli s’incorona con le antiche mura turrite da cui si ergono fra i cipressi la chiesa e il castello? A vederlo dal ponte sul fiume, quando dopo il Gesso la vista improvvisamente si allarga sull’ampio greto e sulla cerchia delle dolci colline, vi appare come uno dei punti più pittoreschi della nostra provincia, degno veramente di essere ricercato dai turisti in cerca di bellezze remote. Terra fertile e ricca, con la campagna ondulata che i vigneti inghirlandano di festoni sacri a Diòniso, che le messi feconde macchiano di grandi chiazze gialle nel tempo della mietitura; rigata d’acqua correnti e folta di aerei pioppi; abitata da gente industriosa che ama il suo cielo e il suolle e in cui, accanto ai commerci e alle industrie che utilizzano i prodotti del suolo, fiorisce ancora, qua e là nelle campagne, un’arte nobilissima, la liuteria.

C’è, a poca distanza del paese, sopra un canale corrente, fra pioppi e siepi e vigneti, un vecchio mulino: il mulino Sega. Di vecchio, veramente, non molto rimane; chè il nuovo proprietario, seguendo i tempi, lo ha rifatto e ingrandito, e vi ha immesso, a muoverne gli’ingranaggi, la forza della corrente elettrica. Ma, entrando si scorge ancora la gora, e la piccola paratoia da cui l’acqua piombava un tempo sulle pale della grande ruota; e si può allora avere un’idea di quel che il mulino Sega appariva, quando, in un lontano giorno di settembre del 1861, Giuseppe Fiorini vi aperse per la prima volta gli occhi alla luce. Giuseppe Fiorini, nato a Bazzano il 28 settembre di quell’anno, morto a Monaco di Baviera nel gennaio del 1934, fu considerato nell’età sua come il maggiore dei liutai viventi, degno seguace dello Stradivari e degli altri grandi, ultimo, in ordine di tempo, di quella serie di meravigliosi artefici che diedero all’Italia, nell’arte della liuteria, una fama mondiale. Per questo, è giusto ricordarlo ora, tre anni dopo la sua morte; tanto più se si pensa che Cremona si prepara a celebrare prossimamente il secondo centenario della morte di Antonio Stradivari, e che i più preziosi cimelii stradivariani di cui quel Museo Civico si adorna, furono, come vedremo, un munifico dono del modesto e grande liutaio bazzanese. Mugnaio e figlio di mugnaio era stato Raffaele Fiorini, il padre di Giuseppe; ma tra un sacco e l’altro di grano, togliendosi al polverone al fragore delle mole, si chiudeva in uno sgabuzzino, e, tratta fuori la raspa, si dava a lavorare attorno ai violini, che erano la sua passione. Ma la sua vocazione si propagò ben presto nel ragazzo, con grande dispiacere del padre, che avrebbe preferito vederlo assiduo ai lavori del mulino. Perché il padre ostacolasse così il figlio, non si sa. Gelosia inconsapevole dell’artefice che presentiva nel giovinetto qualcuno che lo avrebbe superato in quella sua nascosta passione? Desiderio di distoglierlo da un’arte da cui, per allora, non c’era da sperare un gran lucro e che, anzi, poteva preparargli qualche amara delusione? Comunque, il piccolo Giuseppe seppe resistere all’opposizione paterna, e, quindici anni, potè costruire un violino così pregevole, che lo stesso Raffaele ne fu disarmato. Da allora, Giuseppe ebbe agio di seguir a vocazione prepotente che lo traeva a costruire e a studiare per conto suo, ribelle agli insegnamenti del padre, e ben preparato ad essere indipendente, e a diventare maestro. Nella bella campagna emiliana, tra il verde e l’azzurro che circondavano la casa solitaria, il suo ingegno musicale era sbocciato quasi miracolosamente. Il liutaio è un musico, anche se altri, e non esso, trarrà dal legno ch’egli tratta le più soavi melodie. Discutere di spessori e di vernici, è tempo perso. Quella che conta è in prima luogo l’anima musicale del costruttore.

Nel 1868 un buon musicista bolognese, il Verardi, ebbe il merito di scovare il vecchio liutaio del molino Sega e di farlo trasferire a Bologna, dove, in uno sgabuzzino del palazzo Pepoli, in via Castiglione, lasciate per sempre le macine, egli attese all’arte sua fino alla morte, che lo raggiunse settantenne il 18 ottobre 1898. Gli esperti di liuteria lo compresero e lo ammirarono ben presto, e il lavoro non gli mancò. E i possessori di strumenti rari non ebbero più bisogno di mandarli a riparare a Parigi, come allora usava. Raffaele era un uomo stravagante e distratto. Certe storielle di cui egli fu il protagonista, si ricordarono ancora. Un giorno, passando per una via di Modena, riconobbe un suo violino nel suono che una mano inesperta faceva uscire e diffondeva da una finestra aperta; indignato contro lo strimpellatore, non si peritò di salire in casa e di coprire di vituperi quell’infelice. Amava la compagnia dei campanari; ma lassù, nelle alte celle delle torri solitarie nella campagna, non si suonavano solo le campane, bensì si vuotavan bottiglie di lambrusco spumante. E anche nei riguardi del figlio, che intanto era divenuto illustre, mostrò chiara la sua indole generosa ma stravagante. Avendo Giuseppe mandato ad un’esposizione parigina di liuteria un violino che vi era stato premiato come nuovo, egli si recò apposta a Parigi, per dimostrare ai giudici esterrefatti che si trattava di un’amabile rabberciatura dall’antico. Ma a sua volta Giuseppe si vendicò, quando lo stesso Raffaele, in una mostra milanese, ebbe a giudicare antico ed autentico un violino che il figlio aveva fabbricato egli stesso, con una eccellente imitazione che avrebbe confuso i giudici più severi. Ma, a parte questa loro rivalità, padre e figlio si volevano bene, e combattevano ambedue per la medesima causa. E poi, un bel giorno le Alpi li divisero; perché Giuseppe, che nella esposizione internazionale di musica del 1888, a Bologna, aveva conquistato il primo premio assoluto, si trasferì l’anno dopo a Monaco di Baviera dove molti anni dopo era destino ch’egli chiudesse la sua vita mortale.

Parlavo di lui, giorni sono, con Arrigo Serato, il maggiore dei nostri violinisti viventi; e anch’egli mi confermava l’altissimo valore del Fiorini, di cui aveva anche posseduto un prezioso strumento. A Monaco, dove prima di lui i liutai italiani godevano scarsa reputazione, ben presto il piccolo bazzanese doveva superare tutti ed imporsi a tutti, vincendo le prevenzioni e le ostilità. Tutti i grandi concertisti italiani e stranieri che passavano per quel grande centro musicale europeo, si fermavano a visitare il nostro liutaio e ne cercavano i perfetti violini. Benno Walter e Johann Lenterbach gli divengono amici; lo stesso principe Luigi Ferdinando di Baviera frequenta assiduamente la bottega; Andrea Rieger, il più famoso dei liutai bavaresi, gli cede la propria bottega e gli dà la figlia in isposa. Il giovane sconosciuto ed oscuro è diventato ben presto un trionfatore. L’Unione dei costruttori di strumenti a corda (Verband deutschen Geigenbauer) lo avrà per lunghi anni Presidente della Commissione d’esami. Dopo la sua il grande giornale monacense, le Muenchener Neueste Nachrichten, dirà di lui che fu «generosamente amico e mecenate della Germania e dell’arte strumentale tedesca, onde fu universalmente amato e tenuto in grande stima e venerazione. Egli fu sempre largo di consiglio e di aiuto, fu parimenti protettore e benefattore di vari artisti bisognosi». Era un grande artista e un nobile cuore. Aveva egli scoperto, come qualcuno disse, il segreto dello Stradivari? Mi ricordo di una visita a un altro liutaio, formatosi anch’esso nella campagna, poco lontano da Bazzano, nel piccolo paese di Spilamberto. Giovanni Cavani, morto pochi or sono a più di ottant’anni, non si era mai mosso dal suo nido, pur costruendo strumenti eccellenti, pago della vita semplice e mediocre di quel suo villaggio. Era stato per molti anni fonditore di campane, più tardi si era dedicato alla liuteria, arricchendo col proprio lavoro gli avidi mercanti. Mi parlava egli stesso di un violoncello che, ceduto da lui pochi anni prima per poche centinaia di lire a un negoziante di Modena, era stato venduto allora per sedicimila lire a un concertista bolognese. E avendogli io chiesto se possedesse qualche segreto di vernici o di altro per i suoi violini, il buon vecchio prese un legno che recava ancora i segni della raspa, e, accostatoselo all’orecchio, lo andava percotendo leggermente con le nocche qua e là «Ecco, rispose, il mio segreto. Bisogna saper sentire come vibra. Io cerco di far della voce».

«Far della voce». Credo che questo fosse in realtà il grande segreto che dallo Stradivari aveva imparato anche il Fiorini, giovandosene con le facoltà affinate e con l’intuito di un intelletto superiore. «Capì – scrive Illemo Camelli – che i violini di Stradivari sono i migliori proprio perché non ve ne sono due di identici, perché sono disuguali fra di loro anche nel criterio pratico di fabbricazione. E le sue ricerche lo indussero a un metodo costante, poi riconosciuto per valido anche dai più celebrati tecnici. Ogni legno e ogni parte di legno ha una densità diversa e le vibrazioni corrispondono al grado di densità, cosicchè non è possibile stabilire uno schema prefisso di lavorazione, come fin qui dai più si è fatto, ma bisogna subordinare la lavorazione del tutto e delle singole parti al numero delle vibrazioni volute, le quali però possono essere fissate matematicamente secondo la nota fondamentale… Ed ecco allora la visione plastica del vero liutaio: fissate le linee generali del suo strumento, avvicina le tavole all’orecchio educato e sensibilissimo, e percuotendole saggiamente col dito ne rileva le rispondenze ed i bisogni in rapporto alla vibrazione centrale, modificando poi con la sgorbia le grossezze o allentando o irrigidendo questa o quella parte, secondo le esigenze che deve comprendere sempre in corrispondenza al numero delle vibrazioni fissate».

E il suo miglior discepolo, Ansaldo Poggi, bolognese, che qui in Bologna vive e lavora, ci riferisce che le sue conversazioni col Maestro eran sempre dense d’insegnamenti su istrumenti nuovi ed antichi, riparazioni, vernici, scelta del legno, e sui liutai antichi e moderni d’ogni paese. Altri diceva: l’instrumento si forma col tempo; ma Fiorini ribatteva: «L’instrumento nasce buono e perfetto». Riprendeva, in altro tempo, per altra materia, e per altra arte, l’alto concetto di Michelangelo: Non ha l’ottimo artista alcun concetto / Che un marmo solo in sé non circonchiuda… Scoppiata la guerra europea, Giuseppe Fiorini dovette passare in Isvizzera; più tardi, nel 1923, venne a dimorare a Roma, con l’intento di aprire una scuola di liuteria. Ma già nel 1920 egli aveva compiuto il gesto più generoso della sua vita, destinato a perpetuarne il ricordo, dopo la fama venutagli dai suoi istrumenti famosi. 

Nel 1775 il conte Cozio Salabue acquistò da Paolo, figlio dello Stradivari, e, più tardi, dal nipote, anch’esso di nome Antonio, i cimelii del sommo maestro. Ora, quando nel 1920 la marchesa Paola della Valle del Panaro di Torino, erede dei Salabue, si mostrò disposta a metterli in vendita, il Fiorini, che più volte aveva sognato di possederli, si diede all’opera con prontezza e con ardore, e riuscì ad averlo per centomila lire, battendo la concorrenza dell’allora ambasciatore di Francia, Barrére, e riuscendo così ad assicurare all’Italia un tesoro d’arte che altrimenti sarebbe emigrato in paese straniero. Da notare, che il Fiorini non possedeva l’intiera somma, e che, corrisposto un acconto di ventimila lire, dovette indebitarsi per pagare il resto. E quando qualcuno gli offerse una somma molte volte maggiore, egli rifiutò recisamente, pago di quello che era il suo tesoro più prezioso e di cui, se mai, avrebbe generosamente fatto dono alla città da cui un giorno quei cimelii erano partiti. E infatti, nel 1930, quattro anni prima di morire, egli fece donazione al Museo di Cremona dell’intiera sua preziosissima raccolta, con l’obbligo ch’essa fosse pubblicamente esposta, affinchè ne avessero largo vantaggio l’arte e gli artisti. Una malattia d’occhi lo aveva reso quasi cieco, e l’aveva costretto a rinunciare all’arte sua e al disegno, tanto accarezzato, di una scuola. Tornò a Monaco, dove sperava di essere guarito con applicazioni elettriche. Ma, colpito nella primavera del 1933 da congestione, si spense placidamente nel gennaio dell’anno dopo, e volle esser sepolto a Venezia, accanto alla tomba della madre.

Nello stesso anno in cui Cremona si prepara a celebrare la gloria del suo Stradivari, è giusto che Bologna e Bazzano si ricordino di un loro figlio che, oltre al resto, seppe tener alto il nome italiano in terra straniera. E il giovane e attivo podestà di Bazzano, il dott. Giuseppe Minelli, ha bene operato, disponendo che nella loro piccola terra siano rese al Fiorini e al padre suo onoranze solenni. Il liutaio è generalmente considerato come un artigiano; ma quando oltrepassa certi onesti limiti del mestiere, quando esce, per così dire, dai limiti dell’ordinaria amministrazione, egli diventa un artista, e si fa collaboratore prezioso così dei grandi musicisti come dei più celebri esecutori. Nato a Bazzano, Giuseppe Fiorini è una vera e autentica gloria di Bologna e della liuteria italiana. Le onoranze che i suoi cittadini gli rendono, non potevano essere giuste e più meritate.

Giuseppe Lipparini

Testo tratto da 'In Margine al Centenario de lo Stradivari - Un Grande Liutaio della provincia di Bologna: Giuseppe Fiorini' ne la rivista 'Il Comune di Bologna', gennaio 1937. Trascrizione a cura di Tonina Alessia Basso.

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