Feste e carnasciali nella Bologna settecentesca

Feste e carnasciali nella Bologna settecentesca

1700 | 1800

Scheda

Le feste popolari bolognesi classiche erano due, oltre la corsa annuale dei cavalli a briglia sciolta. La prima prendeva nome di “festa della porchetta” e cadeva il 24 agosto; la seconda “della vecchia” a mezza quaresima.

Sulle soglie del palazzo legatizio venivano poste fontanelle di vino e poi, adunato il popolo, si gettava dalla finestre del palazzo una porchetta. Quale parapiglia succedesse tra i contendenti è facile immaginarselo se si considera che tanto era lo splendore dei nobili quanto la miseria del popolo, il quale viveva per la maggior parte in una squallida indigenza resa ancor più desolante dalle carestie e dai debiti considerevoli che la città aveva verso Roma. I veri affamati non mancavano, ed è facile supporre con quanta energia di spinte, graffi e pugni gli uni si gettassero sugli altri per strapparsi un pezzo della preda resa immonda dall’aspro contendersi. Il Cardinale e la nobiltà, da l’alto delle logge, godevano a questo spettacolo e gettavano manciate di denaro. Al pomeriggio, in un palco eretto nella Piazza Grande, il Legato del Pontefice insieme agli Anziani, i Senatori, ed il seguito assisteva ad un pubblico spettacolo. Spettacolo popolarissimo, d’una coreografia primitiva. Talvolta invece della rappresentazione vi era un corteo con spunto satirico come avvenne nella allegoria “Il tempio di Giano” avvenuta nel 1708. Erano cinque maestosi elefanti con drappi a colori vivaci. Sul primo l’imperatore Augusto coronato d’alloro, circondato da musici…, strillava a squarciagola. Veniva poi il seguito non meno canoro. Due anni dopo, ci narrano le cronache, vi fu invece la coreografia “Le gare di Cerere e di Bacco” ove le due deità apparivano su trionfali carri e con belligero seguito. Innanzi al palco del Cardinale vi fu il torneo. Ed erano guerrieri che invece di elmi avevano in testa panieri e pentole e al posto di lance e spade, rastelli e scope. Terminata la rappresentazione o la sfilata allegorica, al volgere del tramonto, il Cardinale ed il seguito salivano in palazzo. Alla plebe avvinazzata si gettavano dall’alto tre piccioni con le ali mozze; seguiva al rito dei piccioni ogni genere di cacciagione, ed è facile immaginare lo scempio dei poveri volatili ai quali erano state, in precedenza, tarpate le ali.

La festa chiamata della “Vecchia” riusciva meno brutale. In questa non appariva la persona dell’Apostolico Legato, e non v’era scempio di innocenti pennuti. Il popolo si recava in corteo e con torcie sul Canale del Reno. La festa veniva chiamata della “sega” perché il fantoccio della vecchia veniva gettato nel punto di maggiore pendenza idraulica. La fantasia del popolo si sbizzarriva nel contorno, in quanto con beffe, mimiche e buffissime scene di desolazione cercava di consolare il fantoccio che andava …a morte. La corsa dei cavalli a briglia sciolta prendeva anche il nome di Palio e si correva lungo quel tratto che dalla porta S. Stefano giunge al Palazzo della Mercanzia. I portici si affollavano di pubblico e gli Anziani presenziavano da un apposito palchetto. La tradizione voleva che il vincitore ricevesse in premio dodici braccia di velluto cremisi. Si avevano feste pubbliche con giostre alla quintana, si celebravano a Carnevale nella attuale piazza Vittorio Emanuele (ora Piazza Maggiore ndr.). La piazza veniva circondata da impalcature tappezzate di velluto cremisi e assumeva l’aspetto di un teatro all’aperto. Ma queste feste d’armi, fiorentissime nel seicento, declinano nel settecento. I cavalieri entravano in campo con staffieri al morso; tutto a l’intorno i lacchè in ricche livree aumentavano il fascino della coreografia. C’era l’Araldo come ai tempi d’oro della cavalleria, che blasonava gli scudi dei cavalieri con voce alta e squillante, c’erano gli stocchi, le lance al sole ed il nitrire dei focosi destrieri. Ma c’era anche non visibile, l’Arcadia con le Amarilli, le Cloe e le Filli, gli ucellini, i ruscelletti, visibili nei palchi, le gote miele e cinabro della dama servita e l’agitare a mò di saluto del fazzolettino prezioso di pizzo a tombolo. L’ereditaria baldanza dei cavalieri è diluita nella semplice esteriorità della forma; essi alle orgogliose vittorie di armi degli avi loro cominciano a preferire quelle d’alcova.

Il Carnevale si iniziava ufficialmente ai primi di gennaio. Ed il Legato promulgava una ordinanza con la quale si permetteva l’uso della maschera. Allora gli otto senatori, Consoli, chiamati anche Anziani, salivano su i loro cocchi. Bene incipriati, rosei ed allegri si mettevano la maschera e con il seguito numeroso e pomposo percorrevano la città. E non bisogna meravigliarsi che fossero proprio i Consoli della repubblica a dare il via ai carnasciali. A quei tempi questo rito era considerato molto solenne e l’incarico veniva dato ai primi Magistrati civili. Ai severi senatori non disdiceva, poi, prendere parte attiva alle feste del Carnevale, pubblicamente; si mascheravano e con carri trionfali davano vita alle più fantasiose coereografie mitiche. La aristocrazia repubblicana di Bologna amava essere molto democratica. Basta confrontare col diverso rito della non lontana repubblica Veneta. Il Carnevale aveva inizio il giorno dell’Epifania ed era aperto ufficialmente dal Valletto più umile del Senato. Questi doveva camuffarsi grottescamente e recarsi con alte grida in piazza San Marco; saliva quindi su di una pietra destinata ai leggitori di bandi e annunziava l’autorizzazione, (per tutti), alla maschera. E la baldoria aveva inizio per aristocratici e plebei, dame e popolane. Sulla via degli Schiavoni si aprivano i teatri di burattini, baracche di acrobati, urlavano ciarlatani e cavadenti. Sulle piazze giostre, corride, giochi di forza. Arlecchini e Colombine, Contesse e “massère” giravano per calli e ritrovi in allegre brigate sotto l’incognito della bautta, foggiando abiti e pizzi di grande o modesto valore a seconda delle possibilità.

Ma ritorniamo a Bologna. Narrano i cronisti del tempo come il Conte Filippo Aldrovandi fosse un vero manico per gli sfoggi carnevalizi. Amava, in tali occasioni, apparire in tutto il fasto della sua possanza. Non da meno vollero essere i senatori Gozzadini, Spada e Zambeccari, che vollero creare una allegoria quanto mai ricca e fantasiosa delle quattro stagioni dell’anno e delle quattro età del mondo. Descriviamo uno di questi cortei carnevaleschi ed allegorici; tra le tante descrizioni di questo o quel corteo ecco quello organizzato da diversi nobili nel carnevale del 1701. Apparvero su un magnifico carro dame e gentiluomini. Il tempo guidava i quattro cavallo del carro. Su altrettanti carri seguiva l’allegoria delle quattro età del mondo, l’età del ferro, del bronzo, dell’argento e dell’oro. Seguivano maschere parodianti il gioco del lotto, altre le caccie dei soldati africani. Un sesto carro simboleggiava “Felsina guerriera e trionfale”. Un settimo il “trionfo dei Bolognesi per la prigionia di Re Enzo”. I carri passavano lenti, solenni e applauditi; il popolo faceva ala lungo le vie e per le piazze e riceveva danaro e regalie. Negli atri dei palazzi patrizi si distribuivano pane, vino, farina. Il ceto eletto, ed il sesso gentile in particolar modo, attendeva con impazienza il grande ricevimento del Cardinale Legato. Questo avveniva negli ultimi tre giorni del carnevale. Il Cardinale amava fare, in omaggio alla tradizione, le cose con abbondanza e fasto, ordinava senza economie pistacchi e cannella a Genova, agrumi e fiori a Firenze, e poi sorbetti, vini, acque odorose un poco dappertutto. Nel grande salone della legazione veniva disposta una grande tavola centrale, altri tavoli erano agli angoli. Su i candidi lini in coppe d’argento, confetture prelibate e dolci raffiguranti paesaggi e scene mitologiche. A fianco delle tavole erano pronti appositi cavalieri per ricevere ed offrire alle dame appena fossero entrate. Queste si intrattenevano nelle antisale dell’appartamento cardinalizio sino a che il Legato in persona non fosse venuto a salutarle. Qualche Legato più generoso, più galante non si accontentava degli ultimi tre giorni del carnevale per offrire lauti rinfreschi alle amabili gentildonne. Il Cardinale Casoni offre, ad esempio, tre rinfreschi in tre mattine consecutive e le signore per contraccambiare tanta cordiale ospitalità lasciano annotare ad un cronista “senza discrezione riempirono oltre i fazzoletti e le saccoccie ancora”. Quali capaci saccoccie ospitassero poi le mongolfiere e le crinoline non occorre dirlo.

I poeti non mancano di trovar estro. Più delle penna mettono al lavoro la lingua. La quaresima porta penitenza delle belle peccatrici un diluvio di poesie e satire dei facili e linguacciuti rimatori. Un certo Abate Frugoni per questo suo vezzo di poeta maldicente passa alla storia. Egli compone una canzone su tutte le donne di Bologna. Di ogni erba fa un fascio: dalla Contessa Pepoli va all’ultima popolana e per tutte ha un verso galeotto ed una rima assassina. Una Marsigli ha occhi languidetti per un Albergati? Il linguacciuto abate prende appunto, ponza il verso e la rima. In amor passa perigli / E con modi belli e ingrati / Sol abbada a l’Albergati. Con la moglie del senatore Ariosti è ancora più crudele. Porto a Voi quell’Ariosta / Che in amor va per la posta / E con modi più sinceri / Pela Monti e Sampieri. / Non risparmio la rima e la stoccata ad una Contessa Bentivoglio. / Pur vi porto la Camilla / Che negli occhi suoi sfavilla / Benchè vecchia, imbellettata / Vuol d’amanti una brigata. Porta qua e porta là, un bel giorno sul groppone dello stizzoso abate furono applicate un sacco di legnate; un poeta rivale “portò” infine lui e scrisse: Porto alfine quel Frugone / ….e gran briccone / Che fu frate e poi abate / Per aver la libertate / Di mostrarsi più insolente / In dir male d’ogni gente / Come appar dalla lezione / Ch’ebbe alfine sul groppone.

Altri tempi, altri costumi. Versi e pettegolezzi che oggi non sarebbero ospitati dal più modesto foglietto umoristico di provincia, passano manoscritti, si moltiplicano, girano di casa in casa, da circolo a circolo, e formano l’argomento di intere conversazioni. (BELL., trascrizione a cura di Lorena Barchetti).

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