Fermo Franchi, superstite dell’eccidio

Scheda

Il 22 luglio 1944 io ero nella mia casa di Fagiolo di Malfolle coi miei familiari, che erano coloni. Ero a casa dall’8 settembre 1943 dopo la fuga dai soldati a Udine: stavo nascosto perché non volevo andare nell’esercito fascista. Lavoravo nei campi ma cercavo di non farmi mai vedere nel paese e nelle strade. Quella sera sentimmo dire dagli sfollati di Pioppe, che venivano a dormire da noi, che i tedeschi forse avrebbero fatto un rastrellamento; avevamo fatto una grande figna di grano e anche il carro era pieno, da scaricare. Su quel fondo eravamo in cinque fratelli, mio padre e anche un bambino di 18 mesi, Gino, figlio di mio fratello Medardo che aveva con sé anche la moglie, l’unica donna che era con noi. La sera prima del massacro di Fagiolo, mio fratello mi disse che c’era del pericolo di rastrellamento. Siccome non avevo alcun documento andai nel bosco dove dormii da solo. La mattina, mio fratello, che era nella casa, mi avvertì fischiando, che non c’era pericolo e che potevo tornare a casa. Cominciai a scendere e poi incontrai i tedeschi per strada. Mi presero, mi misero insieme agli altri e ci radunarono tutti nella nostra casa. Quando arrivai ce n’erano circa una ventina, compresi gli sfollati e la vecchia madre di Amedeo Nerozzi, primo sindaco di Marzabotto, morto combattendo in Spagna: aveva 93 anni. Noi eravamo in una decina e così tutti insieme dovevamo essere circa una trentina. Ci misero tutti sotto il portico dove sono gli attrezzi: c’erano anche dei bambini, fra cui la mia nipotina Maria, che era tutta nuda perché era appena scesa dal letto. I tedeschi erano circa sette, e fra essi vi erano due soldati che parlavano proprio come noi, sebbene avessero la divisa tedesca. Dal dialetto mi sembrarono due bolognesi e ricordo che dissero: “Voi siete tutti badogliani e non siete da perdonare”. I tedeschi dissero: “tutti kaputt!” e piazzarono una mitragliatrice davanti alla casa e poi misero altri due soldati col mitra. La scena era terribile: i bimbi ci saltarono al collo dicendo che ci avrebbero ammazzati e le donne urlavano. I tedeschi entrarono in casa: presero del vino, delle uova, del prosciutto, anche dei soldi e persino la collana della mia povera mamma. Poi vennero da noi e cominciarono a buttarci le uova in faccia e frattanto ridevano tutti insieme come fosse una gran festa. Fra noi c’era un muto che non capiva niente e cominciò addirittura a dormicchiare e noi un po’ lo invidiavamo. Poi i tedeschi presero i bambini e anche mio padre e anche delle donne e li mandarono a Bologna. Restammo sul posto solo noi uomini e fra questi io e mio fratello Medardo eravamo i più giovani. Noi cominciammo a capire che era arrivato l’ultimo momento. I tedeschi ci interrogarono e poi ci fecero mettere tutti contro il muro per la fucilazione: eravamo in tredici uomini. Inizialmente pensavamo che ci avrebbero impiccati, come avevano fatto pochi giorni prima a La Quercia, dove avevano impiccato dei giovani e li avevano lasciati esposti per più giorni. Infatti i tedeschi avevano in mano delle corde. Ma il maresciallo decise invece di fucilarci. Io e mio fratello volevamo tentare di saltargli addosso, poi scappare. Quando fummo contro il muro io presi due fucilate di striscio: una all’orecchio sinistro e una nella spalla sinistra. Allora mio fratello ed io facemmo un grande salto e riuscimmo a buttarci nel bosco. I tedeschi ci spararono dietro con tutte le armi, ma non ci presero. Sentimmo gli italiani vestiti da tedeschi che ci cercavano seguendo le orme nel fosso, ma non ci videro. Io mi buttati in mezzo a un campo di granoturco e poi a correre come un matto, sempre con la bocca aperta e quando mi fermai mi accorsi che non riuscivo più a chiuderla: trovai una pera e così inumidii la bocca e rinvenni. Poi rimasi nel bosco fitto fino a sera e mio fratello lo vidi la sera dopo. Dal posto dov’ero vidi la casa e la fucilazione. Poi la casa fu bruciata insieme ad altre. Si vedevano salire le fiamme e le bestie scappavano. Poi sentimmo, per due ore, le mitragliate e gli urli dei poveretti che erano stati fucilati. In complesso i morti furono undici. Restai alla macchia fino alla fine della guerra e mi ricordo che, dall’alto a Sanguineta, vidi il massacro della botte di Pioppe di Salvaro. Vivevo dentro a una tana con altri sette giovani, fra cui alcuni partigiani. Vedemmo i tedeschi salire verso di noi dopo il massacro di Pioppe. Riuscimmo a buttarci nel fondo della macchia e così non ci videro. Noi vedemmo passare dei rastrellati e fra essi un giovane ferito che poi uccisero nella sua casa. Poi vedemmo anche una scena orribile e cioè una scrofa coi maialini che mangiavano il cadavere di un giovane fucilato e abbandonato nei campi: le bestie lo stavano mangiando quando arrivarono due vecchi che videro la scena, allontanarono la bestia e seppellirono il poveretto. Il terrore era tanto grande che non posso dimenticare che un merlo venne fra l’erba, come fosse uno di noi, fianco a fianco, come per proteggersi.

Luciano Bergonzini, "La Resistenza a Bologna. Testimonianze e documenti", vol. V, Istituto per la Storia di Bologna, Bologna, 1980
[RB5]
Note
1
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