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Paolo Fabbri detto/a Palita

27 luglio 1889 - 14 febbraio 1945

Scheda

Paolo Fabbri, «Palita», da Carlo e Maria Gandolfi; nato il 27 luglio 1889 a Conselice (RA). Nel 1943 residente a Bologna. Mezzadro e commerciante. 
Iscritto al PSI, al PSUI e al MUP. 
Da umile capolega contadino di Conselice divenne una delle figure più nobili e importanti del socialismo italiano e della Resistenza.
Primo di dieci figli di una famiglia di mezzadri, si iscrisse giovanissimo al PSI. Lasciata la terra — insufficiente per una famiglia così numerosa — divenne attivista sindacale, poi capolega e infine dirigente della Federterra e delle organizzazioni cooperative di Ravenna, sotto la sapiente guida di Gaetano Zirardini.
Nell'ottobre 1914 — dopo l'eccidio di Guarda — fu inviato a Molinella dove assunse la carica di segretario della CdL. Il compito affidatogli era difficilissimo e molto delicato perché era in atto una durissima reazione governativa e agraria che mirava a distruggere le organizzazioni sindacali e cooperative di quel comune. Lui avrebbe dovuto tenere unito e combattivo il movimento operaio e difendere le realizzazioni e le conquiste fatte.
Ma avrebbe dovuto fare tutto da solo perché era stato decapitato l'intero gruppo dirigente del PSI e delle leghe. Giuseppe Massarenti era sfuggito all'arresto, ma si trovava rifugiato nella Repubblica di San Marino, mentre Giuseppe Bentivogli e oltre duecento tra capilega e attivisti erano in carcere. In quello stesso periodo, la segreteria della CdL della vicina Budrio era stata affidata a Luigi Fabbri, un altro capolega proveniente da Conselice. Iniziò con grande energia e capacità l'opera che gli era stata affidata, dimostrando subito le sue non comuni doti di uomo politico e di organizzatore, ma fu presto chiamato alle armi e inviato al fronte.
Tornò a Molinella nel 1919, con Massarenti e Bentivogli.
I lavoratori di Molinella — le cui organizzazioni non erano state sconfitte dalla reazione anticontadina del 1914 — nel giugno 1919 ripresero la vertenza nel punto esatto in cui era stata interrotta dall'eccidio di Guarda. Dopo 29 giorni di sciopero, sotto la guida di Fabbri e Bentivogli, videro soddisfatte tutte le richieste avanzate cinque anni prima. Quello sciopero fu la prova generale di quello che nel 1920 si tenne su scala provinciale e che vide braccianti e mezzadri uniti battersi contro gli agrari. Fautore da sempre dell'unità tra le due categorie, anche perché era un ex mezzadro, fece parte con Bentivogli, Luigi Fabbri, Mario Piazza, Renato Tega e Giovanni Goldoni del comitato che condusse quella lotta alla vittoria, con la conquista del concordato Paglia Calda. In quegli anni ricopri anche numerosi incarichi politici. Fu consigliere comunale di Conselice; presidente dell'Opera pia Valeriani di Molinella e nel 1920 consigliere provinciale di Bologna.
Il 3 giugno 1921, quando era segretario della CdL di Molinella, venne arrestato per la sua opera di sindacalista. Nel 1922 lasciò il PSI per aderire al PSUI. Divenuto, con Bentivogli, uno dei dirigenti del movimento operaio di Molinella, — dopo che i fascisti, il 12 giugno 1921, avevano dato il bando a Massarenti — fu duramente perseguitato. Nel 1923 dovette rifugiarsi a Bologna e rendersi irreperibile per vario tempo perché colpito da mandato di cattura per «concorso in appropriazione indebita e delitti contro i poteri dello stato», commessi durante la lotta agraria. Nello stesso anno fu schedato. Il 2 novembre 1924 fu arrestato con altri lavoratori, mentre erano riuniti nella sede della CCdL.
Nell'ottobre 1926 la sua famiglia — analogamente a quanto accadeva ad altre decine di famiglie socialiste — fu sradicata da Molinella e costretta ad emigrare.
Il 16 novembre 1926, con la definita affermazione del regime fascista, fu assegnato al confino per 3 anni per «attività comunista», accusa ridicola perché era uno dei più noti dirigenti del socialismo bolognese. Arrestato il 4 maggio 1927, fu inviato a Lipari (ME). Nell'agosto venne raggiunto nell'isola dalla moglie Luigia Rossi e dal figlio Nevio di 13 anni.
Il 28 luglio 1929 fu arrestato per avere collaborato alla leggendaria fuga da Lipari, in motoscafo, di Emilio Lussu, Fausto Nitti e Carlo Rosselli. Avrebbe potuto fuggire anche lui, ma preferì restare per favorire l'evasione dei compagni. Dal tribunale di Messina fu condannato a 3 anni, 4 mesi e 20.000 lire di multa. Dopo aver scontato la pena nelle carceri di Saluzzo (CN) e Castelfranco Emilia (MO), tornò al confino, a Ponza (LT) dovendo fare ancora otto mesi.
Rientrato a Bologna il 3 settembre 1933, riprese il lavoro politico per riorganizzare la resistenza al fascismo. La cosa fu subito rilevata dalla polizia che, in un rapporto del 1934, scrisse che lui «ed altri sovversivi di altre città svolgerebbero attività sovversiva». In effetti con Domenico Viotto — un socialista di Milano conosciuto al confino — aveva aperto in via Rialto 44 un'azienda di detersivi, la Chimico Galvanica. Inoltre nella sua azienda aveva assunto come dipendenti numerosi socialisti cacciati da Molinella e rifugiatisi a Bologna. In seguito l'azienda fu trasferita in via de' Poeti 5, in un locale sotterraneo — «il fondone» — dove un tempo aveva sede la tipografia de «il Resto del Carlino». Da allora «il fondone» divenne uno dei principali luoghi degli incontri cospirativi dei socialisti bolognesi. Un altro, non meno importante, era il negozio di calce e gesso di Alberto Trebbi, in vicolo Broglio. Il 22 aprile 1938, in occasione della visita di Hitler in Italia, fu arrestato e trattenuto in carcere fino al 10 maggio.
Nel 1942 — in accordo con Viotto e Lelio Basso — con Fernando Baroncini e Tega costituì il MUP, il gruppo che raccoglieva gli ex socialisti riformisti turatiani. Altri dirigenti erano Gianguido Borghese, Bentivogli, Alfredo Calzolari ed Enrico Bassi. Nel settembre 1942 rappresentò il MUP nella riunione promossa da PSI e PCI per costituire il Comitato unitario d'azione antifascista, il primo nucleo unitario dell'antifascismo bolognese che sarà ribattezzato poi in Fronte ed infine in CLN.
Arrestato nella primavera del 1943, riebbe la libertà dopo la caduta del fascismo e fu tra i promotori della riunione che si tenne ai primi di agosto nello studio di Roberto Vighi, per l'unificazione del PSI e MUP.
Il 28 agosto 1943 intervenne alla riunione di Roma nel corso della quale si ebbe la riunificazione nazionale e la nascita del PSUP. Al ritorno fu nominato vice segretario della federazione bolognese del partito, con Bentivogli, mentre Baroncini ne divenne il segretario.

Con l'inizio della Resistenza si mostrò uno dei più tenaci sostenitori della necessità di combattere il nazifascismo e fu sempre contrario alle posizioni attendiste che affioravano nel partito. Coerentemente con la sua idea, trasformò «il fondone» in una munita base partigiana oltre che nel luogo d'incontro di tutti i collegamenti socialisti della provincia e della regione. Fu uno dei principali organizzatori delle tre brigate Matteotti — una di città, una di pianura e la terza di montagna, — senza tralasciare il lavoro di partito.
Nella tarda primavera del 1944, quando Baroncini divenne commissario politico della brigata Toni Matteotti Montagna, assunse la segreteria provinciale del partito. Fu lui, quindi — anche se il partito era praticamente diretto da un quadrumvirato: Borghese, Verenin Grazia, Bentivogli e Fabbri — ad avere sulle spalle la massima responsabilità nella primavera-estate 1944, quando il partito operò lo sforzo più generoso e consistente per indirizzare tutte le forze popolari verso la lotta di liberazione. Nei duri mesi della Resistenza, l'ex capolega contadino dimostrò di essere divenuto un grande dirigente politico e militare. Alla modesta base culturale — non era andato oltre la quinta elementare — sopperiva con una grande umanità e generosità. Parlava non bene l'italiano, ma del dialetto e della lingua parlata dai contadini, che era un misto di lingua e di dialetto, faceva un uso efficacissimo. Non arretrò mai davanti alle responsabilità, sia politiche che morali, e fu sempre d'esempio ai suoi compagni. E di esempi ne diede parecchi.
Il 15 luglio 1944 salì sull'Appennino e raggiunse la brigata Toni Matteotti Montagna nei pressi del Corno alle Scale, per risolvere una grave crisi politico-militare. Altri avrebbero mandato la solita staffetta. Lui preferì andare di persona lungo i sentieri di montagna, anche se aveva 56 anni. Una notevole prova di fermezza e di lungimiranza la diede il 22 settembre 1944 quando il PCI bolognese, senza interpellare il CLN, decise di proclamare l'insurrezione della città per il 25. Gli alleati erano alle porte di Bologna e pareva che dovessero arrivare da un momento all'altro. La decisione insurrezionale — a parte il fatto che un simile ordine poteva darlo solo il CLN — poteva sembrare quindi giustificata. Lui e Grazia, dopo aver informato il presidente del CLN, intervennero presso i dirigenti del PCI e ottennero la revoca della decisione. Alcuni giorni dopo, tutti i rappresentanti dei partiti riconfermarono che solo il CLN poteva proclamare l'insurrezione. Senza quell'intervento, — gli alleati arrivarono a Bologna nell'aprile 1945 — l'insurrezione si sarebbe trasformata in un disastro.
Fu in una terza occasione che diede prova del suo senso del dovere oltre che della sua umanità e della sua fede politica. Alla fine del 1944, dopo che il fronte si era fermato alle porte di Bologna e i nazifascisti avevano scatenato una dura reazione antipartigiana, il partito socialista decise di inviare una commissione al sud, per prendere contatto con la direzione del PSIUP, con il governo italiano e il comando alleato e decidere la strategia della guerra. Si offri volontario e il partito gli affiancò il tenente colonnello Mario Guermani, vice comandante della piazza militare di Bologna.
Il 17 dicembre 1944 — dopo aver lasciato la segreteria del partito a Bentivogli — lasciarono la città e dopo avere attraversato l'Appennino innevato e ricoperto da campi minati, raggiunsero Porretta Terme dove si incontrarono con i partigiani della brigata Toni Matteotti Montagna. I due si recarono a Roma e conferirono con il governo, con il comando alleato e con i dirigenti del partito. Dopo essere intervenuti a Napoli al congresso della rinata CGIL, ritornarono a Porretta Terme il 12 gennaio 1945 dove furono costretti a sostare sino alla metà di febbraio, a causa delle intense nevicate. Si rimisero in viaggio nel pomeriggio del 14 febbraio 1945, dicendo che avrebbero tentato di attraversare le linee in località Bombiana (Gaggio Montano). Li guidava un elemento locale, Adelmo Degli Esposti. Prima di sera, la guida rientrò da sola nelle linee alleate. Ai partigiani della brigata Toni Matteotti Montagna disse che durante l'attraversamento di un bosco — del quale non sapeva indicare la località esatta — aveva sentito degli spari. Spaventatosi, era tornato indietro, senza preoccuparsi dei due compagni di viaggio. Tutti i matteottini si offrirono volontari per attraversare le linee e ricercarli. Quando le pattuglie erano pronte per l'uscita, il comando brasiliano — nella cui giurisdizione si trovava il tratto di fronte tenuto dalla Matteotti — vietò la missione. Dei due non si seppe più nulla e attorno alla loro fine si intrecciarono molte versioni. Una cosa, comunque, è certa: i cinque milioni che avrebbero dovuto portare a Bologna — da versare nelle casse del CLN — all'ultimo momento erano stati lasciati al comando della Matteotti. Fabbri, in tasca, aveva solo un grosso assegno, come fu constatato il giorno in cui furono ritrovati i suoi resti mortali, accanto a quelli di Guermani. Ciò avvenne nell'aprile 1946, ad Abetaia di Bombiana (Gaggio Montano), dopo lunghe e amorevoli ricerche condotte personalmente dal figlio Nevio. Dall'autopsia risultò che erano stati colpiti entrambi da numerose schegge, anche se non fu possibile accertare il tipo di proiettile, mina o bomba a mano.
Alla sua memoria è stata conferita la medaglia d'oro.
Riconosciuto partigiano, nella brigata Matteotti Città dal 9 settembre 1943 alla Liberazione.
Il suo nome è stato dato ad una strada di Bologna, a una di Molinella e a una di Gaggio Montano e a una sezione del PSI. [O]

E' ricordato nel Sacrario di Piazza Nettuno.