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Ernesto Rosa

Schede

Abitavo, a Casa Albergane di Quercia. È l'ultima casa del comune di Marzabotto, al confine di Vado. Sul versante del Setta, fu la prima ad essere investita dal rastrellamento.
Mia madre di 64 anni, mio fratello, mia cognata e quattro nipoti di 11, 9, 7, 5 anni furono i primi a subire il massacro all'alba del 29 settembre. Era passata una prima pattuglia ed era sfilata via in silenzio, senza far nulla. La seconda eseguì il massacro.
Io allora mi trovavo prigioniero nel campo di concentramento di Kilsen Kirken. Mi avevano catturato in Albania. Durante la prigionia ricevevo posta da casa, ed ebbi anche tre pacchi. L'ultima lettera portava la data del 3 agosto. Poi, più nulla. Lavoravamo in miniera e non ci davano da mangiare. Pesavo 47 chili. Mi ammalai di pleurite, e l'unica medicina era la miniera. Tornai nell'agosto del 1945.
Forse ognuno di noi aveva fatto l'occhio al panorama di allora, forse la gran voglia di riabbracciare i miei, la fidanzata e mio figlio, forse il pensiero che avrei finalmente mangiato a sazietà e che mi sarei liberato dalla sporcizia e dai pidocchi, m'impedirono di vedere i tanti sintomi che mi si paravano davanti sopra il camioncino che mi riportava a casa.
Alla Quercia, trovai mio cognato Callisto Lorenzini ed altri amici che lavoravano lungo la Direttissima, a poche centinaia di metri da casa mia.
"Dove vai?" mi domandarono.
"Vado a casa".
"A casa tua non c'è più nessuno. Ci sono ancora tuo padre e tuo fratello sfollati a Pontecchio, da Lolli".
"E gli altri?".
"Gli altri tutti morti!".
Così appresi della strage. Caddi svenuto.
Quand'ero andato militare, stavo per sposare Caterina Benassi. Attendeva un bambino. Non l'ho mai visto, perché fu massacrato con la madre. Aveva sei mesi.
Mio padre mi raccontò com'era andata. I nazifascisti fecero uscire tutti sull'aia e li misero in fila contro un argine. Piazzarono una mitragliatrice e li uccisero. Mio padre riuscì a scappare nel bosco. Anche Caterina che era l'ultima della fila, tentò di fuggire col bimbo al collo, e già era riuscita a fare di corsa circa 300 metri. La raggiunsero e la uccisero con una raffica di mitra. I nazisti si misero a rastrellare le vicinanze di casa ed i campi intorno per trovare mio padre ch'era nascosto in una macchia. Più volte gli passarono vicini, tanto vicini che li sentiva parlare. Parlavano anche in dialetto emiliano, erano fascisti vestiti da SS. Sentì molte frasi, ma una l'aveva colpito e la ripeteva sempre: "L'è inotil che stenia que a zercher, què a ivrev di can da liver, par tirei fora!" (È inutile che stiamo qui a cercare, qui ci vorrebbero dei cani da lepre, per tirarli fuori!).

Renato Giorgi, "Marzabotto parla", Milano-Roma, Venezia, Marsilio editori 1991
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Note
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