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Elide Ruggeri, superstite dell’eccidio

Schede

Il 29 settembre 1944, al momento dell’inizio della strage, avevo diciotto anni. Vivevo a Casaglia di Marzabotto con la mia famiglia composta di undici persone e, tutti insieme, si lavorava a mezzadria un fondo di dodici ettari situati nei pressi del centro della frazione. Il più vecchio della mia famiglia aveva cinquantanove anni e il più giovane appena sei. Ci eravamo appena alzati, quella mattina del 29 settembre, erano circa le sei, ma era ancora scuro, a causa della pioggia intensa e della nebbia fitta che si era abbassata nei campi. Tuttavia, ai nostri occhi si presentò un panorama incredibile: tutt’attorno, nella valle del Setta, vedemmo le case in fiamme e altre che si incendiavano man mano che passavano i minuti. Vennero i partigiani della “Stella Rossa”. Da loro apprendemmo dell’inizio della feroce repressione e sapemmo anche che le SS tedesche si stavano dirigendo dalle nostre parti, evidentemente con le stesse intenzioni. I partigiani convinsero gli uomini, giovani o vecchi che fossero, che era inutile attendere o sperare e che non c’era altro da fare che unirsi a loro e riparare in alto, alla macchia, in attesa del da farsi. Poi consigliarono noi donne di riunirci nella chiesa, coi bambini, sotto la protezione del parroco. Capimmo subito che il consiglio dei partigiani era giusto e allora gli uomini si avviarono nel bosco e noi alla chiesa. Io riunii la parte femminile della mia famiglia e, coi bambini, entrai in chiesa. Il parroco, don Ubaldo Marchioni, ci riunì tutti insieme: eravamo circa un centinaio e egli si unì a noi incoraggiandoci e sollevandoci un poco.
Ci sentivamo ora più tranquilli. Di uomini validi non ce n’erano. C’era un prete, coraggioso e buono, a proteggerci: in fondo non eravamo che donne, alcune molto vecchie, e bambini.
Quando, alle nove circa, arrivarono le SS e sfondarono la porta e entrarono nella chiesa, capimmo subito che poteva accadere il peggio. Poi capimmo, dalla disperazione del parroco, quali fossero le intenzioni dei tedeschi. Ci fecero uscire dalla chiesa, formando una colonna, e fummo inviati, con le armi puntate ai fianchi, verso il cimitero della frazione, a duecento metri circa di distanza. Il cimitero era recintato e la porta di ferro era chiusa. La sfondarono coi calci dei fucili e ci fecero entrare tutti nel recinto e noi ci addossammo in mucchio contro la cappella. Poi piazzarono la mitragliatrice all’ingresso e cominciarono a sparare, mirando in basso per colpire i bambini, mentre dall’esterno cominciarono a lanciare su di noi decine di bombe a mano. Durò tre quarti d’ora circa e smisero solo quando finì l’ultimo lamento. I bambini, una cinquantina, erano tutti morti, fra le braccia delle loro madri. Alcuni adulti riuscirono incredibilmente a salvarsi, sepolti sotto i morti. Anch’io, ferita, restai fra i cadaveri e sopra, al mio fianco, c’erano i cadaveri delle mie cugine e quello di mia madre, sventrata; una madre con dieci figli attorno, tutti morti. Con me uscirono vive altre quattro donne, anch’esse ferite e protette dai morti. Restai, così immobile, tutta la notte e tutto il giorno seguente, sotto la pioggia, in un mare di sangue e quasi non respiravo più. All’alba venne mio zio, mi estrasse dal mucchio e mi portò via.
Nella strage di Casaglia erano morti cinque della mia famiglia, poi anche mio padre e mio zio furono fucilati dai tedeschi, uccisi a sangue freddo. Li buttarono in un burrone e si divertirono a sparare dall’alto, mentre i corpi precipitavano. Anche il prete morì: fu fucilato sull’altare della sua chiesa e poi, dopo averlo ucciso, i tedeschi spararono alle immagini sacre, poi incendiarono la chiesa e tutte le case attorno con i lanciafiamme.
[B5]
Note
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