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Duilio Paselli, partigiano della Stella Rossa

Schede

Ero padre di undici figli, nel luglio del 1944, quando dalla casa paterna, il fondo Casoni, situato vicino alla ferrovia e alla strada provinciale, sfollammo a San Martino, luogo che ci sembrava più sicuro. I miei figli Ardilio e Martino erano prigionieri dei tedeschi; il primo a Cefalonia poi in Jugoslavia, il secondo in Germania. Antenore, un altro dei miei figli, reduce dalla Russia, fu rastrellato nella zona partigiana di monte Sole e finì in un lager dell’Ungheria.
La mattina del 29 settembre 1944, quando iniziò a Quercia il rastrellamento tedesco, noi uomini fuggimmo, per paura di essere presi e deportati. I fatti dei giorni precedenti, ci dicevano che i tedeschi andavano in genere alla caccia di uomini validi e fra questi c’erano state delle fucilazioni; ma per le donne e i bambini eravamo tranquilli perché fino allora non li avevano toccati. La prima squadra dei tedeschi che passò non fece nulla, ma il giorno dopo un’altra squadra, con intenzioni ben diverse, prese tutti quelli che poterono, li misero contro la casa del Parroco di San Martino e li fucilarono con le mitraglie; poi bruciarono i corpi con delle fascine imbevute di benzina.
(…) Nel massacro perdetti mia moglie Ester, le mie figlie Fidelina e Malvina, che avevano venti e quindici anni, mio figlio Dante di diciotto anni; le mie nuore Anna Naldi, Elisabetta Salvadori, Anna Ventura, i tre nipotini Claudio, Anna e Franco, rispettivamente di due, tre anni e quaranta giorni. Dopo questa strage della mia famiglia, non mi sono più sentito di amare la Madonna e il Signore. Ho fatto scolpire in una lapide di marmo i raggi del sole con due angioletti che pregano, perché da quel momento il sole (la luce) rappresentano per me l’unica fede. Questa lapide scolpita resterà a ricordo per sempre nella casa paterna di fondo Casoni.

Luciano Bergonzini, "La Resistenza a Bologna. Testimonianze e documenti", vol. V, Istituto per la Storia di Bologna, Bologna, 1980
[RB5]

Il 25 settembre sfollammo da Casa Beguzzi, troppo bassa e vicina al fiume e alla ferrovia, e riparammo a S. Martino, che pareva più sicuro. Il 29 mattina gli uomini scapparono tutti per paura di essere deportati. Infatti tutte le altre volte che i nazifascisti erano venuti in rastrellamento sempre se l’erano presa con gli uomini giovani e validi e li avevano catturati e anche fucilati; mai avevano toccato le donne e i bambini.
Passò una prima squadra di nazisti, il giorno 29, e non fecero nulla, pensammo che anche questa volta ce la saremmo cavata con la paura. Invece il 30 arrivò una seconda squadra: presero tutti quelli che poterono, li misero contro la casa dei contadini del parroco e li falciarono con le mitraglie. Poi li bruciarono con le fascine e con dell’altra roba che avevano con loro. Uno della famiglia dei Lorenzini di S. Martino, che aveva assistito al massacro, mi raccontò in seguito che mentre erano chiusi nella parrocchia, prima di essere massacrati, una mia figlia sposata, col suo bambino al collo, nel vedere uccidere il marito sotto i propri occhi, si scagliò contro i nazifascisti chiamandoli vigliacchi e assassini. Uno delle SS le rispose nel nostro dialetto: essendosi subito accorto che così si era tradito, fece segno agli altri e portarono tutti fuori al massacro, anche mia figlia col bambino in collo.

Renato Giorgi, "Marzabotto parla", Milano-Roma, Venezia, Marsilio editori 1991
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Note
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