





Con l’edera, la vite è attributo di Dioniso. Rami o frutti della vite, spesso portati dalle menadi e dai satiri, sono usati nei baccanali e nei cortei in onore del dio. Nella tradizione giudaico-cristiana molto conosciuta è la scena dell’ubriacatura di Noé (Genesi, 9, 20-28). Nella tradizione cristiana questa pianta è al centro di molte parabole. Inoltre, la vite, e in particolar modo i suoi frutti, è simbolo di Cristo. Nel Vangelo di Giovanni è lo stesso Gesù a dire “Io sono la vite” (Giovanni, 15, 5). La vite è evocazione dell’eucarestia e in particolare del sangue di Cristo rappresentato dal vino. Nell’arte funeraria ottocentesca la vite è spesso associata al grano nel richiamare l’eucarestia e con questa il Cristo e la fede cristiana. In alcuni casi può avere una valore decorativo o essere associata all’agricoltura.
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"Per dire degnamente di questa – che fu detta "la pianta più umana" (Mantegazza) – occorrerebbe quella che il Bourget chiama "fantasia della storia"; perocché la storia della vite è la storia dell'umanità. Senza rinvergare nelle penombre dell'antichità più remota le incerte tracce delle vendemmie – che si colorano di leggende e di riti misteriosi – è indubbio che quella delle uve più mature è la più antica delle feste memorative delle genti. Nelle lontananze tranquille della storia si irradiano di splendori le cerimonie pamilie egizie, le dionisiache greche, le vinali latine (Varrone, Plinio) durante le quali taceva ogni negozio e pubblico e privato, ed era giocondo uscire ai prati e saltare sugli otri, come ci ricorda Virgilio:
Atque inter pocula laeti / Mollibus in pratis unctos salvere per utres.
La vite è la prima pianta coltivata di cui parlano le sacre carte (Genesi – IX, 20); e “tutte e due le sorgenti dell’idea religiosa nell’antichità, la credenza in un’energia superiore e quella in una vita futura, ebbero tra i simboli più rappresentativi il vino”. (Marescalchi).
Curvo sul ferro, tutto grondando di sudore, Noè rompe le dure zolle della prima vigna. Improvvisamente Satana gli appare e gli propone di aiutarlo. Il patriarca accetta l’aiuto, e Satana corre, afferra una pecora, la sgozza, ne innaffia con il sangue le smosse zolle: così chi berrà vino avrà, come la pecora, pensieri benevoli e mansueti. E dopo la pecora, Satana afferra un leone e fa zampillare il sangue dalle viscere squarciate di esso: così chi berrà vino avrà, come il leone, la generosa vigoria nelle vene. E ancora Satana prosegue l’opera sua, e ghermisce un porco, e ne insozza col sangue le zolle: così colui che berrà vino senza temperanza si ravvoltolerà nelle sozzure, come il porco nel brago. (Levi – Leggende talmudiche). In questa leggenda non è però la ipostasi simbolica del vino, nome ardente come fulgore di piropo, e che fa gli uomini benignamente festosi, ma dà loro insieme gli impeti vermigli del sangue e facilmente ne sconvolge le menti e ne scompone gli animi. “In cuor mio deliberai di divezzare la mia carne dal vino, per sfuggire la stoltezza” (Eccl. II.3). Il magistero gnoseologico del simbolo della vite, dell’uva e del vino è tutto plasmato di terso ottimismo: le virtù felici hanno in essi il loro riscontro tropico ed immutabile; e non passò mai nella mente a nessuno – anche di idee spericolate – di ricordare simbolicamente l’azione nefasta, troppo spesso parallelamente decorrente a quella benefica, nel succo fermentato dei grappoli generosi. Così – per quanto piacevolmente si ripeta il logoro proverbio latino: “in vino veritas” - la concrezione della simbolica del vino non fu sempre fondata sulla realtà obiettiva del processo conoscitivo. “La buona pianta” che Dante ricorda in senso anagogico (Par. XXIV, 109), fino dalla infanzia dell’espressione artistica, si disegnò comunemente nelle fantasie come geroglifico di felicità, di giocondità, di letizia, di giubilo, di ilarità, (“Il vino fu creato per l’allegrezza” Eccl. XXXI. 35), di abbondanza, di fertilità; es.: nelle monete di Filippo II macedone; in quelle di Probo il grappolo d’uva è animato dal motto “Temporum felicitas”; la Pomona germanica, Siva, tiene il grappolo d’uva tra le mani. Sulle are fumanti di mistici aromi e del sangue delle vittime si versano anfore e coppe di vino; con il vino si liba agli dei; si propina nelle nascite, nelle nozze, nelle morti, in tutti gli avvenimenti solenni di gaudio e di patto, nelle guerre e nelle paci, nell’auspicio pieno di speranze e nel commiato affettuoso. Le figure dei vendemmiatori – anche vinolenti – circondati da pampini e da grappoli, furono sempre motivo di eleganza nell’arte pittorica e decorativa. Il ditirambo fu argomento di letteratura universale (“L’Italia, Oenotria, la terra del vino, non ha la poesia del vino; come fervida voluttuosa serena l’ebbe la Grecia, come giocondamente borghese la Francia, come fantasticamente cordiale la Germania” Carducci – Il brindisi e Parini).
Ma il simbolo della vite assurge alla massima importanza nel sistematico processo assimilatore e unificatore esercitato dalle religioni, che stabiliscono i rapporti delle entità astratte con le concrete. Per non discorrere del culto dionisiaco, in cui l’indagine moderna volle trovare elementi “che spianano largamente in Grecia la via alla fede nell’immortalità dell’anima” (Religio – ottobre 1920), accenniamo alla elevazione simbolica della vite negli albori del cristianesimo. “La Chiesa e le anime sono sovente paragonate da Dio ne’ libri santi ad una vite” (Martini) (Cfr.: Cantico dei cantici VIII – Isaia XXVII – Ezechiele XV et passim). Cristo dice ai suoi discepoli: “Io sono la vita e voi i tralci” (Giovanni XV. 5); nella recondita gestazione del prodigio, prima di immolarsi nello spasimo dell’olocausto, offre agli apostoli nel vino il proprio sangue (Matteo XXVI. 28 – Marco XIV. 24 – Luca XXII. 20); e da quel momento il vino fu l’alta significazione simbolica del Sangue di Cristo, trasmessa nel più solenne atto del culto alle moltitudini, raccolte nell’adorazione del sacrificio dell’altare. Così, durando le persecuzioni crudeli, ed ai fratelli della nuova religione non essendo dato di materiale la luminosità del concetto sentimentale nelle aperte manifestazioni dell’arte, i pampini, i grappi, i viticci furono – insieme all’agnello, al pesce, alla colomba e al pavone – il motivo pittorico dominante nella oscurità delle catacombe; e poiché i pii lapicidi non potevano lavorare nell’ombra, i cristiani tolsero per sé i tumuli e sarcofagi abbandonati dai pagani, e nei quali lsap’arte spantosa aveva sfoggiato emblemi dionisiaci: (es.: il mausoleo di S. Costanza a Roma del IV secolo; l’arca di S. Apollinare in Classe, e la cattedra del vescovo Massimiano a Ravenna; gli archi del ciborio nel duomo di Cattaro). La vite è poi profusamente trattata nelle applicazioni decorative cristiane allor che dal buio delle mistiche paure prorompono le grandi moli architettoniche – i battisteri e le cattedrali – nel fresco raggiare giovanile dell’arte italica immortale. La vite era l’emblema nazionale degli israeliti. Nelle loro funzioni del sabato e delle altre solennità era obbligatorio l’uso del vino spremuto da ebrei (Speechley). A questa significazione emblematica si riferiscono molti passi della Bibbia (Salmi LXXIX. 9 – Isaia V – Matteo XX e XXI). La prima rivolta ebraica è ricordata da una medaglia con la foglia di vite e il motto “La libertà d’Israele”. Presso gli esseni la vigna era la scuola, e dicevasi grappolo il sapiente. Anche monete dell’Asia Minore, della Beozia, di Agrigento recano simboli bacchici. Il ceppo della vite era impugnato dal capo delle centurie moventi da Roma alle guerre; e mentre per il soldato mercenario domato alle battiture adoperavasi verghe di qualunque legno comune, il privilegiato soldato romano non poteva essere battuto che con legno di vite. Nel blasone la vite significa allegrezza, ricreazione, pubblica unione, amicizia giovevole (Ginanni), e si rappresenta generalmente accolata ad un palo, ad un albero, ad una torre, coi pampini ed i grappoli (Guelfi). Danno, anche gli emblemisti la vite per simbolo di amicizia, di unione, di benevolenza, di amore coniugale o simili; ma ci sembra non corrispondente alla idealità costruttiva del simbolo l’appoggiarsi che fa la vite agli altri sostegni, non di disinteressato impulso, non di spontaneo soccorso, ma tutto di necessità per il solo scopo del proprio sviluppo e della propria conservazione. Non sarebbe, però, giusto nemmeno attribuire alla vite il carico di significare l’egoismo; e in argomento ricordiamo la bella apostrofe del mite poeta vicentino:
Te poverella vite amo, che quando / fiedon le nevi i prossimi arboscelli, / tenera, l’altrui duol commiserando, / sciogli i capelli. / Tu piangi, derelitta, a capo chino, / sulla ventosa balza. In chiuso loco / gaio frattanto il vecchierel vicino / si asside al foco. / Tien colmo un nappo; il tuo licor gli cade / nell’ondeggiar del cubito sul mento; / poscia floridi paschi ed auree biade / sogna contento. (Zanella – Egoismo e carità)."
Testo tratto da: Giovanni Cairo, "Dizionario ragionato dei simboli", Ulrico Hoepli, Milano, 1922 (febbraio 2022). Per approfondire il tema della simbologia funeraria ottocentesca cliccare qui.