Terrecotte bolognesi | dal Settecento al Novecento

Terrecotte bolognesi | dal Settecento al Novecento

1700 | 1900

Scheda

Bologna, città di pianura, ha sempre trovato difficoltà a fornirsi di pietre e marmi per la decorazione degli edifici e la realizzazione di sculture. Le poche pietre locali sono fortemente soggette al degrado in esterno e del tutto inadatte per l'esecuzione di opere scultoree da interno. La possibilità di accedere a prezzi accessibili alle cave di marmo arriva nella seconda metà dell'Ottocento, con la realizzazione di collegamenti stabili verso la Toscana e sopratutto con il completamento della ferrovia Bologna-Pistoia. Gli artisti locali si sono giocoforza rivolti ad altri materiali ampiamente disponibili nel territorio: il gesso e l'argilla. Il primo si presta ampiamente per la decorazione di interni, mentre la seconda, una volta cotta, può svolgere tutti i compiti delle pietre, prestandosi alla decorazione di esterni e interni di edifici, alla realizzazione di sculture piccole, medie e grandi. In questa sede - e nelle tante schede di approfondimento - si analizza la produzione di sculture di piccolo e medio formato, realizzate in terracotta nel periodo di più ampia diffusione, dalla fine del XVII secolo fino all'inizio del XX°.

Bologna diventa nel Seicento la 'Felsina pittrice', una delle capitali europee della pittura, dove nascono artisti che segnano lo sviluppo dell'arte dell'epoca, basti ricordare i Carracci, Guido Reni, il Guercino, Domenichino. Non deve quindi stupire se nella letteratura artistica la scultura locale ha ricevuto sempre meno attenzione rispetto all'arte più nobile del pennello. Nei vari repertori artistico-biografici del Sei e Settecento sono estremamente rare le pagine dedicate agli scultori, per quanto invece le chiese e le residenze ne conservassero in quantità. A partire dal Settecento l'attenzione aumenta, come si può dedurre dal libretto di Alessandro Macchiavelli sull'Origine e progressi in Bologna della Pittura, Scoltura ed Architettura (1735); o le numerose annotazioni di Marcello Oretti dedicate a plasticatori quali Filippo Scandellari. I materiali normalmente usati per la scultura in città non aiutavano a considerare la scultura 'nobile' quanto la pittura. In particolare la produzione di opere in terracotta è documentata con continuità a partire dal Cinquecento – soprattutto in ambito religioso – ed è solo dal Seicento e soprattuto dal Settecento che si cominciano a trovare ampie testimonianze anche nelle collezioni laiche, dove però si dava importanza a quelle eseguite con materiali costosi quali il marmo ed il bronzo e citando raramente quelle in terracotta, spesso solo quando opere di artisti di primo piano. Si può ridurre a due il numero di scultori che in quei due secoli raggiungono la dignità dei pittori: Alessandro Algardi e Giuseppe Maria Mazza. Il primo perché arriva alla fama internazionale dopo il suo trasferimento a Roma, il secondo in quanto chiamato ad eseguire alcune delle poche sculture in marmo di Bologna. Si può considerare la nascita di una scuola locale proprio con Mazza, attraverso la formazione di diversi allievi sia presso la propria bottega sia all'Accademia Clementina, dove era l'unico scultore ad avere la cattedra di insegnamento per la sua materia.

Gran parte delle opere in terracotta sono giunte a noi anonime e senza firme, a causa della pratica di considerare la scultura in arigilla una produzione poco più che artigianale, anche se l'artista si era formato presso l'istituto di via delle Belle Arti. A noi sono così giunti moltissimi nomi di plasticatori di cui non si riesce ad accostargli alcuna opera, soprattutto nell'ambito della produzione di opere decorative e devozionali, cioè la maggioranza. Anche gli artisti di primo piano hanno faticato a firmare le sculture, e solo a partire dalla fine dell'Ottocento possiamo trovarne in maggiore quantità: va quindi sottolineata la pratica di apporre il proprio nome di scultori attivi all'inizio del XIX secolo quali Giovanni Putti o Giovanni Corazza. Anche l'Accademia Clementina – poi Accademia di Belle Arti – ha faticato a dare il giusto rilievo alla scultura. Dal Settecento nascono diversi premi per gli allievi ed anche l'opera eseguita con lo scalpello o la stecca comincia a trovare la sua dignità. Non casualmente i corridoi e le sale dell'istituto di via delle Belle Arti ancora oggi sono ornati da decine di rilievi, prime prove di molti artisti di cui però si perdono le tracce una volta usciti dall'istituto. Alcuni di questi riescono comunque ad accedere ad una carriera prestigiosa o alla possibilità di svolgere l'insegnamento. Giampietro Zanotti è il primo biografo bolognese che dà rilievo agli scultori, soprattutto quando collaborano nelle grandi decorazioni al fianco dei pittori. Ad esempio diverse opere di Giuseppe Maria Mazza sono ispirate da quelle dei pittori, come testimoniano le tante terrecotte dedicate alla rappresentazione del Riposo nella fuga in Egitto, derivate da dipinti di Simone Cantarini. La documentazione su questo artista consente anche di fare luce sul funzionamento della bottega e del ruolo del Mazza quale mediatore tra committenze diverse ed artisti a lui vicini. Per quanto sia, il ruolo del pittore viene sempre considerato superiore: non casualmente si può essere pittori e dedicarsi anche alla plastica; viceversa se si è scultore non ci si dedica all'arte del pennello. Esemplare in tal senso sono Ubaldo Gandolfi ed il figlio Gaetano, protagonisti assoluti della pittura bolognese della seconda metà del Settecento, i quali realizzano grandi sculture come piccole terrecotte. La nascita di una scuola locale consente di dare continuità generazionale: partendo da Mazza si passa ad Angelo Gabriello Piò, da questi a Filippo Scandellari e poi i Tadolini, Giacomo De Maria e Giovanni Putti. Angelo Gabriello Piò prosegue sulla strada tracciata dal maestro, producendo su più livelli qualitativi; dal pezzo unico a quello a stampo poi ritoccato, fino ai multipli eseguiti completamente dalla bottega o da seguaci. Queste botteghe si specializzano sempre più nell'uso di materiali che si adattano per una produzione veloce, economica ed efficace dal punto di vista estetico, utilizzando lo stucco, la terracotta, la cera e la cartapesta. Con Filippo Scandellari si accentua la produzione seriale di immagini sacre nel piccolo come nel grande formato: la pratica dello scultore diventa così del tutto simile a quella del pittore, dove al maestro spetta l'esecuzione dei pezzi più importanti, alla collaborazione con gli allievi la produzione di repliche e altre opere seriali, ai collaboratori e seguaci la diffusione del linguaggio attraverso manufatti di qualità più modesta. La versatilità di queste botteghe-scuole consente di adattarsi ai mutamenti del gusto della società, ad esempio nel Settecento si assiste ad una produzione di grandi statue in terracotta patinate ad imitazione del marmo, adatte ad impreziosire i giardini dei palazzi e delle ville bolognesi. In ambito religioso non ci si limita a richiedere opere per essere collocate entro nicchie o la realizzazione di presepi e targhe della Via crucis, ma si incentiva l'esecuzione di statue processionali, dove la parte in argilla cotta si limita spesso alla testa ed alle mani. Molte opere vengono realizzate per allestire le rappresentazioni di storie sacre in occasione dei Sepolcri del Giovedì Santo, praticate ogni anno fino all'inizio dell'Ottocento; o ancora per eseguire delle 'grotte' all'aperto dove collocare realistiche scene di compianti sul Cristo morto ed altre scene bibliche. Nel corso del Sei e Settecento la produzione di sculture di carattere devozionale rimane decisamente superiore a quelle profane, anche se a partire dal XVIII secolo si avverte una inversione di tendenza, molto più decisa nell'Ottocento e si può dire invertita nei ruoli col Novecento.

Tra i migliori esiti del barocchetto locale si segnalano le due terrecotte di Angelo Gabriello Piò rappresentante la prima una figura femminile sontuosamente abbigliata – probabilmente una Santa Caterina d'Alessandria – conservata in collezione privata; e la seconda un Re Davide, esposto al Museo Davia Bargellini di Bologna: ambedue caratterizzati da una smagliante policromia e sicuramente frammenti di composizioni più ampie. Dello stesso artista sono giunti a noi diversi delicatissimi bassorilievi rappresentanti scene sacre che esulano dal repertorio comune e quindi certamente pezzi unici richiesti da particolari committenze. Un esempio è la raffinata formella rappresentante l'Incontro di Gesù e San Giovannino custodita in una chiesa di Bologna. Questi rilievi, come le infinite Madonne col Bambino o busti di Gesù, Maria e santi, venivano collocate sulle pareti proprio come dei dipinti, integrandole spesso con bellissime cornici dorate o dipinte. Alcuni di questi esempi si possono ammirare al Museo Davia Bargellini, che conserva splendidi esempi di Giuseppe Maria Mazza collocati entro ricche cornici dorate bolognesi al labretto, con foglie d'acanto, a campanule. Le terrecotte quasi mai venivano esposte con il loro colore naturale e quindi potevano essere patinate coi toni bianchi ad imitazione del marmo, oppure con raffinate velature grigie o beige, o ancora scure ad imitazione del bronzo. Gran parte delle opere in argilla venivano però terminate con una ricca policromia, soprattutto quando si trattava di temi religiosi. Purtroppo molte di queste sculture sono giunte a noi senza le patine a causa del cambiamento di gusto avvenuto nel XX secolo: antiquari e collezionisti preferivano eliminarle per diminuire il carattere troppo devozionale. Per lo stesso motivo sono state spesso private di quegli attributi troppo caratterizzanti, come ad esempio le spade della Madonna dei sette dolori o i crocefissi sorretti da santi e martiri.

Il procedere degli studi consente di far emergere personalità fino ad ora note solo nella bibliografia o con un numero ristretto di opere. E' recente la definizione biografica di Clarice Vasini (1732 - 1823), raro esempio di donna artista - oltretutto scultrice – partendo da una terracotta nota da tempo presso il Davia Bargellini, cui si sono aggiunti due gruppi policromi rappresentanti l'Annunciazione e la Pietà, ed un Zerbinotto in collezione privata. Il plasticatore Gaetano Catenacci (1789 - 1865) si è potuto riconoscere grazie all'oggetto 'parlante' apposto nelle sue figure, un catenaccio per l'appunto. Anche le mostre sono state occasioni per approfondire il tema, nel 2012 una splendida esposizione è stata dedicata a Cesare Tiazzi (1743 – 1809), scultore attivo tra la sua città di nascita, Cento, e quella di formazione artistica, Bologna. In tale occasione è stato ricostruito un primo catalogo di opere, confrontate con splendidi esempi della produzione in terracotta locale del Sette e primo Ottocento. Nel 2016 l'esposizione dedicata a Giovanni Corazza ha consentito di riunire un buon numero di sue opere, tra quelle firmate o attribuibili.

Il presepe bolognese | L'allestimento scenografico della nascita di Gesù ha un'ampia tradizione in Italia che trova gli sviluppi più importanti a Napoli, Genova e Bologna. Mentre i presepi campani e liguri vengono realizzati con figure vestite in cui solo le parti a vista dei corpi sono in terracotta, il presepio bolognese si affida a figure a tutto tondo eseguite interamente in argilla. Le statuette felsinee sono quindi necessariamente meno sontuose, ricche e variegate ed anche con un numero minore di personaggi e pose. I primi esempi locali sono documentati a partire dal XVII secolo nell'ambito degli apparati delle feste degli ordini religiosi dei teatini e gesuiti, diffuso poi negli altri ambiti ecclesiastici; successivamente presenti nelle residenze nobiliari e poi, dal Settecento, anche negli strati meno agiati della società. Nell'Ottocento si arriva ad una presenza capillare e con una offerta estrememente variegata, partendo dai pezzi unici eseguiti da grandi artisti, fino a quelli dozzinali eseguiti in modo quasi industriale tramite gli stampi. La pratica di usare le matrici consentiva di variare le scene aggregando man mano elementi diversi; ad esempio un pastore seduto poteva essere lasciato da solo, oppure attaccato ad un animale, una figura femminile, un fanciullo. Gli stampi consentivano anche di produrre parti piccole delle figure, quali volti, mani, braccia, che venivano adattati volta per volta alle figure. Ci si rende immediatamente conto di queste pratiche quando troviamo opere frammentarie, mancanti per esempio delle mani, consentendoci di vedere l'incavo posto alla fine del braccio, in cui si inseriva l'arto realizzato a parte con lo stampo. Questa modalità di lavoro si può apprezzare in Angelo Gabriello Piò, di cui sono giunte a noi molte opere. Confrontando il noto gruppo di Due anziani contadini del Museo Davia Bargellini con la Vecchia ed il bambino (la tradizione), in collezione privata, ci si rende conto come l'artista abbia probabilmente usato la stessa matrice per il busto e volto dell'anziana, la quale nella versione in collezione privata ha il braccio piegato molto simile a quello dell'anziano del Davia Bargellini. Ancor più illuminante è il buon numero di pezzi eseguiti da Giovanni Putti o Pietro Righi che consente di riconoscere nella bottega la presenza di matrici man mano aggregate e ritoccate a seconda delle necessità. Allo stato attuale sono noti di Giovanni Putti tre pose per la figura di San Giuseppe, mentre per la Madonna è sempre la stessa matrice che pare essere utilizzata e continuamente variata. Esce da questa serie una bellissima Natività esposta in occasione della mostra su Cesare Tiazzi: conservata dentro il suo 'scarabattolo', vede la presenza di una Maria che per ora è un caso unico tra quelle di Giovanni Putti, avendo i capelli sciolti anzichè raccolti.

Le figure non erano mai lasciate col colore naturale dell'argilla cotta ma venivano dipinte in modo realistico dopo aver steso un sottile velo bianco di gesso come base. Anche in questo caso esistevano più registri esecutivi, da quelli molto raffinati realizzati da pittori o artigiani specializzati fino a quelli colorati in modo molto semplice. Un'ampia selezione di questi manufatti è conservata nel Museo Davia Bargellini il quale spesso dedica eventi espositivi a questo genere dell'arte. Tra le figure che appartengono al repertorio classico bolognese troviamo: la tradizione, solitamente una figura anziana che accompagna verso la Natività un fanciullo che prega; il dormiglione, un pastore addormentato che non si accorge dell'evento, spesso a causa dell'ubriachezza; l'adorazione, un figura inginocchiata che prega verso Gesù; la devozione, figura in piedi che si protende verso la mangiatoia; l'offerta, un uomo o donna che in varie pose consegna il proprio dono alla sacra famiglia. Oltre alle rappresentazioni di figure umane non possono mancare gli animali e le piccole architetture che servivano ad ambientare la scena, tutti elementi giunti a noi in numero purtroppo molto limitato. Il luogo bolognese deputato all'acquisto delle figure dei presepi è quello della Fiera di Santa Lucia, nata nel XVI secolo in occasione delle funzioni dedicate alla santa che nell'Ottocento viene trasferita nella sede attuale, lungo il Portico dei Servi di Strada Maggiore.

Il presepe meglio conservato giunto a noi è certamente quello appartenente alle Collezioni della Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna. Acquistato nel 2007, è composto da decine di figure che vanno dalla metà del Settecento alla metà dell'Ottocento, studiate a suo tempo da Francesco Malaguzzi Valeri ed in parte esposte alla mostra del Settecento bolognese del 1935. Il presepe è il risultato dell'unione di più nuclei, di cui quelli riconosciuti sono quelli delle famiglie Baiesi e Zacchia Rondinini. I due pezzi più importanti del primo Ottocento, la Madonna col bambino e l'Angelo orante, sono di fattura davvero eccelsa, e riconosciuti quali opere eseguite da Giacomo De Maria per i Tanari, una delle famiglie nobiliari più importanti di Bologna. Nel numero di opere di ogni qualità eseguite da varie botteghe si riconoscono le mani di artisti veri e propri quali Domenico Piò, Filippo Scandellari, Clarice Vasini. Oltre alle raffigurazioni umane sono giunte a noi anche diverse figure di animali e di architetture, alcune di ambientazione decisamente petroniana.

Bozzetti e modelli | La pratica della scultura in terracotta ha una sua utilità nel mostrare piccoli modelli ed idee per consentire alla committenza di capire l'aspetto che dovevano avere le opere finite, solitamente di dimensioni maggiori. La loro finalità consentiva allo scultore di non doverle patinare o colorare, limitandosi ad una secuzione non troppo fine e precisa, dovendo poi rimanere all'interno del proprio studio. Non ci deve quindi stupire se non sono arrivate a noi molte di queste sculture, soprattutto per quanto riguarda il Sei e Settecento, in quanto alla morte dell'artista studi e bozzetti ricevevano scarsa attenzione ed era facile che venissero scartate. Gran parte dei bozzetti più antichi arrivati a noi sono quelli che l'artista lasciava in dono alla committenza, spesso eseguiti con maggiore accuratezza, tali da poter essere considerate opere 'finite', buone per essere mostrate in pubblico o far parte del collezionismo. Una maggiore considerazione del ruolo dello scultore, una produzione più ampia e la vicinanza ai nostri tempi ci consegna man mano sempre più opere a partire dal XIX secolo. Anche il cambiamento del gusto collezionistico ha inciso sul numero delle terrecotte. A partire dalla fine dell'Ottocento si comincia sempre più ad apprezzare l'opera non finita o abbozzata, considerata come il 'vero' pensiero dell'artista che viceversa con l'opera finita doveva irrigidirsi o adattarsi troppo alle richieste della committenza. Lo stravolgimento del gusto avvenuto con le avanguardie del Novecento ha dato un maggiore impulso verso questa direzione e saranno gli stessi scultori ad avere cura di dare il giusto rilievo a queste opere, testimonianze del percorso creativo, utili per comprendere il risultato finale. Uno dei migliori esempi locali in tal senso è quello di Enrico Barberi, di cui è giunta a noi una copiosa documentazione – parte in collezioni pubbliche e parte in quelle private - che si sta arricchendo sempre più man mano che affiora dal mercato antiquario. I tanti bozzetti e studi in terracotta e gesso per le opere maggiori sono integrate da moltissime testimonianze cartacee e fotografiche, riuscendoci a far comprendere, momento per momento, quale sia stato il percorso che, partendo dalla richiesta della committenza, inizia con le prime idee, quella scelta e quelle scartate, le varianti in corso d'opera ed infine il risultato finale. Se le opere in gesso normalmente sono rimaste all'interno dello studio a causa della fragilità del materiale, diversamente quelle in argilla cotta dopo l'uso sono state donate a chi gli aveva affidato il lavoro, oppure quale omaggio ad amici e colleghi. Un esempio più antico è quello di Giacomo De Maria, attivo tra la fine del Settecento e l'inizio del secolo successivo, di cui è giunto a noi il modello in terracotta per l'Immacolata concezione di Palazzo Vassè Pietramellara, conservato in collezione privata. Dello stesso artista la Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna ha di recente acquistato un nucleo di opere che certamente erano parte del patrimonio conservato dallo scultore fino alla sua morte: sono così giunti a noi studi per le figure entro nicchie di Palazzo Hercolani, modelli per ritratti e monumenti funerari. Tale catalogo, studiato da Eugenio Riccomini, è stato approfondito e integrato nella monografia a lui dedicata nel 2020 da Antonella Mampieri.

Un ragionamento a parte si può dedicare alle terrecotte legate ai monumenti funerari della Certosa, il cimitero monumentale di Bologna inaugurato nel 1801. Il Municipio a partire dal 1815 diede all'Accademia di Belle Arti il compito di giudicare i progetti dei monumenti che man mano le famiglie volevano realizzare. Per queste occasioni la committenza consegnava i disegni dell'architetto, spesso accompagnati da piccoli bozzetti in terracotta dello scultore. La documentazione al termine del procedimento veniva riconsegnata alla proprietà, per cui gran parte di questi studi è conservato in collezioni private. Se piuttosto rare sono le terrecotte di primo Ottocento giunte a noi, diversamente negli ultimi anni stanno affiorando molte testimonianze realizzate tra la fine dell'Ottocento ed il XX secolo. La mostra dedicata allo scultore Arrigo Armieri del 2019 ha consentito di documentare uno scultore attivo in Certosa fino ad anni recentissimi, mostrando e catalogando moltissimi pensieri, idee scartate, bozzetti e modelli eseguiti nei materiali più diversi, non mancando ovviamente quelle in terracotta.

Roberto Martorelli

Bibliografia di riferimento: Eugenio Riccomini, Vaghezza e furore. La scultura del Settecento in Emilia e Romagna, Zanichelli, 1977; Presepi e terrecotte nei musei civici di Bologna, Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1991; Cesare Tiazzi - uno scultore tra Cento e Bologna – 1743-1809, Silvana Editoriale, 2011; La raccolta Guandalini – Rilievi e sculture, Silvana editoriale, 2014; Marco Violi (a cura di), Il Museo e la Pinacoteca Diocesani di Imola - Catalogo della collezione di terracotte devozionali, Editrice il Nuovo Diario Messaggero, Imola, 2015; Marco Violi, Giovanni Corazza - Uno scultore bolognese in provincia tra Sette e Ottocento, catalogo della mostra, Editrice La Mandragora, 2016; Ornella Chillè, Arrigo Armieri tra sacro e profano - Dalla Certosa all'atelier dello scultore, Pàtron, 2019.

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