Sinfonie scolpite. Immagini e simboli dei musicisti nella Certosa

Sinfonie scolpite. Immagini e simboli dei musicisti nella Certosa

1801 | oggi

Scheda

Nel giugno 1796 la città di Bologna apre le porte all'esercito francese. Comincia così un ventennio che scuote profondamente la società, non solo locale. Le riforme politiche e culturali che prendono avvio in questi anni sono volute da alcuni nobiluomini e cercate da una larga parte della borghesia locale, questa ultima ormai soffocata da decenni di declino economico, culminato nella chiusura delle ultime industrie seriche, caposaldo per secoli dell’economia. A questo si aggiunge la grave crisi dell’Università, che da ottocento anni garantiva prestigio culturale e ingenti introiti economici derivanti dal suo indotto. Gli anni seguenti vedono la città investita da scarsi interventi urbanistici e architettonici di rilievo e, unico grande provvedimento, è l'inaugurazione del cimitero pubblico. Anticipando di tre anni l’editto di Saint-Cluod, la Commissione di Sanità decide di riutilizzare nel 1801 le grandiose strutture del trecentesco convento certosino di S. Girolamo, soppresso insieme a gran parte dei beni ecclesiastici nel 1796. Con questa scelta si pone fine al grave problema igienico dei cimiteri cittadini, quasi sempre collocati di fianco alle chiese e integrati al tessuto urbano cittadino, ancora completamente incluso dalle mura medievali.

Riconvertito il convento della Certosa a camposanto, si impone immediatamente come sfruttare gli ampi spazi disponibili. L’aspetto attuale dell'area monumentale deriva dalle decisioni prese entro questi primi anni, e per tanti aspetti rimane un unicum in Europa. Durante il triennio giacobino si prende la decisione di abolire tutti i titoli nobiliari e le gerarchie sociali, ed in Certosa se ne trova un preciso riflesso nei primi sepolcri monumentali e non solo. Nei due chiostri quattrocenteschi riutilizzati per le sepolture, trovano così collocazione tutte le fasce sociali: anche le persone indigenti che fino a qualche anno prima venivano inumate in fosse comuni, ora sono sepolte a terra, singolarmente. Lo spazio a loro dedicato è quello dei cortili al centro dei chiostri, mentre sotto le arcate dei portici vengono realizzati gli spazi per chi poteva pagarsi una sepoltura visibile e perpetua. Le tipologie sono sostanzialmente due: o grandi monumenti collocati sulle pareti corrispondenti alle arcate dei portici, oppure lapidi collocate nel muretto su cui poggiano le colonne. Le tre tipologie rispecchiano la suddivisione della società tra nobiltà, borghesia e popolo. Diversamente da quanto ci si può aspettare, questa ripartizione viene resa meno evidente dalla volontà di dedicare gli spazi dei monumenti alla memoria del singolo defunto anziché alla famiglia di appartenenza.

Siamo in piena età neoclassica, e il governo repubblicano di matrice francese di fatto impone l'esclusione di simboli legati al cattolicesimo sui sepolcri, aspetto che pone gli artisti davanti a nuove sfide compositive, risolte recuperando una miriade di motivi e simboli dalle fonti più disparate, da quelle dei primi cristiani, oppure etrusche, greche e romane. Ancora, si riutilizzano iconografie temporalmente più vicine, quali quelle rinascimentali o barocche. Su tutto aleggia una evidente cultura massonica, assai diffusa all’epoca, che trova la piena espressione in sepolcri realizzati in stile egizio. Se la volontà è quella di dedicare il sepolcro al singolo cittadino, si deve quindi puntare sulle opere da lui compiute in vita e degne di essere ricordate ai posteri. Gli artisti nell'eseguire i monumenti della Certosa non cerca un approccio diretto e immediato verso l'osservatore, infatti sono rarissime le rappresentazioni di eventi reali ed è del tutto assente l’uso della lingua italiana. I monumenti funebri assumono l’aspetto di un’opera da decifrare attraverso i simboli e le allegorie, riassunte attraverso i testi delle epigrafi, le quali diventano didascalie, pensate con un latino molto semplice e tutto sommato comprensibile anche ad un profano. Su tutto si impone la tecnica scelta che anziché in scultura, come ci si aspetterebbe normalmente, vede predominare la pittura muraria. Si possono così realizzare imponenti opere in tempi brevi e con un notevole risparmio economico ma, nei fatti, la pittura si dimostra del tutto inadatta per il rapidissimo degrado cui è sottoposta tanto che, dopo due decenni, viene sostituita con l'uso dell'economico e più duraturo gesso, stucco o scagliola. Chi trova posto sotto le arcate del Chiostro Terzo, voluto fin dall’inizio come luogo rappresentativo dell’eccellenza della città? Passeggiando sotto i portici e sfogliando le raccolte a stampa dei monumenti funebri coeve, si comprende subito come la società nobiliare ed ecclesiastica siano quelle predominanti ma, nuovamente, appaiono alcune peculiarità bolognesi.

Le donne innanzi tutto. Nei primi venticinque anni di vita del camposanto su circa 160 monumenti documentati, quasi il venticinque per cento è dedicato ad una donna, e in questa casistica non sono presenti solo quelle appartenenti alla nobiltà, ma anche alcune borghesi, docenti dell’università, ballerine e cantanti liriche. Sempre studiando le medesime tombe si vede con regolarità la presenza di simboli musicali, anche quando essi non hanno diretta correlazione con l’attività prevalente del defunto. Da un veloce spoglio delle raccolte e dal loro conteggio, risulta come poco più del dieci per cento dei sepolcri presentano temi o simbologie legate alla musica o alla cultura teatrale. Ciò non è spiegabile con il lavoro svolto in vita, anzi, nella maggior parte dei casi ci si trova di fronte a nomi ben noti della nobiltà locale, quali i Sampieri o i Pepoli. La presenza di questi simboli va quindi letto all’interno di un 'racconto' iconografico volto alla rappresentazione delle virtù del defunto. Nel caso che un uomo abbia compiuto attività militari o ruoli di amministrazione pubblica viene descritto attraverso fregi con festoni composti da armi, bilance, scudi ed elmi, mentre soggetti attivi in ambiti culturali sono onorati attraverso libri e cartigli, in cui spesso è presente una lira greca, una cetra o un sistro egizio. Esemplificativo di questa prima fase in cui prevalgono i sepolcri dipinti, è quello dedicato a Sebastiano Tanari. Qui, pur in presenza di una figura maschile, troviamo nella parte inferiore del dipinto simboli normalmente associati alle donne, quali chitarre, flauti, liuti, tanto che, in primo piano, una delle due allegorie regge una lira e abbraccia un cigno, con la volontà di rappresentare il canto e la poesia. Questa simbologia così fortemente indirizzata al mondo teatrale si comprende analizzando la biografia del defunto il quale svolge per tutta la vita una significativa attività compositiva di carattere prevalentemente sacra, e che alla propria morte dona all’Accademia Filarmonica il suo archivio musicale. Il sepolcro, dipinto da Francesco Stagni e Giovan Battista Frulli nel 1809, rende quindi onore a questo nobiluomo, rappresentando nella parte inferiore i suoi meriti musicali, mentre nella parte superiore trova il posto d’onore una allegoria della Fede. Infine, le sue virtù sono sinteticamente descritte nell’epigrafe latina redatta da Filippo Schiassi, colto letterato, docente universitario e canonico della Cattedrale.

Altro monumento significativo è quello dipinto da Pelagio Palagi nel 1801 per Edoardo Pepoli dove, entro una composizione che richiama i sepolcri etruschi, appaiono sul sarcofago diversi strumenti musicali antichi. Presenze iconografiche che si comprendono ancora una volta attraverso l’epigrafe, la quale elenca anche i suoi interessi verso la musica. Il catalogo di questo genere di opere può essere molto lungo: quel che si vuole segnalare è come nella cultura di qualunque nobiluomo, la musica o la poesia sia spesso presente. Il teatro assume importanza sociale dopo il 1796, in quanto è visto come mezzo per divulgare i nuovi ideali repubblicani al popolo, in gran parte analfabeta e quindi impossibilitato a leggere opere poetiche o trattati a stampa. In questo contesto sociale in rapido mutamento trovano modo di affacciarsi sia in vita, sia nella morte, altri attori sociali. Nel Chiostro Terzo e in quelli attigui sono onorate diverse donne legate direttamente al mondo musicale e teatrale. Tra queste vi sono la ballerina Isabella Barbieri Mattioli (1755 ca. - 1817) e le cantanti liriche Brigida Banti Giorgi (1757 - 1806) e Brigitta Bavosi (m. 1825). Nessuna delle tre appartiene a famiglie dell'aristocrazia e nel caso della Barbieri ci si ricorda più degli aspetti biografici che i pregi artistici, tanto che Giuseppe Guidicini nel suo Diario messo a stampa nel 1888, scrive come questa Barbieri, donna vanarella, che era stata ballerina, poi maîtresse dell’arcivescovo di Colonia, si era maritata in Germania a certo Mattioli, Parmeggiano, suonatore di violino. Coi regali, avuti dall’amante e fatti fruttare dal marito, ammassò un certo patrimonio, minore però di quanto si decantava in città. Il notevole monumento da lei voluto è disegnato dall’architetto Angelo Venturoli e scolpito da Giovanni Putti, artisti di primissimo piano, e non rivela nulla della sua attività in vita, tanto che le tre figure allegoriche riportano solo le sue virtù di Prudenza, Fede e Carità. Diversamente il sepolcro dipinto da Giuseppe Gibelli e Filippo Pedrini per Brigida Banti Giorgi è interamente dedicato alle sue capacità canore, molto decantate in vita, tanto che per lei compongono anche Anfossi e Paisiello. I pittori rappresentano al centro un sarcofago su cui è collocato il medaglione con il ritratto della defunta, attorniato da numerosi strumenti e spartiti musicali. La lunetta superiore rappresenta invece l’allegoria della Musica piangente dopo aver ricevuto dalla Fama la notizia della morte della Banti. Sicuramente questo è, tra i sepolcri dipinti, quello che meglio descrive l’importanza che la cultura musicale aveva nella società d’epoca Neoclassica. Il monumento della Banti che oggi ammiriamo è la seconda versione: del primo sepolcro rimane una precisa descrizione nella raccolta di disegni acquerellati eseguita da Petronio Rizzi entro il terzo decennio del XIX secolo: questi era realizzato parte in scultura e parte in pittura, con due scheletri danzanti con la falce tra le gambe. In questa opera perduta gli elementi simbolici legati all'attività della defunta erano relegati a un piccolo fregio nella parte superiore sormontato da una civetta, simbolo del sonno e di saggezza. Nella guida della Certosa messa a stampa da Giovanni Zecchi nel 1827, la nostra cantante viene descritta come lodatissima per la eccellenza nell'arte della musica, socia onoraria dell'Accademia Filarmonica, vissuta anni 47, e morta li 18 febbraio 1806. Il presente monumento le fu da prima innalzato da Vittoria Banti di lei figliuola, e dal marito di questa dott. Domenico Barbieri, e dal pittore ornatista Giuseppe Fancelli. Nel 1813 fu poi dal marito della defunta trasportato in altra parte del Cimitero. La seconda versione del sepolcro è riprodotto e citato in tutte le raccolte e guide messe a stampa tra Otto e Novecento, sintomo dell'importanza che ha rivestito nell'accrescere la fama del complesso monumentale. In questa sede si è voluto descrivere ampiamente questa tomba dipinta sia per le sue complesse vicende, sia per sottolineare l'importanza che l'iconografia e il mondo musicale (e più in generale poetico-letterario) era riservato nel cimitero pubblico.

In questo luogo così aulico e rappresentativo della storia cittadina viene pensato anche un Pantheon, o sala dei bolognesi illustri. Sempre lo Zecchi descrive come su progetto dell'architetto Giuseppe Tubertini sia stata radicalmente trasformata l'originaria cella del priore del convento, decorata sulla volta con affreschi da Filippo Pedrini. Nel corso di un secolo trovano qui posto una novantina di busti in marmo, che ritraggono i bolognesi che la città ritiene di onorare e ricordare. Tra questi vi è il compositore e musicologo Giovan Battista Martini (1706 - 1804) e uno dei suoi allievi, Stanislao Mattei (1750 - 1825). Rara presenza forestiera è quella di Gioacchino Rossini, mentre altri personaggi non bolognesi, anche di primo piano, trovano spazio solo al di fuori del Pantheon. La scelta di collocare ritratti di uomini non bolognesi avveniva solo dopo vivaci dibattiti e diviene eloquente la presenza di un monumento commemorativo collocato nel vicino Chiostro Terzo, e dedicato al ballerino e coreografo napoletano Salvatore Viganò, morto a Milano nel 1821. L'opera è voluta dalla figlia e da alcuni ammiratori che commissionano a Giacomo De Maria il cenotafio in marmo, materiale raro e costoso in città. Lo scultore è tra i massimi esponente della scuola plastica bolognese ed è cosciente dell’importanza dell’opera, tanto che, prima della definitiva collocazione, la espone nel 1825 nell’Accademia di Belle Arti e viene descritto come basso rilievo rappresentante l'Orazione, ossia la figlia che piange la morte del padre. Tra gli ornamenti compare la classica lira greca.

Il camposanto bolognese assume ben presto il carattere di galleria d'arte moderna cittadina, e questo aspetto quasi museale viene esaltato dalla collocazione di interi monumenti funebri provenienti dalla chiese soppresse. Insieme a importanti sepolcri medievali, rinascimentali e barocchi, vengono trasportati anche memorie di minore importanza artistica, ma non meno significativi per la storia locale. Si spiega così la presenza della lapide funeraria di Antonio Bernacchi (1685 - 1756), celebre cantante castrato e maestro di Carlo Broschi detto il Farinelli, anch'egli onorato dalla nipote Carlotta Pisani, la quale ne porta i resti in Certosa e fa realizzare una semplice lapide con testo latino, sulla cui sommità viene scolpita una lira greca. L'inizio dell'Ottocento riprende sempre temi e motivi classici, in cui difficilmente trovano spazio strumenti od oggetti moderni. Uno dei fregi più significativi di questo momento 'aulico' è quello presente sul sepolcro in scagliola della giovane Angela Arfelli: qui viene rappresentato un complesso bassorilievo in cui sono presenti numerosi strumenti antichi a fiato, a corda e a percussione, completati da cartigli, rami di quercia e alloro. Questi motivi decorativi non sono esclusivamente utilizzati in ambito funerario anzi, la correlazione tra mondo dei vivi e quello dei morti è sempre molto stretto, tanto che comparando il fregio sulla lunetta dedicato alla cantante Luigia Anti (1794 ca. - 1837), si notano similitudini con quelli presenti nel portico di Palazzo Sanguinetti a Bologna . Il destino di questo palazzo è sempre legato, fin dal settecento, alla musica ed a Gioacchino Rossini. L'edificio cinquecentesco viene radicalmente trasformato nel 1796 su progetto di Giovan Battista Martinetti, e successivamente acquistato da Nicolás Peñalver, nobiluomo cui Rossini dedica la cantata L'auguria felice, composta in occasione del matrimonio con la contessa De Merlìn, cantante dilettante e figura molto in vista del bel mondo parigino. Il successivo proprietario, il tenore Domenico Donzelli, ne fa dal 1832 la propria residenza, e qui vi ospita Gioacchino Rossini nel momento in cui questi ristruttura il palazzo da lui acquistato, collocato a pochi metri di distanza. Non sorprende quindi che i motivi decorativi delle lunette e del fregio superiore siano spesso ripetuti nel camposanto della Certosa, con varianti più o meno significative. Dal 2004 Palazzo Sanguinetti è oltretutto sede del Museo Internazionale della Musica.

Le considerazioni appena descritte vogliono far sinteticamente comprendere come il mondo musicale locale sia assai ricco e variegato tra Sette e Ottocento. Non è questa la sede per poter delineare sommariamente la storia della cultura locale, basti rilevare come, oltre al Teatro Comunale, in città sono presenti diversi altri palcoscenici gestiti da privati, tra cui spiccano il Contavalli e il Marsigli, che spesso offrono un programma di tutto rispetto, tanto da fare concorrenza al più blasonato e imponente teatro pubblico. A questo vivace mondo culturale si affiancano numerosi gruppi di cantanti e attori dilettanti e alcuni salotti culturali gestiti da alcune famiglie nobiliari. Questi ultimi hanno un ruolo decisivo nel dirigere il gusto locale, e famiglie quali i Martinetti, Tanari, Hercolani o Sampieri ospitano spesso scrittori, poeti, attori, cantanti e compositori di primo piano, tanto che a lungo Gioacchino Rossini fa di Bologna la sua sede stabile e che nei salotti dirige alcune prime musicali. Di questa importante presenza in città è testimone in Certosa il sepolcro che Isabella Colbran, prima moglie di Rossini, dedica al padre e dove in seguito trovano posto anche i genitori del celebre compositore pesarese. Il grande bassorilievo in marmo, apertamente ispirato ai modelli di Antonio Canova, rappresenta il dolore della figlia verso Giovanni Colbran e il piccolo genio con la consueta lira greca allude, per una volta, direttamente al ruolo svolto in vita, dato che il defunto era violinista. Il motivo della lira greca o della cetra è assai comune, non solo nell’ambito delle sepolture funerarie della Certosa, ma anche nelle decorazioni delle residenze o in opere a stampa, in quanto utile a rappresentare la musica e la poesia. In tal senso va inteso il grazioso bassorilievo che fa parte del monumento realizzato da Cincinnato Baruzzi nel 1841 per Paolo Costa, letterato ateo e di idee apertamente giacobine, cacciato dall'università e costretto, dopo aver subito i lavori forzati, ad aprire una scuola privata. Contrapposto all’allegoria della Filosofia, Baruzzi rappresenta, seduta e in atto di declamare, la figura femminile della Poesia, la quale pizzica con la mano destra una lira. Che gli artisti, quale che fosse la loro attività prevalente, avessero in animo anche spirito poetico o musicale è evidente dal fregio collocato sulla mensola su cui è posato il ritratto del pittore Achille Frulli in cui, oltre alla tavolozza e ad autentici pennelli, non manca ancora una volta la lira.

Tra gli altri numerosi esempi, citiamo quello sul sepolcro della famiglia Bignami, incluso in una più ampia e complessa allegoria che sottende anche al commercio e alle attività militari svolte dai vari membri della famiglia. Più aulica e nobile è quella scolpita da Massimiliano Putti per il basamento del sepolcro dedicato a Massimiliano Angelelli, docente universitario e figura di primissimo piano della cultura classica a Bologna. Meno presente della lira, ma in ogni caso piuttosto comune, è la presenza della tromba, che però non sempre è associata a temi musicali o teatrali, in quanto è anche attributo della Fama, e quindi legato a qualsiasi ambito cui il defunto ha eccelso in vita. Ancora, toccando l'ambito religioso, la tromba può essere associata al giudizio universale. La presenza di questo strumento a fiato va quindi ogni volta attentamente interpretata leggendo l'epigrafe e gli altri simboli presenti sul sepolcro. Gli anni successivi al terzo decennio del secolo vedono diminuire sempre più la presenza di simboli musicali. Tale evoluzione è in parte comprensibile con il rapido mutare dei tempi: dopo il 1815, a Restaurazione avvenuta, si avverte sempre più un clima di oppressione politica e culturale, che porta ai primi moti del 1831, poi a quelli del 1848, e infine all’Unità nazionale. In questo contesto di rapide trasformazioni, la musica perde la sua importanza come base della cultura dell’uomo benestante, ma diversamente è spesso messa al servizio dei valori risorgimentali. Un esempio in tal senso è lo scultore Giuseppe Pacchioni, non solo artista, ma uomo dai forti ideali rivolti all’Unità nazionale, il quale partecipa con i fratelli Bandiera al tentativo insurrezionale del meridione. Lo scultore viene così non casualmente chiamato a scolpire l’altorilievo della famiglia Spech-Salvi. L’articolata iconografia e la presenza della lira si comprendono attraverso alcuni brani dell’epigrafe che riportiamo: Costanza Petralia romana, a te più che zia madre sono rivolti i nostri pensieri, a te che fosti sublime nel canto, a te che ogni cura volgesti alla mia educazione, ed a quella dell’altro tuo nipote, non mai abbastanza compianto, [...] Adele Spech-Salvi, eccelsa nell’arte del canto, madre virtuosa, bellissima d’animo e di forme, italiana di sensi e d’intelletto, quando l’esserlo costava spesso la vita, [...], Ginevra Salvi, nata al genio della musica, dotta di molte lettere lingue e scienze [...], Enrico Salvi genovese, nel fior degli anni rapito a’ suoi cari, all’affetto ed all’ammirazione di tutti, si distinse nello studio delle lingue, della musica profondo conoscitore, dettava melodie peregrine, amo’ la patria e combattendo lo straniero, ebbe medaglia al valore. [...] Qui riposano in pace, le ossa del cav.re Lorenzo Salvi, per potenza e soavità di canto, ammirato, nell’uno e l’altro continente, beneficò quanti a lui nel bisogno ricorsero, a tutti amico affettuoso.

Come già citato, percentualmente si avverte una diminuzione numerica di simbologie musicali o teatrali, ma viceversa i monumenti presenti assumono caratteri ancora più importanti dal punto di vista artistico. Il nobiluomo non rappresenta più tra le sue virtù l’amore per la musica o il teatro; mentre un compositore, musicista, attore o cantante, decide orgogliosamente di ricordare se stesso con opere efficaci e chiaramente comprensibili al visitatore.
Se non fosse per il suo cippo funebre non sapremmo nulla di Giovanni Landi, onore dell’arte del canto, il giorno 6 di novembre 1873, ascese alle celesti armonie. Oltre al bel ritratto a mezzo busto, lungo la parte alta del cippo compare un bassorilievo che per la ricchezza di strumenti classici rappresentati è superiore solo quello già descritto per Angela Arfelli. Tra le tante stele ricordiamo quella di Baldassarre Centroni (1784 - 1860), di origini napoletane e amico carissimo di Rossini, in cui il suo ritratto in bassorilievo coglie elementi veristici nella posa di tre quarti e nell’abbigliamento, mentre il festone che lo circonda è ancora decisamente classico, dove oltre all’onnipresente lira greca compare anche un oboe, strumento tra i prediletti del Centroni. Di poco successiva e più moderna è la stele dedicata a Giuseppe Sarti (m. 1871) in cui, al posto del consueto busto in bassorilievo entro medaglione, il defunto è ritratto frontalmente. Il fregio sottostante presenta i consueti motivi legati alla musica, ma vi compaiono elementi veristi, quale una mano con un piccolo bouquet di fiori e un cartiglio con inciso Ave Maria, musica di G. Sarti, 16 fe.o 1871. La lapide sottostante ci informa che fu maestro distintissimo di musica, onorato visse, per piu' anni in lontano paese, amore di patria lo trasse al suolo natale, ma da morte inesorabile colpito, in verde eta' e nel colmo delle speranze, rendeva l'anima a Dio. Se non fosse per il recente ritrovamento del suo sepolcro, nulla si saprebbe di questa figura del mondo musicale felsineo, certamente minore, ma che ci fa capire come l'humus culturale sia più ricco e variegato di quanto si pensi. Poco distante dal Sarti si trova la semplice stele di Carlo Pepoli (1796 - 1881), la quale non rende giustizia della multiforme attività del nobiluomo, rivolta agli ambiti politici, letterari e musicali, tanto da essere chiamato a comporre il libretto per I Puritani di Vincenzo Bellini. Unico elemento decorativo associato allo stemma nobiliare è, nuovamente, la lira greca.

La cultura artistica, ormai indirizzata verso un maturo romanticismo, quando spiccatamente verista, consente agli artisti nuove e significative variazioni compositive. L’esempio più antico in cui si è rilevato la presenza letterale di un brano musicale è nella cella Bonetti in cui, sulla parete di destra, su una mensola in cui compare nuovamente la lira, viene collocato il busto del defunto, e tra questi due spunta un foglio accartocciato in cui si distinguono alcune note e parole. La spiegazione di questa iconografia si comprende leggendo la lapide sottostante che riporta il seguente testo: Vincenzo Bonetti, cavaliere dell’ordine di Carlo III di Spagna, tenerissimo dell’arte musicale, direttore d’orchestra di fama europea, carissimo, ai parenti agli amici al povero alla patria, l’inconsolabile fratello Luigi pose, mori’ ad Isle Adam agli XXI giugno MDCCCLXIX, ne visse LX. La dimenticanza di tanti di questi uomini e donne è un fatto storicamente quasi inevitabile, ma nel nostro caso bisogna aggiungere come vi abbia contribuito la mancanza di registrazioni sonore che consentano di apprezzare le doti decantate dai loro contemporanei. Risulta quindi per noi apparentemente incomprensibile il rilievo che viene dato dalla famiglia a Clementina Betti degli Antoni la quale, oltre a meritare un bel ritratto a mezzo busto, si vede onorata da una grande lapide coronata da un bassorilievo rappresentante un cigno. Il testo sottostante ci informa anche che fu bella, di aspetto d’ingegno di cuore, maestra, di soavissimo canto, plaudita in Francia Italia Inghilterra. Lo scultore Massimiliano Putti, il massimo scultore bolognese della metà del XIX secolo, viene chiamato nel 1861 ad onorare una figura legata all’ambiente canoro, e scolpisce nel marmo un bellissimo angelo a grandezza naturale, che sovrasta il cippo con il ritratto della giovane Carolina Lipparini. Ancora una volta la presenza della lira, qui affiancata dal pellicano, è comprensibile attraverso il testo della lapide che, tra l’altro, riporta come vinse gli animi con la beltà delle forme, con la voce nel canto impareggiabile. Sia la Betti che la Lipparini sono legate al mondo lirico orbitante intorno a Rossini, difatti la prima ha un ruolo da solista nello Stabat Mater, mentre la seconda ricopre il ruolo di Matilde nella Matilde di Shabran. Tra questo lungo elenco di sepolcri in cui sono presenti i consueti simboli classicheggianti, spicca una rara rappresentazione di un organo, il quale orna semplicemente il grande sarcofago dedicato a Stefano Golinelli (1818 - 1891), apprezzato compositore e pianista, non solo in Italia ma anche all’estero.

Bologna sul finire dell'Ottocento cerca una propria identità musicale che possa contrapporla al teatro della Scala. In breve e con enorme entusiasmo la città si trasforma nella capitale wagneriana della nazione, in contrapposizione alla 'verdiana' Milano. Di questo momento è testimone il clamoroso successo che riscuote la prima opera del giovanissimo Stefano Gobatti, talmente travolto dal successo e dalle forti aspettative nei suoi confronti che poi non riuscirà più ad eguagliare il primo trionfo. In Certosa ne è fedele testimone la lapide a lui dedicata, che riporta come primamente nel nostro maggior teatro, rivelo' il suo genio musicale, coll'opera I GOTI. Il consiglio del Comune, con decreto del 19 dic. 1873, diede la cittadinanza bolognese, e 40 anni appresso, per tributo d'onore alla sua memoria, questo sepolcro. N. in Rovigo il 14 luglio 1852, m. a Bologna il 17 dicembre 1913. Dopo l'Unità d'Italia Bologna viene investita da profondi rinnovamenti economici e culturali. Nel 1888 si tiene presso i Giardini Margherita l'Esposizione Emiliana e contemporaneamente si festeggia l'ottavo centenario dell'Università. Al centro di questi avvenimenti vi è Giosue Carducci, chiamato a insegnare presso l'ateneo locale, il quale comprende come questi eventi siano un mezzo per riportare la città ad un ruolo di rilievo, non solo nazionale. Durante l'ultimo quarto del XIX secolo la città vede il formarsi un tessuto produttivo legato al comparto alimentare e a quello meccanico, il tutto manifestato da importanti lavori urbanistici culminati nella realizzazione dell'attuale via Indipendenza, che unisce Piazza Maggiore alla stazione ferroviaria. L'aumento demografico e di benessere consente la formazione di una borghesia medio piccola, che trova modo di esprimersi anche in Certosa, all'interno dei nuovi chiostri costruiti intorno a quelli rinascimentali. Si assiste così alla definitiva affermazione della cultura verista su quella classica, ormai vista come espressione di una società vecchia e legata a tradizioni conservatrici.

Di questo momento ne è felice espressione un bassorilievo in bronzo eseguito da un capace scultore, al momento ancora anonimo, che ritrae a figura quasi intera Edvige Tebaldi (1872 - 1909), descritta con indosso gli abiti di scena, molto probabilmente desunti da un dipinto o una fotografia. La toccante immagine è commentata con una iscrizione che la descrive come di animo grande, a voce divina, accoppio’ arte squisita. La seconda parte dell’epigrafe, che viene aggiunta in un secondo momento, riporta come Edv. Tebaldi in Amendola, pesarese, discepola prediletta di Mascagni, zia e gloriosa antecessora dell’illustre cantante lirica, Renata Tebaldi - 30 marzo 1959. Avvicinandoci al Novecento si incrina il predominio degli artisti locali sui cantieri del camposanto, tanto che alcune famiglie decidono di servirsi di artisti forestieri di primo piano. Leonardo Bistolfi, presente a lungo a Bologna per completare il gigantesco monumento di marmo dedicato a Giosue Carducci viene chiamato in Certosa per realizzare nel 1919 il busto a tutto tondo di Rodolfo Ferrari, appassionato cultore dei drammi wagneriani. Lo scultore coglie in piena azione il celebre direttore d’orchestra, tanto che attraverso il movimento del braccio destro avvertiamo l’avvio di un ampio gesto rivolto verso una invisibile orchestra. Verso la metà degli anni ’30 dell’Ottocento in Certosa si costruiscono monumenti a diversi attori, quali Luigi Vestri o Francesco Lombardi ma, col passare del secolo, si avverte un progressivo disinteresse verso di loro, tanto che appaiono sempre più spesso monumenti di rilievo per cantanti liriche, tra cui Erminia ed Adelaide Borghi-Mamo o Giuseppina Gargano. Le due grandi composizioni marmoree sono realizzate rispettivamente dagli scultori Enrico Barbèri e Pasquale Rizzoli. Il gruppo del Barbèri, completato nel 1894, onora madre e figlia, cogliendo la più anziana seduta mentre ascolta la più giovane, rappresentata come un angelo che suona un salterio. Su tutto domina una grande croce greca che riprende quelli alto medievali che ancora si conservano nei Musei Civici e nella Basilica di S. Petronio. Diversamente il monumento alla Gargano si contrappone a quello dedicato al Ferrari, tanto che la cantante viene colta in piena azione, con le mani giunte verso sinistra. Un sepolcro che apparentemente non ha nessun riferimento all’ambito di attività del defunto è quello di Ottorino Respighi (1879 - 1936), che si risolve in un grande sarcofago circondato da alcune lastre di pietra. In realtà queste ultime provengono dall’Appia antica di Roma, e vengono donate dalla città quale segno di ringraziamento verso le opere da lui composte ad onore del fasto dell’Urbe capitolina.

Dopo la Prima Guerra Mondiale la realizzazione di monumenti funebri vede un sempre più veloce decadimento qualitativo, che diventa drammatico dopo il secondo conflitto mondiale. I nuovi sepolcri assumono un aspetto anonimo e, quando appaiono elementi di pregio artistico o letterario, sono con evidenza segni di lutti e ricordi personali, da cui il passante viene escluso. La presenza dell'opera d'arte si fa sempre più marginale e del tutto slegata dal sepolcro, divenendo sintomo della standardizzazione industriale applicata sia per il progetto architettonico, sia per quello artistico. La presenza di strumenti o iconografie musicali diventa sempre più rara e nella quasi totalità sono relegati a strumenti retti dagli angeli. Assumono così particolare rilievo quei sepolcri in cui compaiono piccoli brani musicali, con tanto di pentagramma, quasi a lasciare una breve traccia delle opere realizzate o amate in vita. Uno degli esempi più rilevanti è il sarcofago Bergamaschi, realizzato in marmo bianco dallo scultore Mario Sarto. Su uno dei lati lunghi, tra due delicate muse scolpite a bassorilievo, compare un cartiglio con un brano di Giuseppe Verdi, mentre su uno dei lati corti viene inciso un brano di Mascagni. Di poco successivo è la lastra tombale, datata 1944, di Aglae ed Alessandro Certani, in cui sono presenti due lunghi movimenti di Bach, e che si completa con la frase uniti nell’arte... nella vita... nella morte...

Il momento più commovente si raggiunge nella cripta della famiglia Landriscina. In uno dei due bassorilievi in bronzo trova posto una foto ceramica ritraente il Maestro comm. Antonio Landriscina, Trinitapoli, 10 - 4 -1885 - Bologna, 4 - 8 -1974 e, sotto un cartiglio dal titolo Elegia funebre, viene trascritto il suo brano musicale.

Roberto Martorelli

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