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Racconti dalle cripte | Storie sepolte tra le righe

2019

Schede

La narrativa ha ampiamente trattato il tema della morte, in tutte le sue sfumature. “La Mort d’Olivier Bécaille”, di Émile Zola e “La morta” di Guy de Maupassant sono due fra i principali racconti scelti per il percorso notturno tenutosi in Certosa nel 2019, rappresentati anche visivamente attraverso un’installazione audiovisiva, che analizza la morte da diversi punti di vista, situazioni bizzarre ma mai banali. Incorniciati da tre racconti suggestivi di Edgar Allan Poe, sommo investigatore, tramite i suoi testi, del mistero, dell’occulto e degli anfratti più reconditi della nostra mente: “La sepoltura prematura”, “Il corvo” (poesia), “Il cuore rivelatore”. Il progetto a cura di Loredana Lo Fiego ha visto la collaborazione di Gianluca Stevanella, voce narrante di un percorso caratterizzato dalla narrativa gotica ottocentesca, dalla quale ha evocato il terrore più cupo e disarmante.

La morte è una certezza indissolubile. Alcuni l’hanno temuta, sfidata e attesa. Gli scrittori e i pensatori l’hanno descritta in svariati modi, indagando su un avvenimento sul quale aleggia un alone contrassegnato dal dubbio e dal mistero, e che alle volte sembra impossibile trovargli risposta. Un percorso attraverso differenti pensieri e filosofie, che in fondo ci dà tantissimi indizi su com’è cambiato il nostro modo di confrontarci con la vita e con la sua ineluttabile fine. La morte è una cosa strana, ci sommerge, ci avvolge e ci sovrasta. La temiamo ma a volte preferiamo non meditare troppo su di essa e sul perché di tale avvenimento, le passiamo accanto, quasi sfiorandola, come un’ombra che si aggira attorno a noi. 

«Mentre si rinvia, la vita passa» (Seneca, Epistulae morales ad Lucilium)

La morte, dunque, si può certamente dire che è un avvenimento scontato, tanto che sembra superfluo parlarne, perché certo è inesorabile. Non si fugge, non ci si nasconde, non si scende a patti con essa. Inevitabilmente sicura, ci appare però strana poiché non riusciamo a concepirla, né ad accettarla. Un vuoto, una mancanza, un’assenza. Parlarne, come per molte cose della vita è utile per far comprendere di cosa si tratti. Non per mancata conoscenza della sua essenza, ma per la mancata consapevolezza del suo senso. Perché un senso deve pure avercelo, questa morte.

Loredana Lo Fiego

La Mort d'Olivier Bécaille, Émile Zola, 1879
Sono morto alle sei del mattino di un sabato, dopo tre giorni di malattia. La mia povera moglie mi stringeva le mani e poi è scoppiata in lacrime. Io sentivo tutto ma i suoni sembravano provenire da molto lontano, soltanto l’occhio sinistro percepiva ancora un vago chiarore. La volontà era morta e nessun muscolo mi rispondeva, solo il pensiero indugiava, lento e torpido, ma perfettamente lucido. O era l’anima ad attardarsi in quel modo prima di volarsene via. Poi anche la tenue luce dell’occhio sinistro si spense, non mi ero accorto che mi avessero chiuso le palpebre ma quando me ne resi conto mi sentii gelare, però potevo ancora sentire. Nella stanza arrivarono altre persone. Quanto tempo era passato? Nebulosamente udii che il funerale era stato fissato per le undici dopodiché sarei stato sotterrato. Ma più della morte mi aveva sempre spaventato il pensiero d’essere sepolto. Sentii ancora dei rumori sgraziati, maldestri, come di qualcuno che trasportasse dentro un mobile: era la mia bara. Mia moglie prese a vestirmi come si fa coi cadaveri, poi delle mani sconosciute mi sollevarono e mi deposero nella cassa. Quando due colpi di martello conficcarono il primo chiodo provai come un brivido nelle ossa e altre ne seguirono in rapida serie, brutali, assordanti, ma non so come in qualche parte profonda di me io sentii che piangevo, come mai avevo pianto in vita mia. Dopo ascoltai le parole confuse di un prete, ed ecco che mi calavano nella fossa e le corde sfregavano su gli spigoli della bara. Era la fine. Poi un colpo tremendo! e pensai che la bara si fosse spaccata in due. Dio mio fu come se svenissi. Non esistevo più. E invece a poco a poco confusamente tornai in me. L’aria mi mancava e io sentivo freddo. Volli alzarmi di slancio ma picchiai forte la testa e l’orrenda verità mi attanagliò: Ero sepolto vivo. Cominciai a dibattermi e a graffiare il legno con le unghie, fuori di me dal terrore, inarcandomi con tutte le mie forze sui piedi, sui reni, sbattendo i gomiti e le ginocchia e tirando calci da rompermi le ossa. Gridavo, gridavo come un pazzo con una voce che non era più neanche la mia. Poi mi sembrò che la bara cedesse dalla parte dei piedi. Allora battei con forza i talloni, pregando che da quella parte ci fosse una tomba scavata di fresco. All’improvviso i miei piedi affondarono nel vuoto e non ebbi che da superare un sottile strato di terra e strisciai in una fossa ancora aperta. Mio dio! Ero salvo! Restai ansimante sul dorso a fissare le stelle, con la testa vuota, non so per quanto tempo. Potevo correre a riabbracciare mia moglie e i figli ma mi accorsi che non lo desideravo. E da allora è strano, non l’ho più desiderato. Ho rimesso la terra a posto in modo che non si accorgessero di nulla e me ne sono andato via, come un fantasma, senza farlo mai sapere a nessuno. Quanto cambia un uomo dopo essere sopravvissuto ad una simile esperienza? Ma ero ancora un uomo? Me lo sono domandato per tutta la vita aspettando che la morte tornasse a trovarmi.

La Morta, Guy de Maupassant, 1887
L'avevo amata alla follia. Ma perché amiamo? Non è una stranezza non vedere al mondo che una persona, una sola persona, non avere in mente che un solo nome, che andiamo mormorando senza posa, come una preghiera? Non dirò qui la nostra storia. L'amore ne ha una soltanto, sempre la stessa. E un giorno lei morì. Come? Non lo so, non lo so più. Rincasò bagnata, in una sera piovosa, poi l'indomani tossiva. Tossì e s’ammalò. Poi la febbre alta, e poi non lo so, non lo so più. Ho dimenticato tutto. Morì, e basta. Però ricordo benissimo, la bara, il rumore del martellare quando inchiodarono il coperchio. Mio dio! Fu sotterrata. Lei, lei, in quella fossa! Scappai il più lontano possibile, mi rifugiai in camera nostra, nel nostro letto tra le nostre cose. E lì trascorsi non so quanto, giorni, settimane, mesi. Poi un mattino il dolore fu così acuto che poco mancò che aprissi la finestra e mi buttassi in strada. Feci per scappare di nuovo via, ma mi fermai davanti al grande specchio dove lei si guardava ogni giorno prima di uscire, lo specchio che l’aveva riflessa così tante volte, che doveva averle conservato l’immagine. Ero lì in piedi, fremevo! Lo sguardo fisso su quel cristallo ormai vacuo, ma che l’aveva contenuta, intera, e posseduta al pari di me. Quanto il mio sguardo appassionato, e allora mi sembrò d’amare quello specchio e lo toccai, era freddo. Mio malgrado, senza saperlo, senza volerlo, tornai al cimitero. Sulla sua lapide queste poche parole: "Amò, fu amata, e morì". Io singhiozzavo. Poi mi accorsi che imbruniva, allora un desiderio d’amante disperato si impadronì di me. Passare un’ultima notte accanto a lei, piangendo sulla sua tomba. Per non essere scacciato dal guardiano io mi nascosi dietro gli alberi e a notte fonda, lasciai il mio rifugio e presi a camminare sul quel suolo pieno di morti, ingrassato di carne umana, per tornare da lei, Vagai a lungo ma era troppo buio e non la trovavo più. Allora prostrato sedetti su una tomba e un vago orrore strisciante si impossessò di me, mi sembrò che la lastra di marmo su cui sedevo si movesse. Balzai sulla tomba vicina e vidi, sì vidi, vidi alzarsi la pietra e il morto apparire, uno scheletro nudo che la sollevava con le spalle curve. Vedevo, vedevo benissimo e potei leggere sulla croce: "Qui riposa Jacque Olivant. Amava la famiglia, fu onesto e buono e morì nella pace del Signore". Intanto il morto aveva raccolto un sasso aguzzo e con essa cominciò a grattare via proprio quella scritta. Cancellò quelle parole lentamente e con la punta dell'osso che era stato il suo indice, scrisse: "Qui riposa Jacques Olivant. Con la sua durezza affrettò la morte del padre da cui voleva ereditare, tormentò sua moglie, i suoi figli, imbrogliò i vicini, rubò quando gli fu possibile e morì miserabile". A quel punto voltandomi mi accorsi che tutte le tombe erano scoperchiate, che tutti i cadaveri ne erano usciti, e che tutti avevano cancellato dalla propria lapide le menzogne per ristabilire la tremenda verità. Allora cominciai a correre in mezzo alle tombe aperte, tra quella folla di cadaveri in cerca di lei. La riconobbi da lontano, il viso avvolto nel sudario. Ma sul marmo della croce, al posto del vecchio epitaffio, ne scorsi invece un altro che diceva: "Uscita un giorno per tradire suo marito, prese freddo sotto la pioggia e morì".

La sepoltura prematura, Edagr Allan Poe
Essere sepolti vivi è senza dubbio, il più terribile tra gli orrori estremi che siano mai toccati in sorte ai semplici mortali. Che sia avvenuto spesso, nessuno vorrà negarlo. I limiti che dividono la Vita dalla Morte sono, nel migliore delle ipotesi, vaghi e confusi. Chi può dire dove finisca l'una e cominci l'altra? Per diversi anni sono andato soggetto ad attacchi di catalessi. Mi sentivo male, intorpidito e stordito, e così cadevo di colpo, sfinito. Poi per settimane intere, tutto era vuoto e buio e silenzioso. Mi svegliavo con lentezza, e l’idea di una sepoltura prematura si impadroniva del mio cervello. Giunse un momento in cui mi trovai ad emergere da una totale incoscienza. Sollevai le palpebre pesanti. Era buio, tutto buio. Tentai di gridare: ma non uscì voce dai polmoni, ansimavano e palpitavano. Le mascelle erano state legate come di solito si fa con i morti. Sentii anche che ero disteso e non potei più dubitare del fatto che alfine mi trovavo in una bara. Mi contorsi per aprire il coperchio ma non si mosse. Gridaii forte e un lungo grido echeggiò nei regni della Notte sotterranea.

Il corvo, Edgar Allan Poe
Una volta sul fare di una desolata mezzanotte, mentre meditavo, quasi sonnecchiando, d'un tratto, sentii un colpo leggero, come di qualcuno che picchiasse alla porta della mia camera. Desideravo arrivasse il mattino, poiché invano avevo tentato sollievo al dolore per la mia perduta Eleonora. Aprii la porta. Ovunque tenebre, e nulla più. Scrutando in quella profonda oscurità, rimasi a lungo, stupito, impaurito sospettoso; ma il silenzio rimase intatto, e l'unica parola sussurrata fu «Eleonora!». Soltanto questo, e nulla più. Spalancai l'imposta, e agitando le ali, avanzò un maestoso corvo e si appollaiò sulla porta della mia camera. Disse il corvo: « Mai più ». Ma il corvo, appollaiato solitario sul pallido busto, profferì solamente quest'unica parola. E i suoi occhi sembrano quelli d'un demonio che sogna; e la luce della lampada, raggiando su di lui, proietta la sua ombra sul pavimento, e la mia, fuori di quest'ombra, che giace ondeggiando sul pavimento non si solleverà mai più! Mai più!

Il cuore rivelatore, Edgar Allan Poe
Ogni notte intorno a mezzanotte, giravo il chiavistello della porta del vecchio e la aprivo. Perché non era lui che mi opprimeva, ma il suo Occhio Malvagio. L’ora del vecchio era venuta! Con un urlo, entrai nella stanza. Gridò una volta, una volta sola. Lo trascinai a terra, era morto. Il suo occhio non mi avrebbe più seviziato. Nascosi il cadavere sotto tre tavole del pavimento. Poi sentii bussare alla porta. Erano tre poliziotti. Dissero che qualcuno aveva udito un urlo e che dovevano perquisire la casa. Risposi che ero stato io nel sonno e li condussi nella stanza del vecchio. Mentre si chiacchierava cominciò a farmi male la testa, e mi sembrò di avere come un battito nelle orecchie. Si fece più forte e distinto, e mi accorsi che non era nelle mie orecchie. Erano un suono rapido, come di un orologio avvolto nell’ovatta. Lo udivano anche i poliziotti? No, ancora no. Il rumore non smetteva di crescere, sempre di più, sempre più forte, più forte, più forte. Ma com’era possibile che i poliziotti non lo sentissero? Noo, lo udivano, sapevano, è questo quello che pensavo. Ma qualsiasi cosa era meglio di quella tortura, più tollerabile di quella beffa. MISERABILI, dissi, SMETTETE DI FINGERE, IO CONFESSO CIO’ CHE HO FATTO, strappate quelle assi: È lì sotto, che pulsa il suo terribile cuore.

Il libro dell'inquietudine, Fernando Pessoa
I fuochi fatui, generati dalla nostra putredine, sono almeno luce nelle nostre tenebre.
[…] Sono sogni che mi sono dimenticato di sognare fino alla fine.