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Monumento di Lucrezia e Camillo Munarini

1824

Schede

Il monumento, voluto dalla famiglia modenese Munarini Sorra per i due figli Camillo e Lucrezia, sposa in seconde nozze del bolognese Pietro Conti Castelli, fu ideato da Vincenzo Leonardi e realizzato da Giacomo De Maria che nell’elenco autografo presso la biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna ricorda i due geni da lui modellati. La struttura squadrata è rivestita di lastre di marmi policromi e coronata da un’urna di stucco inghirlandata. Ai lati stanno due geni rivestiti di lunghe tuniche che tengono in mano torce, simboleggianti la vita che si spegne. L’iconografia dei geni funebri è in questo caso differente da quella più comune in età neoclassica, dove sono rappresentati quasi nudi e alati, con i lunghi capelli trattenuti da una fascia. Facevano parte del complesso due lucerne, simboli canonici della vita che si spegne e presenti nei corredi funerari antichi.

Antonella Mampieri
Gennaio 2008

Arrivato ai giorni nostri senza più eredi, e privo di quelle cure manutentive indispensabili alla conservazione delle opere nel tempo, il monumento si era notevolmente deteriorato: reso uniformemente grigio da uno spesso deposito di polveri, appariva sciatto e confuso, con i paramenti in marmo chiazzati da zone decoese, le figure dei dolenti fratturate e lacunose nel modellato, le lucerne spezzate e abbandonate fuori posto. A coronamento di tanto abbandono, un atto vandalico aveva privato il monumento delle due applicazioni in bronzo che ornavano le lapidi superiori, e di cui oggi rimane solo l'impronta. Per questa struttura, composta da un cippo su un alto basamento, furono scelti marmi di grande impatto coloristico: le tonalità dominanti sono quelle del rosso e del gialletto di Verona, mentre le lapidi e lo zoccolo variano dal grigio pallido al grigio scuro con venature bianche, e il tondo con il monogramma di Cristo nella parte superiore è in marmo verde. Per dare maggiore stabilità all'insieme, che si sviluppa verso l'alto partendo da una base relativamente stretta, per il basamento furono scelte lastre di grande spessore, mentre i rivestimenti superiori sono in lastrine di pochi millimetri, giuntate e stuccate, consentendo così una forte riduzione del peso sulla base. Il recente intervento di restauro, oltre a fermare il degrado dell'opera, è stato una felice occasione per acquisire informazioni sulle tecniche esecutive e restituire un'idea meno approssimativa della policromia dell'insieme: durante le operazioni di pulitura, infatti, si sono individuate tracce di colore su tutte le parti in gesso, e di una patinatura “ambrata” sugli elementi in marmo. I dolenti, l' urna, le lucerne, i due festoni a fianco delle lapidi superiori erano in origine tutti colorati o quantomeno intonati, e arricchiti da elementi dorati: le tracce delle finiture originali, rimaste nei punti più riparati del modellato, ci indicano il colore dei capelli e delle tuniche dei dolenti, la decorazione dell' urna e l'andamento delle dorature su festoni e altre applicazioni. E infine, anche le fiaccole dei dolenti, in legno intagliato e stuccato, erano interamente colorate. D'altro canto, la patinatura superficiale della struttura in marmo era stesa con intenzionale sapienza, in modo da dare continuità all'insieme pur sottolineandone le parti aggettanti. In conclusione, le finiture originali di questo monumento, se da un lato dovevano mettere in risalto la lavorazione dei diversi materiali, dall'altro creavano un “film” di collegamento tra i vari elementi e ne facevano un insieme policromo non solo di grande impatto, ma anche di raffinata bellezza.

Lucia Vanghi
Testo tratto da: R. Martorelli (a cura di), La Certosa di Bologna - Un libro aperto sulla storia, catalogo della mostra, Tipografia Moderna, Bologna, 2009.