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Maria Mariscotti

29 Dicembre 1815 - 7 Febbraio 1852

Scheda

Maria Mariscotti, da Carlo ed Elena Gozzadini Ariosti, nasce a Bologna il 29 dicembre 1815. G. Gibelli ricorda come dopo la morte del padre, la madre la “commise alle solerti educatrici del Refugio in Siena ove dimorò dall’anno ottavo al sestodecimo (…) Cultrice esimia della italica letteratura, conoscitrice della gallica e anglica favella, peritissima della musica, toccatrice impareggiablile del pianoforte (…) nelle nobili ragunanze era l’ornamento e la gloria”. Anche Marco Minghetti la ricorda come “a Firenze, a Torino, a Milano, a Venezia; fu stimata ornamento bellissimo delle geniali conversazioni”. Di idee liberali, aiutò economicamente gli Asili infantili di Bologna e sottoscrisse diverse raccolte a favore dei patrioti del Risorgimento. Nel 1845 si sposa con Luigi Pizzardi, da cui ebbe quattro figli, due maschi e due femmine. La prima femmina morì di pochi anni e la seconda fu la causa della sua morte, che avvenne il 7 febbraio 1852. "Ultimamente spinta da angosciosa brama, abbenchè il parto non fosse senza grave pericolo, deliberò ad ogni modo di tentar la pruova. Quindi dopo nove giorni di puerpero, sopraffatta da fierissimi dolori, e poche ore appresso spirò l'anima a Dio”. In sua memoria venne pubblicato un lussuoso 'Albo funereo' di 128 pagine cui fu chiamato a realizzarlo anche il pittore Alessandro Guardassoni, per incidere il ritratto della marchesa ed il Monumento di famiglia alla Certosa, opera dello scultore Cincinnato Baruzzi. Nel libro si trovano tracce biografiche, sonetti, poesie, musiche. Di lei scrivono, tra i tanti, Gioacchino Napoleone Pepoli, Carlo Pepoli, Marco Minghetti, Gaetano Golfieri, il poeta francese Antony Deschamps e diverse nobildonne, tra cui Teresa Salaroli Insom; mentre Giovanni Tadolini compone un madrigale. Ne viene un ritratto dove oltre ad elogiarne il ruolo della madre/moglie se ne esaltano gli interessi culturali, la partecipazione alla vita sociale e mondana. A lei spetta l'educazione dei figli, che deve essere sì improntata a valori tutto sommato tradizionali (devozione, carità, educazione ecc), ma anche a quelli dell’amore per la patria e per una oculata ricchezza ottenuta col lavoro. I due figli maschi seguiranno strade totalmente diverse tra loro, Carlo Alberto attento alla gestione del patrimonio di famiglia e filantropo; Francesco amante della belle vita e dei viaggi.

Ci è di aiuto Angelo Astolfi su come la madre cercasse di istruire i propri figli anche nella quotidianità: “Nei mesi dell'estate, allorchè la marchesa Maria s'intratteneva nella villa di Castel Maggiore, usciva di casa come a passeggiare co' suoi due primonati figliolini, si stendeva per la campagna come per diportarsi, e dati pochi passi: oh... diceva, rechiamoci a questa casuccia, ove abita una infermiccia vecchiarella, e udiamo se le faccia bisogna di alcuna cosa. La vecchietta, colta da quella improvvisa visita, rimase da prima alquanto sorpresa, ma a poco a poco si faceva cuore, e le rispondeva. Mamma, interrompeva Franceschino, hanno fame, e noi non abbiamo niente da offrire? Adesso, aggiungeva la mamma, daremo loro un poco di denaro, e provvederanno farina; e confortati di quell'aiuto, si volgeva ad altra casa, ove trovava altra famigliuola in eguali termini. Ma perchè mamma mia, aggiungeva Franceschino, non dai qualche baiocco anche a quell'uomo, il quale è tanto che ci seguita, e dice pure di avere fame? Bisogna che sappi, Franceschino mio, che quando il povero è giovine, sano, e può darsi al lavoro, si guadagni la vita da se medesimo. Guardate come è giovine, ben nutrito e membruto, si che potrebbe procacciarsi il pane per isfamarsi. Ma interrompendo le parole della marchesa, continuava Franceschino: ei dice che nessuno lo vuole lavorare. Or bene, rispondeva la madre, sappi che ieri papà fecer cercare uomini per una faccenda di campagna, ma questo giovinotto vuol esser volontario, tale per non affaticarsi. Per ciò non lo aiuto, ben sapendo, che se fosse volenteroso, papà gli avrebbe dato modo per subito averne."

Roberto Martorelli

"RITRATTO DI MARIA MARISCOTTI PIZZARDI. Rade volte la città nostra pianse così cordialmente la morte di alcuno come quella di Maria Mariscotti Pizzardi, che, giovane, bella, virtuosa e amabile, quasi d’improvviso, fu da crudele morbo rapita. E poiché ad onorarne la memoria vollero gli amici raccogliere queste poesie e queste prose, a me è grato succintamente ricordarne i pregi, affinchè si paia che ben a ragione il cordoglio della sua perdita fu vivissimo e universale. Qui non è da ammirare splendor di potenza e di ricchezze, non fatti insigni risonanti nelle bocche degli uomini, non casi diversi e maravigliosi di fortuna, ma una bontà modesta e una vita esemplare di figlia, di moglie e di madre. All’indole sua naturalmente inchinata al bene fu primo compagno il dolore, il quale affina le anime gentili, e le indirizza a virtù. Imperocchè avendo Ella perduto nella infanzia il padre, marchese Carlo Mariscotti, le parole che incominciò a formare furono di affettuosa mestizia. E forse nella mente, innanzi ad ogni altro, le ragionò distinto il pensiero di farsi consolatrice alla madre, che di sì grande sventura viveva soprammodo addolorata. Però sin d’allora Ella rivolse ogni intento a porgerle conforto, serenità, compiacenza; e la tenerezza figliale fu sempre sua guida per tutta la vita. Quindi col crescere degli anni mirabilmente apparivano in Lei prontezza d’ingegno, discrezione di giudizio, desiderio fervente d’imparare, senso squisito del bello. Laonde essendo entrata a fine di educazione nel ritiro di Siena detti il Refugio, quivi in breve ora apprese gli studi che a colta e bennata donzella si appartengono. Ai quali volle aggiungere eziandio notizia di più straniere favelle; non meno perciò curando la propria, anzi molto piccandosi di parlarla correttamente, con quell’accento ch’ivi più che in ogni altra parte d’Italia suona dolcissimo. Poi spingendola una disposizione dilicata verso la musica, si diede al suonare e vi fece così rapidi progressi che in breve conseguì eccellenza nell’arte. E non solo aveva acquistato l’agilità e la maestria di vincere le difficoltà più ardue, ma principalmente di esprimere gli affetti, e commuovere l’animo degli ascoltatori. Per la qual cosa allorchè nei sedici anni, uscita dal ritiro, cominciò a trovarsi in amichevoli compagnie, fu ammirata da tutti coloro che la conobbero. E guadagnava gli animi pur col primo aspetto: persona grande e svelta, capegli neri e morbidi, dolce sorriso, occhi vivacissimi ombrati di lunghe palpebre spiranti soavità, portamento atteggiato di urbanità, di brio, di gentilezza. Né meno cari erano i suoi modi, nei quali si mostrava graziosamente composta; ed era giudiziosa nel discorrere, nelle risposte arguta, grave senz’affettazione colle persone serie, e piacevole colle giocose. Pertanto non è da meravigliare se viaggiando per varie contrade, lasciò di sé grandissima rimembranza a Firenze, a Torino, a Milano, a Venezia; e fu stimata ornamento bellissimo delle geniali conversazioni. E qui io trovo argomento principale di lodarla, chè seppe ad un tratto trasformare le abitudini e il tenor della vita, quando nel 1845 divenne sposa del marchese Luigi Pizzardi. Del quale debbo tacere per non offenderne la modestia, e dirò solo che fu per ogni parte degno di essere da lei riamato. Ma la novella famiglia nella quale entrava menando vita ritirata, e direi quasi chiusa nelle casalinghe pareti, Ella tutta spontanea di quella vita si piacque, e depose ogni altro pensiero, e si dipartì da ogni diletto che non fosse delle cose domestiche. Questa giovane vezzosa che pur dianzi frequentava i sollazzevoli ritrovi, che lieta compariva nelle danze, nei teatri, mutò costume sì fattamente che avresti detto la sua naturale propensione essere stata sempre alla quiete solitaria. Il che rende più commendabile ogni altro suo pregio; perché se è raro anche gli ottimi divezzarsi dalle consuetudini, e dai piaceri ai quali sono usati, rarissimo e tanto più mirabile è il farlo con franchezza e giovialità. Ed oh come piacque non solo al suo marito, ma allo suocero ed ai parenti! Ella ebbe in breve la confidenza di ognuno, avvivò l’amore che a vicenda si portavano, fè più care le gioie loro, men tristi gli affanni, e fu l’angelo della famiglia; però è facile il comprendere come in quella casa il danno della sua morte sia irreparabile, e appena si osi parlare di consolazione.

L’età molle e codarda disdice al sesso gentile partecipare pur col pensiero e coll’affetto alla cosa pubblica; come se le donne non avessero patria, o fosse sperabile allevare cittadini assennati e forti dove le madri a tale ufficio non siano apparecchiate. Io tanto più mi compiaccio di encomiare pubblicamente questa gentil donna, la quale ardentemente amò il paese nativo, e in tempi fortunosi diè prova di sentire magnanimo, quanto era nella sua condizione possibile. Ed io più volte l’udii rammaricarsi che i suoi figliuoli non fossero in età di servire la patria, e permettere che non avrebbe perdonato a fatiche per dar loro educazione virile e generosa: nulla sembrandole più spregevole della ricchezza stupidamente e boriosamente infingarda. Questo amore de’ propri figli è la corona delle altre sue virtù. Imperocchè a se sola gelosamente riserbava tutte le cure intorno ad essi: provvedere alla sanità e alla mondezza del corpo, apprender loro i primi rudimenti della religione, infondere in quelle tenere menti soavi e pietosi pensieri, mescolarsi ai lor giuochi, farsi con essi bambina. Vedeva già i due più grandicelli rispondere alle sue cure; la terza aveva perduto in sul nascere con inestimabil dolore; e quando il piccioletto Carlo di sei mesi appena sostenne una lunga e penosa malattia, vegliò le intere notti, né quasi mai consentì di prendere riposo, indarno pregandola istantemente i suoi di non logorare le proprie forze. Ma quella cortese anima che in ogni cosa era docilissima ai desiderii altrui, anzi si studiava di antivenirli, allora solo diventava tenace della volontà, quando credesse di adempiere un dovere. E forse questo grande amore materno non fu estraneo alle cagioni della sua morte. Aveva Ella desiderato vivissimamente, e sperato di allattare i proprii figliuoli, ma sempre alla speranza era venuto meno l’effetto: di che soleva chiamare questo il maggior cruccio della sua vita, parendole di tal guisa non essere del tutto madre. Ultimamente spinta da angosciosa brama, abbenchè il parto non fosse senza grave pericolo, deliberò ad ogni modo di tentare la pruova. Ma il timore di non essere da tanto l’agitava: sforzavasi di prendere nutrimento, non risparmiava disagi, dissimulava i suoi patimenti, mostravasi col volto sorridente. Quindi dopo nove giorni dal puerperio, sopraffatta da fierissimi dolori, non appena si manifestò il male che già era perduta ogni fiducia di salvarla; e poche ore appresso, il 7 febbraio 1852 in età di trentasei anni spirò l’anima a Dio. Parve per alcuni cenni ch’Ella fosse accorta della gravità del suo male, e forse stava per chiedere a’ suoi cari l’ultimo bacio; ma volendo evitar loro sino alla fine ogni doloroso commovimento, e facendosi forza per non affliggerli, subitamente si ricompose a serenità di aspetto e di parole. E rivolto l’animo a Dio, ricevè con edificazione grandissima i sussidii di quella Religione, la quale aveva con purità di fede e interezza di opere costantemente professata. Diranno altri parole di compianto a voi, ottimo ed infelicissimo Luigi, alla desolata madre, all’amoroso fratello. Io avrei voluto più efficacemente esprimere le sue virtù: imperocchè stimo che niun più nobile esempio si possa offerire all’universale di una bontà verace e modesta, né più caro premio desiderarle delle lagrime di una intera città. MARCO MINGHETTI"  (Trascrizione a cura di Lorena Barchetti)

"LA PRIMISSIMA EDUCAZIONE MATERNA DATA DALLA MARCHESA MARIA PIZZARDI A’ SUOI DUE FIGLIOLINI PRIMONATI E CIOE’ FRANCESCHINO IN ANNI SEI, E CAMMILLUCCIO DI ANNI QUATTRO. Allietata la città nostra all’annuncio del vinto pericolo dell’ultimo parto della incomparabile dama marchesa Maria Pizzardi, nata marchesa Mariscotti Berselli, già gli amici, e i conoscenti delle qualificate famiglie prendevano parte alla letizia della nobile puerpera, la quale, senza sconcio di salute, mostrava ferma speranza di riuscire a crescere la cara bambinella col latte delle stesse sue viscere: quando, pochi dì appresso, corse improvvisa e funesta la voce della repentina sua morte. Il compianto, e le sclamazioni di tutti i buoni per la tanta sciagura tocca a questa giovine dama, all’estimato consorte, e ad ambe le due nobilissime famiglie Pizzardi, e Mariscotti, persone tutte avute in gran conto nell’intero paese, pareva che dimandassero parole di conforto da’ loro concittadini, allorchè celebrati dicitori, e chiari poeti si sentirono, per generoso movimento del cuore, tratti a farlo. E se alcuno maravigliasse che io vecchio, ed accasciato, abbia ardito intromettere in questa alta e preziosa raccolta succinta prosa, sappia, che, richiesto da ottimo amico, non ho potuto, alla gentilezza dell’invito, ricusare questa umile prova, dettando breve articolo. Quale ha preso a parlare distesamente i molti pregi, che resero cara all’universale la marchesa Maria, vi favellerà a lungo ancora del molto intensissimo amore, che questa tenera madre nutriva verso i suoi tre primo-nati fanciulli, al fine di prepararli, fatti più grandicelli, a ricevere nel loro intelletto la fruttuosa semenza delle cristiane, e civili virtù. Forse non avvi madre educata ai principii della santa nostra religione, che non si senta penetrata del dovere di condurre i figliolini all’esercizio di queste virtù, e non si studii a farlo. Ma se qualche volta vien meno in alcune l’effetto che si propongono di ottenere, ciò addiviene, perché giunti i loro bambini all’età, in che la mente comincia fil filo ad assodarsi, e a dar campo acconcio agli adatti insegnamenti, non glieli porgono in modo suscettivo a passar dentro il vergine intelletto, ed a lasciarvene traccia. Or bene, nel mentre pertanto, che facondi oratori, ed illustri poeti, vi ragioneranno le esimie virtù della lagrimata defunta, io mi piacerò di ricordarvi, o Egregie Signore, chiamate dalla provvidenza ad educare i teneri vostri figliolini alle pratiche religiose, e sociali, a qual maniera si attenesse la marchesa Maria Pizzardi di pur aggiungere un tal fine. Ed il farò, come meglio mi sappia: che se nella sterile vena del discorso, non troverete fiore di eloquenza che vi diletti, cercherò di riconoscervene, se a tanto valgo, con un parlare così spianato ed aperto, che possa convenire a tutte quante le buone madri di famiglia, a cui vorrei che arrivassero queste mie parole.

Superati i primi anni della balbuzie, al venire del quarto circa, in cui per solito i figliolini cominciano a spicciare un po' distinte le voci della favella, e ad appropriare questi segni, (e cioè le rispondenti parole che ascoltano proferire dagli altri più attempati) alle fisiche sensazioni, che ricevono dai corpi circostanti, la marchesa Maria s’ingegnava di riempire grado grado il magazzino, o, appelliamolo così, serbatoio delle mentali impressioni ricevute, secondo che il caso gliene andava porgendo la favorevole occasione: od allorchè i bambinelli, che nuovi alle cose del mondo, li veggiamo sempre vaghi, per naturale istinto di apprendere, colle loro dimande si facessero a richiederla di alcun che. E per chiarire meglio la cosa, vi dirò, come la marchesa Maria adoperasse, quasi ascoltaste ella stessa, in una tale bisogna. Ponghiamo che al mettere della primavera quando il sole comincia ad infuocarsi, co’ suoi raggi ferisse il davanzale della finestra del gabinetto, ove questa sollecita, ed amorevole madre passava la mattina intrattenendosi co’ suoi fanticini, e Franceschino il maggiore di età, baloccandosi, si accostasse per ventura alla ridetta finestra, e rimanesse colpito da que’ tiepidi solari chiarori: se gli avvicinava la marchesa Maria con Cammilluccio, il secondo nato, per mano, e diceva al primo: senti come le tue manine son divenute calde, e più rosse, nel mentre che quelle del fratellino rimangono nel suo calore, e color naturale. Quel corpo lucidissimo, ed abbagliante (che si chiama sole) , il quale corre là su, ed accennava al cielo, per quelle immense vòlte di tinta aierina, e che quando va in alto apporta il giorno, e quando si fa basso e si nasconde, reca le tenebre e la notte, dà calore, e quanto più scalda meglio accende l’aria fino a che giunga l’estate, il tempo de’ frutti, come vedeste nello scorso anno. Ritirati, figliuol mio, dai raggi del sole, che non ti nuocessero: ed altro per allora non aggiungeva. Nel pomeriggio, andando co’ suoi due Bambini in carrozza al passeggio, fuori alcuna porta della città, Ella, come per caso, bellamente rappiccava il discorso tenuto la mattina entro il suo gabinetto, e veggendo che le siepi, e gli alberi che chiudevano i lembi della via percorsa, cominciavano a rinverdire, loro diceva: vedete, miei carini, come quel sole, che questa mattina era là su in alto in quel grande spazio del cielo, e che ora sta per celarsi colà dietro a quelle nubi, e discomparire, col suo calore che di giorno in giorno va accrescendo, dia a quegli arbusti forza maggiore per metter fronde, e per isbucciare alcun fiorellino. Appunto come in questa mattina tu, Franceschino, rimanendo vicino alla finestra sotto i suoi raggi, ti aveva cotanto accaldato il viso, e le manine, nel mentre che io, e Cammilluccio, che n’eravamo lontani, avevamo le nostre nello stato naturale. Quello stesso calore, il quale tu hai provato, ha infuocati quei tronchi, e scaldata pure la terra, in cui sono piantati, e per ciò hanno cominciato a dar fuori e frasche, e vedrete come saranno belli da qui a pochi dì. Così dopo alquanti giorni, andando alla solita passeggiata co’ suoi figliolini, intenta faceva loro annotare, che quelle stesse piante avevano già del tutto fogliato, ed erano gremite di fiori, sì che era una meraviglia a vederle.

In altro giorno diportandosi in carrozza co’ suoi due bambolini fuori d’altra porta, che sapeva acconciamente scegliere a que’ fini istruttivi, che si proponeva, passando vicini ad alcuna ampia villesca casa intorniata da grandi alberi, fermato il cocchio, richiamava l’attenzione de’ figliolini sopra altri oggetti, che tutti ben meditava in prima di far loro considerare. Vedete, diceva la sollecita madre, come è alto e spazioso quell’edificio, e come alti e maestosi quegli alberi, che lo contornano. Guarda mo, Franceschino mio, e tu pure Cammilluccio, quanto è piccola e stretta quella casina (e così piccoli quegli alberi che le sono vicini) che sta in fondo alla strada diritta diritta, la quale ora vogliamo camminare. Adesso noi ci condurremo fin là, e troverete che forse è maggiore di questa, che ora è qui alla nostra vista. In fatto giuntivi, la scorgevano di più grande capacità, ed ampiezza dell’altra, e così gli alberi contigui. Messi i figliolini in quella innocente sorpresa, ella loro spiegava ragione di ciò, soggiungendo, che la maggiore o minore distanza da un oggetto all’altro è quella che aggrandisce o rappicciolisce i corpi nel loro volume: senza entrare in altri argomenti di Ottica, e di Fisica non comportevoli all’intendimento loro. E perché in quell’età più che le ragioni anche solo alcun poco astratte, meglio valgono quelle che sono mostrate vere dai sensi, data volta addietro al cocchio, faceva loro riconsiderare la casa, la quale avevano veduta così grande al principio di quello spazio diritto di via poco fa percorsa, e che in quel momento, senso lontani dalla medesima, appariva loro così piccola, per niente altro che per essersi dilungati dalla stessa. Quindi retrocedendo, e giunti a quell’abituro, a cui da prima aveva lor fatto por attenzione per la sua vastità, e che in seguito, allontanatisi dal medesimo per buon tratto di via, avevano osservato cotanto impicciolito, que’ bambinelli andavano subito capaci della verità di quella teoria, e del tutto se ne persuadevano. Nel succedente dì, finchè la loro mente era di fresco imbevuta di queste idee, se la giornata era quieta e temperata, usciva al passeggio nel dopo desinare a carrozza scoperta, e rientrando, quando al far della notte cominciava a stellarsi il firmamento, diceva a’ suoi due figliolini: Guardate ora, che il sole è del tutto da noi scomparso, osserviamo cosa, la quale per la sua chiarezza e molta luce questa mattina non potevamo vedere. Là su in alto, e cioè nel cielo, vi sono certi punti lucidi e splendenti (che si chiamano stelle) e che da qui a poco quando sarà a pieno abbuiato si raddoppieranno così a dismisura, che tutto ne sarà riempiuto. E dopo brevissimo tratto di tempo essendo la cosa per guisa avvenuta, la marchesa Maria riprendeva a dire a’ suoi bambolini: Guardate adesso, come il cielo è copioso di que’ puntini lucidi, i quali abbiamo detto chiamarsi stelle, sì che non avvene spazio, sebben piccolo, che ne sia vuoto. Queste stelle sono altrettanti soli (senza entrare allora in discorso di stelle fisse ed erranti, siccome di cose di più alta sfera da non potersi sostenere dalle loro tenere menti) i quali soli non ci appariscono così grandi, come quello che veggiamo nella mattina, perché questi soli, che appelliamo stelle, sono a tale sterminata distanza da non potersi mostrare a noi che picciolissimi. Come avete veduto di quella casina che ieri ci sembrava tanto breve ed augusta nel fondo di quella lunghissima e diritta strada, e giuntivi presso, l’abbiamo trovata più alta e grande dell’altra riposta sul luogo, di dove eravamo partiti. Il qual discorso per la insegnata teoria delle distanze, verificato dai due bambini cogli stessi loro occhi, subito li piegava, ed induceva a credere veritiero ciò che loro dava a conoscere la madre. In mezzo a tanti soli, proseguiva la marchesa, immaginatevi, figliuoli miei, qual luogo di delizie sarà quello! E subito Cammilluccio. E chi sta là su? E la mamma rispondeva, il padrone del mondo; ed il fanciullino: e chi è? Si chiama Dio; e tornati a casa, rifiniva la madre, vi dirò poi chi sia. Non erano per aneo sieduti nel consueto gabinetto che, già vel potete figurare, entrambi fanciullini, si facevano a dire: significateci adunque mammà chi sia questo padrone del mondo, che si chiama Dio. Ed eccovi con quali poche idee, ma chiare nella mente di que’ figliolini, quanto la luce del dì, gli aveva preparati a ben ricevere le appropriate sue lezioni teologiche, ma da radicare si a fondo, da non poter essere divelte né per lunghezza di tempo, né per infuriare di passioni, anche giunti a più ferma età.

Io non vi vorrei attediare con più lunghe parole, e tali, quali già Voi tutte, mie Signore, saprete credervi, e mettervi in testa: ma se pure bramate di seguitare, per così dire, ad udir quasi il suono della voce della marchesa Maria, aggiungerò, ch’ella in tal modo si esprimeva co’ due suoi bambinelli. – Vi ho detto tornando a casa in carrozza, nel mentre che tutti eravamo intesi a guardare quella infinità di stelle, o soli, che formavano la nostra meraviglia, che in quel beato luogo di gaudio e di contentezza, vi sta Dio, che è il padrone non solo del mondo, ma di tutto quanto esiste. Quest’essere divino che è sempre stato e sempre sarà, n’è egli solo padrone, perché ha tutto da sé creato, come ha creato voi due, me, il papà, in somma tutti gli uomini, e tutte le cose che vedete. E ci ha messi al mondo, essendo di un immenso amore, e di una immensa bontà, per renderci un gran bene, che è quello, quando avremo finita la vita, di prenderci con lui a godere di tutte quelle delizie, che sono là su, ove egli medesimo abita. Ma per venire da lui chiamati, bisogna che noi pure siamo buoni e lo ubbidiamo. E come si fa ad ubbidirlo? Riprendeva Franceschino, perché io voglio stare con lui, allorchè morirò; e ci sarete voi pure e papà, vi saranno i fratellini, non è vero? Fa d’uopo, proseguiva la marchesa, adorarlo e servirlo, come si comanda. E ci comanda due cose sole, e cioè di venerarlo, temendo di lui, e di voler bene agli uomini, quasi che fossero tutti nostri fratelli. E però dimani mattina, quando vi toglierete dal letto, e così nella sera prima di coricarvi, vi prostrerete, e lo adorerete, come io vi insegnerò. E ricordevoli di queste parole, non erano già in piè, che pregavano la mamma ad indirizzarli a Dio. Ed ella genuflessa e così i suoi bambini, intuonava una breve prece, aspettando che l’età un poco più avanzasse, per metter loro in bocca quelle preghiere che chiesa santa ha insegnate al cristiano per render omaggio al suo creatore. E non erano decorsi due o tre dì da che quei docili figliolini tenevano sì buone pratiche, che già al primo uscire del letto, ed alla sera in ricollocarvisi, da loro stessi si piegavano a terra, e si componevano per recitare l’orazioncella, che mamma era consueta far loro proferire:sì che presa in tal guisa la buona abitudine, non era a temersi che si mostrassero a ciò incresciosi, né che mai la intromettessero. Questa instruzione, a mano a mano che si presentavano opportune occasioni, la marchesa l’andava dilatando, ma sempre con questi semplici bensì, ma profittevoli modi. Onde una sera al principiare della solita preghiera, Franceschino, voltosi alla madre, le chiese: Ma il Signore che sta fino colassù nel cielo in mezzo a quei tanti soli, e che perciò è tanto lontano, udirà poi la nostra voce così sommessa? E la mamma – Iddio colla sua presenza è da pertutto, quantunque noi non giugniamo a vederlo, ed ovunque Egli ci tiene d’occhio, e ci ascolta; onde se mai per caso diceste una bugia, subito il saprebbe, e ve ne potrebbe dar castigo. – Ma questo gran Signore, o Iddio, ha anche qui da noi i suoi palagi, e le sue case, che si chiamano chiese, ove i suoi figliuoli, e cioè tutti gli uomini, vanno a visitarlo, e a pregarlo nei loro bisogni; e dimani noi pure saremo a quel luogo: per cui il desiderio, e la letizia in que’ bambolini di recarsi alla chiesa nel conseguente dì, di momento in momento così in loro cresceva, che pareva un secolo il tardare fino al giorno appresso, per venire appagati di quella brama. Già nella mattina memori della impromessa loro fatta dalla mamma, appena ne la vedevano, se la stringevano entrambi attorno, e: quando andiamo, chiedevano a gran premura, al palagio del Signore, che avete detto chiamarsi chiesa? Da qui a poco, ridiceva la marchesa. Intanto vi farò mettere in abiti solenni, perché dovendo comparire nella casa del padrone del mondo, bisogna che mostriate per ogni maniera, specialmente che entrate a lui per la prima volta, di rispettarlo a gran segno. Quindi compagnatasi a questi due suoi bimbi ne li traeva, dite mo, al nostro maestoso tempio di s. Domenico, ed al primo posarvi il piede, ne rimanevano attoniti, e presi d’alto stupore. Vedete là, faceva conoscere la marchesa Maria a’ suoi figliolini, quante altre persone stanno intese a ringraziare Iddio de’ beneficii ricevuti, e a pregarlo conforme ai bisogni loro. Facciamolo noi pure, per raccomandarci a lui, E messasi a mostra di devozione, voleva che subito i suoi bambolini facevano altrettanto, e volenterosi seguivano colla voce, la breve preghiera, che loro insegnava. Pòrta la quale, la marchesa faceva loro notare gli altari su cui i ministri di Dio celebravano i riti della religione per rendere gli uomini sempre più accetti a Dio, e degni di andarlo poi a godere, se erano stati buoni. E se a caso alcun monaco o sacerdote trapassava la chiesa, o stava là orando, loro dichiarava, che quelli appunto erano i ministri di Dio, e per questo meritevoli, e degni del maggior ossequio, siccome queglino che venivano da Dio stresso prescelti a fare accorti gli uomini dei doveri che loro correvano verso il creatore, o per iscamparli dalle pene incorse da coloro, i quali, non essendo stati buoni, lo avevano offeso. Colle quali nozioni semplicissime bensì, ma fermamente impresse nelle tenere menti de’ suoi figliolini, la marchesa Maria guidava, senza punto infastidirli, i medesimi all’adempimento de’ più grandi atti della vita, e cioè a succhiare, per così dire, col latte i principii religiosi per condurli colla scorta di questi alla pratica dei doveri civili, conforme qui narrerò.

Chi tutto sta in pensiero del vero bene di alcuno, tosto trova modo di raggiungere il fine propostosi. Nei mesi dell’estate, allorchè la marchesa Maria s’intratteneva colla sua diletta famiglia nella villa di Castel Maggiore, in un tal dì da lei stabilito, usciva di casa come a passeggiare co’ suoi due primonati figliolini, ed entrata la chiesa del paesetto per porgere a Dio succinta preghiera, (e non lasciava mai, ove se le presentava il destro di farlo, abituandoli a ciò) si stendeva per la campagna come per diportarsi, e dati pochi passi: oh…diceva, rechiamoci a questa casuccia, ove abita una infermiccia vecchiarella, e udiamo se le faccia bisogno di alcuna cosa. E se terrà necessità d’alcun che, occorre che subito la sovveniamo, perché Dio, il padrone del mondo, siccome ricorderete, ci comanda non solo di riverirlo, ma di fare ogni maggior bene che possiamo al nostro prossimo, vale a dire a tutti gli uomini, come fossero tutti nostri fratelli. E spintasi oltre la soglia con Franceschino, e Cammilluccio per mano: come va? Diceva del miglior garbo la marchesa alla povera donna, che stava sbocconcellando un po' di duro e nero pane con intorno due bambinelli. La vecchietta, còlta da quella improvvisa visita, rimase da prima alquanto sorpresa; a poco a poco si faceva cuore, e le rispondeva: Vorrebbero sempre mangiare questi benedetti figliuoli, e tutto il pane che ho in casa sta qui. Fino a chenon ritorna Giacomo, il figlio mio, il quale è a lavorare in castello, non si ammannisce la polenta, ed eglino non vorrebbero aspettare fino a sera, e mi stanno sempre a canto per cibo. Mamma, interrompeva Franceschini, hanno fame, e noi non abbiamo niente a loro offerire? Adesso, aggiungeva la mamma, daremo loro un poco di denaro, e provvederanno pane o farina; e confortati di quell’aiuto, si volgeva ad altra casa, ove trovava altra famigliuola in eguali termini. Così adoperava con una terza, e con una quarta, e forse con più aktre, e ritornando al suo palagio, la marchesa cominciava la sua morale e cristiana instruzione, dicendo ai due suoi figliolini: Vedete, ora abbiamo compita una buona azione, perché abbiamo obbedito a Dio, il quale ci ordina di venire al bisogno de’ nostri simili, ed abbiamo usato bene il nostro denaro, facendo agli altri quello che si vorrebbe fatto a noi medesimi. Perché se tu avessi fame, o Franceschino, e nessuno ti porgesse pane, rimarresti perciò molto tormentato, per non sapere come porre rimedio a questo stremo; onde noi che abbiamo aiutate quelle povere madri di famiglia, le quali non avevano pane, né per loro stesse, né per i loro bambini, abbiamo adempito ad un dovere impostoci da Dio, mostrando di amare il nostro prossimo come noi stessi. Ma perché, mamma mia, aggiungeva Franceschino, non dai qualche baiocco anche a quell’uomo, il quale è tanto che ci seguita, e dice egli pure di aver fame, né aver mezzo a disgiunarsi? Bisogna che sappi, Franceschino mio, imprendeva a rispondere subito la marchesa, che Dio vuole, che quando oil povero è giovine, sano, e può darsi al lavoro, si guadagni la vita da se medesimo, e lo faccia pure pe’ suoi figliuoli. Guardate come è giovane, ben nutrito e membruto, sì che faticando, potrebbe procacciarsi il pane per isfamarsi. Ma, interrompendo le parole della marchesa, continuava Franceschino che è fanciullo vispo, e bene svegliato: ei dice che nessuno lo vuole a lavorare. Or bene, riprendeva a dire la marchesa, sappi che ieri papà, il quale voleva compiere alla presta una faccenda di campagna, fece cercare qui in castello, e fuori, quanti uomini si potevano avere, e molti si ricusarono, soggiungendo di viver meglio, e senza disagi in andar pezzendo che ad opera. Dunque questo giovanotto è un povero volontario, e vuol esser tale per non affaticarsi. E Dio comandando il lavoro al povero e questi disubbidendolo, per ciò non lo aiuto, ben sapendo, che se fosse volenteroso di lavoro, papà gli avrebbe dato modo per subito averne.

Noi, figliolini miei, seguitava a dire la marchesa, siamo stati adesso in quattro o cinque casucce di miserabili, e non vi abbiamo trovato dentro che povere vecchie, quasi tutte disacconcie per la troppa età alla fatica: pure erano intese al manuale lavoro della conocchia, e d’altronde ognuna vigilava i bambini di casa, nel mentre che i loro genitori saranno stati a guadagnarsi il pane da qualche contadino. Nella seconda casipola ove siamo entrati, la povera madre di que’ tre fanciulletti da due anni è rimasta vedova; tuttavolta ella è sì industriosa e procacciante, che di qualche maniera riesce a sostenerli, provvedendo anche, come meglio può quella vecchietta la quale fu madre al marito defunto. Conoscendo io che questa infelice durava troppi affanni, e fors’anche non arriverebbe a nutricare, quanto bastasse, la famigliuola, la vado soccorrendo: ma dammi compenso nella molta cura che si prende per crescere i figliolini da veri e timorati cristiani. Ma, cara mamma, avete veduto, che Carletto il maggiore, forse di età eguale alla mia, diceva Franceschino, non aveva in dosso che una camicia tutta lacera, e rattoppata? Io ne ho tante; dimani prendiamo con noi il cameriere, che la porti, e diamocene una delle mie. Non occorre del cameriere, pronta rispondeva la marchesa, perché essendo una tua camicetta di ben poco volume, e di poco peso, possiamo farlo da noi. Poi devi sapere, figliuol mio, che le limosine devono essere celate a tutti, e non si dice mai a persona alcuna: io ho dato tanto a quel mendico od a quell’altro; dovendo noi porgere quell’aiuto a’ poverelli per obbedire a Dio, che ce lo comanda, ed Egli tutto vede, e tutto sa. Ma Cammilluccio, che a capo chino, e cogli orecchi levati stava intento al discorso della marchesa col fratellino, arrossatosi in faccia come fiamma, e con due lagrimucce agli occhi, che gli rigavano la faccia, non attentandosi di manifestare un generoso sentimento, che gli faceva impeto al cuore per venir fuori, voltosi alla madre, con voce rotta le diceva – Io pure voglio portare a Carletto una camicia – Sì, figliuoli miei carissimi, soggiungeva la madre, dando in uno scroscio di pianto, ma pianto di letizia e di consolamento, veggendo nell’animo loro germinare sì cristiani ed umani sensi verso il prossimo, quantunque in tenerissima età. Sì, figliuoli miei, dimani ognuno di voi darà a Carletto una camicia per coprirlo alla meglio della sua nudità. Ed in continuare, ritornando al castello, a discorrere la filantropica materia dell’obbligo ne’ ricchi di porgere aiuto ai bisognosi colla più larga mano che potevano, significava a quei due suoi bimbi un suo pensiere, quasi allora, come d’improvviso sortole in testa. Nel futuro estate, allorchè verrà stagione di renderci in contado, noi faremo massa di tutti que’ giubberelli, od altre cose di vestiario, che non sono più da voi, e qui li spartiremo fra que’ tanti poverelli, i quali ne avranno d’uopo. Ma non bisogna dirlo a persona, bastandoci di sapere, che con ciò facciamo opera grata a Dio, il quale ce ne darà premio in questa vita, ed in quel beato soggiorno, ove se saremo buoni, ci chiamerà dopo morte. Sì, sì mamma nostra, prenderemo tutto con noi, ripetevano allegri i fanciullini, e daremo un vestitino a Carletto, e a quegli altri, i quali ne tengono necessità. Per tal guisa giubilosi e festanti compiacevasi di sì belle azioni, le quali al certo nella successione del tempo sorrette, e del continuo assodate dagli esempli paterni ed aviti, non che da quelli di un loro strettissimo congiunto, la cui rara, ed affinata modestia mi fa divieto al nominarlo, daranno preziosi frutti in questi cari figliolini di chiare cittadine virtù: di quelle virtù, dico, de’ nostri doviziosi e nobili maggiori, i quali lasciarono monumenti della loro carità, e del loro amore verso i poveri, di cui noi pure al presente veggiamo godere tanti mendici e tanti ben nati cittadini, forse a caso scaduti di fortuna. Ma il pazzeggiare in troppo sfoggiata sontuosità lascia a ben pochi oggidì il merito di andar dietro a questi gloriosi fatti!

E da che qui sopra ho parlato dell’uso a cui la marchesa Maria destinava i vestimenti dismessi de’ suoi figliolini, per innamorarli anche in questa maniera degli atti di carità verso il prossimo, permettermi che con brevissime parole, senza abusare la vostra provata tolleranza, dica cosa dalla medesima operata, che mi pare meritare speciale ricordo. Allorchè occorreva, o pel variare delle stagioni, o per altro fornire i suoi fanciulletti di abitucci, chiamava a sé il sartore, e ne gli ordinava ben adatti alla persona, e di un tal panno, o di tale stoffa, come i più costumavano. E se il sartore stesso, od alcuna damigella, a caso presente, si fossero fatti a suggerirle, che la moda corrente dimandava un altro colore, od un altro taglio, la marchesina loro rompeva le parole in bocca, dicendo, che i vestiti sono stati introdotti per coprire la nudità e per guardarsi dal rigore della stagione, non per formarne oggetto di pompa e di fasto. E se Dio l’avesse donata d’alcuna fanciullina (come poi avvenne dalla sua Cesarina in quell’ultimo parto, per cui pochi giorni dopo a causa d’invincibili dolori colici le venne meno la vita) non avrebbe certo permesso, come da tanti al presente stoltamente si adopera, di vederla adornare, o meglio travisare e mascherare con nappe, con galani, con fermagli, e con ciondoli d’ogni colore e d’ogni maniera, per attrarle nelle strade della città gli sguardi e i plausi degli uomini materiali, e così farle germogliare nell’animo sensi di gonfiezza e d’alterigia, prima che conoscesse a quai pericoli quell’invanirsi la potesse condurre. E con questi modi tenuti, senza uopo di alcun libro e di alcun maestro, veniva la marchesa Maria formando il cuore de’ suoi figliolini alla pratica della religione e delle sociali virtù, da vedere già presso il momento di consegnare al suo diletto consorte il primonato Franceschino, affinchè scegliesse quell’insegnatore, il quale il doveva indirizzare allo studio delle buone lettere, quando fu presa da quella sì grave infermità, che di sopra ho ricordato. E sempre durando nel pensiere de’ figliuoli, allorchè smarrita la luce delle pupille, sentì vicina la mortale sua finita, rivolto il viso da quella parte, ove credeva tuttora presente il suo ben accordato marito, disse con affiocata voce….Luigi, i figliuoli….quasi per ricordargli con quelle estreme parole, come ora gli spettasse il riuscire di quell’ufficio, che per supremo giudizio di Dio le era tolto di portare all’ultimo. Ma la mia immaginazione corsa a quel letto di morte, e scossasi da sì lugubre aspetto mi si offusca, e intenebrisce….; pure d’alcuna guisa è forza chiudere la mal composta diceria….sendo io povero d’idee, non so che ripiegare il discorso sulle prime sue parole. Volete, mie buone madri di famiglia, siate nobili ed agiate, siate popolane e malestanti, adempire quel sacro dovere, a cui tutte, senza distinzione d’ordine, vi soggettaste nel dì che stringendo dinanzi Dio il voto matrimoniale, prometteste di educare cristianamente la prole? Prendete a modello le sante virtù della marchesa Maria Pizzardi, e studiosamente ricopiatele. ANGELO ASTOLFI". (Trascrizione a cura di Lorena Barchetti)