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La Chiesa di San Girolamo - un cantiere di restauri e recuperi

1980 | oggi

Schede

La chiesa di S. Girolamo negli ultimi trent’anni è stato al centro di un piano di riqualificazione dei suoi valori pittorici, plastici e architettonici. I restauri realizzati si possono identificare in tre tipologie diverse d’intervento: il recupero conservativo delle nove tele di soggetto cristologico che ornano le pareti laterali della navata centrale e delle cappelle laterali; la riqualificazione globale delle tre cappelle interne, anticamente riservate alla devozione dei monaci certosini; infine il restauro delle tre tele di Bartolomeo Cesi ispirate al tema della Passione di Cristo (Orazione nell’Orto, Crocefissione, Deposizione) che decorano la cappella maggiore, ciclo d’intervento che sarebbe auspicabile potesse trovare il suo naturale completamento nel restauro degli affreschi eseguiti dallo stesso artista sulle pareti e sulla volta (realizzati nel 2013 ndr).

Il recupero conservativo del ciclo di tele, di grande formato, di soggetto cristologico ebbe inizio già negli anni ottanta del novecento con gli interventi curati dal laboratorio di Katia Ronzani nel 1986 sul dipinto di Canuti (Giudizio finale 1658) e l’anno successivo su quello di Giovanni Maria Galli Bibiena (Ascensione di Cristo 1651); continuò negli anni novanta col restauro da parte del Laboratori degli Angeli dei due dipinti di Lorenzo Pasinelli (L’apparizione di Cristo risorto alla madre 1657 e L’entrata di Cristo in Gerusalemme 1658). Questo programma subì un processo di accelerazione nel primo decennio del nuovo millennio, quando lo stesso laboratorio portò a termine il restauro del dipinto di Andrea Sirani (La cena in casa di Simone 1652) e poi quello della figlia Elisabetta (Battesimo di Cristo 1658), e successivamente quello dei due quadri di Francesco Gessi (La Cacciata dei mercanti dal Tempio e La Pesca miracolosa 1645-1648); è stato ultimato nel 2005 con l’impegnativo restauro curato dal Laboratorio di Ottorino Nonfarmale della Natività (1644) di Nunzio Rossi, pittore napoletano che seguendo la testimonianza del Masini e del Malvasia lo avrebbe eseguito all’età di 18 anni. Era stato Don Daniele Granchio, priore del convento dei Certosini dal 1644 al 1660 a commissionare ad alcuni dei più significativi artisti operanti a Bologna, intorno alla metà del ’600, le opere di questo ciclo. Gli artisti coinvolti erano tutti bolognesi ad eccezione del napoletano Nunzio Rossi. Alcuni dei pittori che parteciparono a questa impresa erano stati allievi diretti di Guido Reni, come Francesco Gessi e Giovan Andrea Sirani. Il primo aveva frequentato la sua bottega nel secondo decennio del seicento e, tra la fine del quarto e l’inizio del quinto, aveva avuto un ruolo di primo piano sulla scena artistica bolognese.

Tutti i dipinti del ciclo sono realizzati su di una tela unica, senza cuciture, tessuta su telai di dimensioni eccezionali e la manifattura potrebbe essere uguale per tutte le tele e non italiana, considerando la fitta rete di rapporti che legavano tra loro i monasteri certosini di tutta Europa. I due dipinti di Gessi versavano in precarie condizioni conservative a causa di un preoccupante fenomeno di decoesione degli strati pittorici che già in passato aveva reso necessario la loro foderatura; questo intervento non aveva dato gli esiti sperati e nella Pesca miracolosa il colore era tornato a sollevarsi, rendendo necessaria una velinatura parziale del dipinto. Il recente intervento è stato illuminante ai fini di un approfondimento della tecnica pittorica adottata dall’artista alla fine della sua vita; infatti nella Cacciata dei Mercanti dal tempio sono emerse dalle lacune presenti nell’ultima stesura pittorica, ampie campiture di colore diverso da quello sovrastante che hanno evidenziato la presenza di numerosi pentimenti. Questo aspetto pone l’accento sull’abitudine di Gessi a ritornare costantemente sui suoi lavori tanto che, secondo il giudizio del Malvasia: “il non contentarsi ancora de’ già ben meditati pensieri, ed inquitandosi nella loro disamina, non trovar fine a pentimenti, ed alle mutazioni è il più pernicioso vizio”. Il biografo bolognese lamenta un’accentuarsi di questa tendenza nella fase finale della vita del pittore travagliata da gravi dolori come la morte dell’unico figlio e da problemi economici che lo spinge a lavorare in modo affrettato “oprando perciò più per dispetto, per interesse e per bisogno insieme, si pose a strapazzare i lavori onde dalle sue mani uscirono de’ molto debili”. Nonostante il giudizio negativo del Malvasia, La Cacciata dei Mercanti dal Tempio rivela “un estremo tentativo dell’artista di aggiornamento” (Roli) rispetto ai nuovi fermenti artistici. L’artista mostra di recepire suggestioni classiciste presenti in seno alla cultura romana del quarto e del quinto decennio, dominata dalla presenza di personalità quali Lemaire o Poussin. Viceversa nella Pesca miracolosa si accentuano aspetti di luminismo e di plasticismo fortemente risentito di lontana ascendenza caravaggesca che possono giustificare la presenza di quel gusto ispirato ai napoletani, già evidenziato da Emiliani, nella produzione tarda dell’artista. Se Gessi apparteneva alla prima generazione degli allievi della scuola reniana, Giovan Andrea Sirani faceva parte della seconda generazione degli scolari del maestro e ne aveva frequentato la bottega nel quarto decennio, coincidente col periodo di massima espansione di essa.

Scomparsi ormai i due temperamenti più sperimentali della scuola reniana, Cantarini (1648) e F. Gessi (1649), con la Cena in casa di Simone Sirani si appresta ad eseguire l’opera che rappresentava al meglio il passaggio dall’interpretazione scolastica dell’ultima maniera chiara del maestro verso uno stile maturo. Rielaborando suggestioni tratte da pittori quali Tiarini, Albani, Desubleo, Guercino, manifestava esiti di un linguaggio autonomo caratterizzato da una solenne dignitas monumentale. Il dipinto di Andrea Sirani, analogamente al Battesimo di Cristo della figlia Elisabetta, era ancora in prima tela e sotto lo spesso strato di sporco, fumo e polvere, ha evidenziato una superficie sostanzialmente integra e la presenza di due pentimenti in coincidenza con la testa e il ginocchio del Cristo, documentati dallo studio preparatorio conservato a Windsor. Anche Elisabetta Sirani si pone lungo una linea di continuità col classicismo reniano, mutuato dal padre ma riveduto alla luce di una condotta pittorica sempre più libera e vibrante e nell’utilizzo di una pennellata corposa, ma anche caratterizzata da contrappunti luministici e cromatici. La piena leggibilità era gravemente compromessa prima dell’intervento di restauro, a causa di un fenomeno di ossidazione della vernice protettiva e dalla presenza di una fastidiosa patina di colore giallo. Il restauro ha evidenziato sotto l’iscrizione col nome della pittrice e la data dell’opera, forse non autografa, una firma in corsivo, che fu eseguita al termine della realizzazione del dipinto dalla stessa pittrice “che (…) vi iscrisse il suo nome” come afferma Malvasia (Malvasia, 1686, ed. 1969, p. 342). In questo dipinto Elisabetta mostra di recepire anche suggestioni delle sperimentazioni luministiche e spaziali di segno barocco, che Canuti e Pasinelli stavano portando avanti proprio nei dipinti eseguiti per la Certosa negli stessi anni in cui Elisabetta esegue il Battesimo di Cristo.

Come Elisabetta Sirani, anche Pasinelli non era stato allievo diretto di Reni, ma aveva mutuato certi stilemi della poetica classicista dal suo maestro, Simone Cantarini. L’intervento di restauro dei due dipinti, L’apparizione di Cristo risorto alla madre (1657) e l’Entrata di Cristo in Gerusalemme, (1658) ha evidenziato la presenza di una stesura pittorica al di sotto di quella finale. Troverebbe quindi conferma quanto già affermato dal Crespi (Crespi, 1772, pp. 36-37.) secondo cui Pasinelli sarebbe intervenuto su tele già dipinte da un frate certosino, da identificarsi in Marco da Venezia, autore dei Santi certosini laterali ai due dipinti. È facile ipotizzare che i monaci, non soddisfatti dell’opera di quest’ultimo, avessero chiamato Pasinelli a ridipingere i due quadri, già appesi e incorniciati. Questa ipotesi sembra trovare conferma nella mancanza dell’ultima stesura pittorica del Pasinelli nei bordi già coperti dalle cornici, al momento del suo intervento. Di segno scopertamente barocco è il Giudizio Finale di Canuti che anticipa nell’apocalittica composizione che risucchia lo sguardo dell’osservatore verso vorticose lontananze, l’illusionismo prospettico che si affermerà compiutamente nell’affresco del salone principale di Palazzo Pepoli, dove si celebra l’Ascesa di Ercole all’Olimpo (1669). Il dipinto prima del restauro era interessato da un intenso inscurimento dei colori che Malvasia (Malvasia, 1686, ed. 1969, p. 233, 341) addebita all’imperizia tecnica del giovane pittore “che non tornando a ricoprirle (forse si vuole alludere alla mancata stesura della vernice protettiva finale) l’ha resa poco durabile”.

Diversamente Giovanni Maria Galli Bibiena, allievo dell’Albani, ripropone nella sua Resurrezione di Cristo (1651), un vigore cromatico e la nobile cifra stilistica improntata al classicismo tenero e sentimentale propria del suo maestro. Il dipinto presentava oltre a gravi problemi di decoesione degli strati pittorici un taglio molto evidente al centro del dipinto per risarcire il quale si è resa necessaria la sua foderatura. L’opera più impegnativa dal punto di vista del recupero conservativo era la Natività di Nunzio Rossi. La tela era stata rimossa dalla controfacciata della chiesa nella prima metà dell’800 per far posto all’organo ed era stata collocata nella Cappellina della Madonne. Fattori di carattere ambientale, come la presenza di correnti d’aria o le esalazioni di nitrati che provenivano dall’evaporazioni delle tombe sottostanti, avevano accelerato il processo di degrado dell’opera che presentava un grave fenomeno di ossidazione della vernice protettiva, tanto che una patina biancastra ricopriva tutto il dipinto, limitandone fortemente la lettura, e rendendo difficoltoso anche la stessa identificazione del soggetto. Solo in seguito ad una campagna di indagini stratigrafiche e riprese a luce radente, in fluorescenza ultravioletta e a luce infrarossa, seguito da un delicatissimo intervento di pulitura, è stato possibile constatare che l’entità del danno era contenuta e la materia pittorica relativamente ben conservata, costruita su una tessitura di pennellate rapide e grondante di materia pittorica, oltre che da colori brillanti e da un forte chiaroscuro.

Il 2009 è stato l’anno del recupero conservativo delle tre cappelle interne della chiesa che è stato realizzato in parte dalla ditta di Ottorino Nonfarmale e in parte dal Laboratorio degli Angeli. Il risultato di questo recupero è stato inversamente proporzionale al grave stato di degrado in cui versavano. Un serio problema di umidità era causato dalla presenza di un diffuso fenomeno di risalita dell’acqua dal pavimento, mentre manufatti lignei, in arenaria ed in stucco, erano ricoperti da uno spesso strato di sporco, di fumo e di polvere. Questa patina scura che ricopriva tutti gli arredi impediva di apprezzare i raffinati intagli lignei dell’altare delle Reliquie; l’alta qualità delle ancone in arenaria delle cappelle dell’Annunciata e di San Francesco, finemente scolpite a bassorilievo e attribuite a Andrea Marchesi detto il Formigine; la monumentalità dell’altare della cappella di S. Giuseppe ascrivibile, come già proposto da Antonella Mampieri, allo scultore Giuseppe Maria Mazza. A quest’ultimo sono riconducibili almeno altri due altari decorati da “pannaroni” sorretti da putti simili ai nostri: uno, perduto, per l’altare maggiore della Madonna di Galliera (Riccomini, 1972, p. 101) e uno per la chiesa dei Teatini di Rimini (Marcheselli, 1754, ed. 1972, pp. 72-73, figg. 124-125), ancora oggi conservato nella chiesa di S. Giovanni Battista. Gli ornati architettonici che inquadrano le porte e le finestre presentavano un colore sordo e appiattito a causa di una totale ridipintura, frutto di un restauro eseguito nel 1935. La rimozione di questa ridipintura, ha evidenziato il carattere barocco dell’affresco sottostante, attribuibile al pittore quadraturista ed ornatista Luca Bistega che, seguendo l’indicazione di Giampietro Zanotti (Zanotti, 1739, vol. I, p. 402), aveva compiuto ornati nella chiesa di S. Girolamo “Per questi padri certosini pinse alcune loro interne cappellette, una delle quali si è quella detta il Sancta Sanctorum”. Queste porte centinate, poste al centro delle cappelle, furono aperte in epoca tardobarocca, poiché sono state scoperte durante il restauro quelle medievali, posizionate lateralmente e poi murate con la costruzione dei nuovi altari.

Nella seconda metà del ’600 la cappella ora intitolata a S. Giuseppe, fu dedicata a S. Giovanni Battista, in relazione al trasferimento in essa della Predica del Battista di Ludovico Carracci. La pala fu spostata dalla prima cappella a destra della chiesa, in seguito alla intitolazione di quest’ultima a S. Bruno, e fu spostata prima in sagrestia, dove la ricorda Masini (Masini, 1650, p. 361) e poi prima del 1686 – l’ante-quem è fissato da Malvasia (Malvasia, 1686, ed. 1969, p. 235, 343) – la cappella fu restaurata per accogliere il dipinto di Ludovico: “In una di esse, nuovamente fabbricatasi a tale effetto, il non mai abastanza lodato S. Gio. Battista, predicante alle rive del Giordano, fu fatto dal gran Ludovico Carracci”. Questo ambiente al pari degli altri due saranno destinate a subire una radicale trasformazione degli arredi interni in epoca napoleonica, quando la chiesa e il convento diventeranno luogo oggetto di soppressione, ma anche di deposito e di conservazione di opere provenienti da chiese chiuse e distrutte. Il dipinto di Ludovico Carracci, seguendo la stessa sorte toccata ad altri dipinti conservati nella chiesa, fu alienato e confluirà nella Pinacoteca Nazionale. Al suo posto verrà collocato, a partire dal 1820 una scultura di terracotta di Alfonso Lombardi, raffigurante un Sant’Antonio Abate proveniente, seguendo l’indicazione del Bastelli (Bastelli, 1934, p. 102), da S. Giovanni di Dio. Ma la cappella subirà un’ulteriore trasformazione nel 1934 con lo spostamento del S. Giuseppe del Mazza che proveniva dalla XII cappella interna distrutta all’inizio del ’900, ma che aveva intanto sostato per qualche tempo nella cappella delle Reliquie (Ricci, Zucchini, 1930, p 181). La statua fu in quell’occasione ricoperta da una tinteggiatura verde per uniformarla a quelle laterali di S. Bonaventura e di S. Petronio; nel corso dell’attuale restauro si è optato per la rimozione di questa grossolana ridipintura a favore dell’originario colore candido del gesso.

In questa cappella si conserva anche un’Ultima cena, proveniente dal Refettorio del convento, che le guide sei-settecentesche attribuiscono a Orazio Sammachini, ma che J. Winkelmann (Fortunati, 1986, p. 597) ha restituito a Lorenzo Sabatini sulla base di un disegno ascrivibile sicuramente a quest’ultimo pittore e che si deve considerare studio preparatorio per questo dipinto. Il recente restauro ha evidenziato lo stato abbozzato dell’opera, come si può vedere dalla finestra posta al centro del quadro in cui è chiaramente individuabile la tela a righe, priva di imprimitura e stesura pittorica. La soppressione incise profondamente all’interno dell’assetto decorativo della cappella delle Reliquie e dell’Annunciata. Nella prima fu necessario ricoprire il vuoto lasciato da una Sacra Famiglia con Sant’Anna che le guide attribuiscono a Bartolomeo Cesi o al suo ambito e ritengono replica della pala d’altare che lo stesso artista aveva eseguito per la chiesa che i monaci certosini possedevano in via Sant’Isaia intitolata a Sant’Anna (Crespi-Calvi, 1793, p. 66). Il dipinto fu sostituito da un S. Francesco di Anna Magnani Rossi Grilli, allieva di J. Alessandro Calvi.

Viceversa viene portato avanti tra il 1808 e il 1815 da Francesco Calori (1768-1826), responsabile in epoca napoleonica dell’Assunteria Direttrice del Cimitero, un ambizioso programma di deposito presso la Chiesa e il convento di S. Girolamo di affreschi di madonne e santi, ma anche di beni mobili da chiese soppresse. Nella cappella dell’Annunziata giungono diverse opere, tra cui gli affreschi trasportati a massello e incassati nelle pareti della cappella come il S. Bernadino di Amico Aspertini, proveniente dalla chiesa del Buon Gesù che si trovava in via S. Mamolo (ora via d’Azeglio). Da questa chiesa proveniva anche il bassorilievo raffigurante la Madonna col bambino, derivazione da un bassorilievo di Donatello, conservato anticamente in casa della famiglia Pazzi a Firenze, ora nel Museo Statale di Berlino (Pope-Hennessy, 1985, p. 100). Altro affresco staccato è il S. Antonio di Leonardo Ferrari, allievo di Lucio Massari, proveniente dalla chiesa di S. Maria della Neve. L’intenzione conservativa e di tutela traspare in modo evidente nell’allestimento museale che fu dato a queste opere, incorniciate all’interno di edicole dipinte e cornici che recano nella parte inferiore iscrizioni in latino riportanti la denominazione e la provenienza del bene. Nel corso del restauro della Cappella dell’Annunciata è stata scoperta una cornice dipinta che faceva pendant, a fianco della porta d’ingresso, con quella che incorniciava il S. Bernardino dell’Aspertini: doveva contenere in origine un Crocefisso per la presenza dei raggi dipinti che si possono ancora leggere. Anche se il tessuto pittorico si presenta consunto e l’affresco è ridotto a un piccolo frammento si è ritenuto utile lasciare questa traccia come testimonianza non solo di un tipo di allestimento di gusto ottocentesco, ma anche di quel lento e complesso processo di sedimentazione storica, artistica e religiosa di cui queste cappelle furono portatrici nel corso dei secoli.

Armanda Pellicciari

Testo tratto dal catalogo della mostra "Luce sulle tenebre - Tesori preziosi e nascosti dalla Certosa di Bologna", Bologna, 29 maggio - 11 luglio 2010.