Frassinesi Maria

Frassinesi Maria detto/a Fatima Miris

27 Ottobre 1882 - 3 Novembre 1954

Note sintetiche

Scheda

La vita avventurosa di Fatima Miris, artista trasformista famosa in tutto il mondo all’inizio del Novecento, meriterebbe un romanzo o un film, tanto fu ricca e avventurosa. Maria Frassinesi (questo il suo vero nome) era figlia del capitano Arturo e della contessa Anna Pullè di Modena. Era nata a Chiusa di Pesio (Cuneo) il 27 ottobre 1882. Nel 1894 la famiglia acquistò (o ereditò) l’ampia ala verso ponente della villa “La Personala”, in località Crocicchio Zeni nel Comune di Mirandola (Modena).

I Frassinesi risiedevano stabilmente a Bologna e usavano la villa “La Personala” nella bella stagione. Durante tutto l’anno la proprietà era affidata a mezzadri, come Amedeo Garuti. Il figlio di quest’ultimo, Ivo, ricorda oggi molto bene Maria-Fatima. «Mio nonno Frandull, mio padre e mio zio lavoravano per i Frassinesi, “padroni” che si facevano ben volere da tutti. Maria amava vivere nella sua residenza estiva, mentre d’inverno aveva una bellissima villa in viale Aldini, a Bologna. Coi suoi spettacoli aveva fatto fortuna e quando si spostava col suo calesse da Crocicchio Zeni alla stazione di Cividale, per tornare a casa, portava con sé una rivoltella. A mio zio, che aveva paura delle armi, diceva: sai, di questi tempi non ti puoi fidare…». Come ha ricostruito alcuni anni fa Monica Spelta, in un saggio pubblicato sul volume “Fatti e figure della Mirandola” (edizioni Al Barnardon), Maria Frassinesi rivelò fin da piccola un estro non comune. Imparò a suonare il violino e a cantare con diversi timbri di voce. Come ha scritto Simonetta Calzolari (in un articolo pubblicato nel 2009 in 'Indicatore mirandolese') Maria iniziò mettendo in scena spettacolini domestici per i familiari, prendendo a prestito gli abiti trovati in casa, impersonando contemporaneamente diversi ruoli. Erano le “prove generali” del trasformismo, ovvero, come lei stessa spiegò, della capacità di cambiare numerosi personaggi sulla scena «con tale celerità che il pubblico abbia l’illusione di assistere ad una rappresentazione fatta da più persone». Dal marinaio alla chanteuse, dal clown al prete e alla geisha: con abilità passava da una parte all’altra, dando l’impressione che si alternassero molteplici attori. Era un genere di spettacolo piuttosto in voga in Italia, a quell’epoca. A renderlo celebre fu Leopoldo Fregoli, attore nato a Roma da una famiglia modesta ma diventato famoso in tutto il mondo, tanto da determinare la nascita del termine “fregolismo” per indicare un mutamento prodigiosamente rapido dell’aspetto. Maria aveva un temperamento forte e deciso, tanto che il padre si divertiva a chiamarla “il carabiniere”. Grazie alla sua caparbietà, oltre che al talento, Maria-Fatima riuscì a concretizzare i suoi sogni, fino ad affermarsi, nelle definizioni della stampa, come il “Fregoli in gonnella” (ma all’epoca le faceva concorrenza anche l’attrice Tina Parri, più giovane, ribattezzata “Fregolina”). Nonostante fosse in possesso di un diploma da insegnante, preferì dedicarsi allo spettacolo, incoraggiata dall’attore Emilio Zago e anche dal padre, che scrisse per lei alcune commedie, tra le quali “Ero e Leandro: commedia musico-tragico-buffa-sensazionale” musicata dal maestro conte G. Bezzi. Il suo debutto avvenne nel 1903: il 7 settembre al Teatro Brunetti (ora Duse) di Bologna o il 20 ottobre allo Storchi di Modena (qui le fonti divergono). Fu, ad ogni modo, l’inizio di una carriera folgorante. Il giornale “Il travaso”, a proposito di una sua esibizione all’Olympia di Roma nel 1904, scrisse: «Questa signorina che pare un maschietto, si fa passare per Fatima Miris ma in realtà è Fregoli redivivo e fa riempire tutte le sere il salone di Nino Cruciali». La sua abilità, unita alla conoscenza di cinque lingue, la portarono lungamente anche all’estero, insieme alla sorella Emilia, valida violinista. Ovunque si lesse della sua traversata del Rio delle Amazzoni con 63 cassoni di abiti, scene e parrucche al seguito o del suo soggiorno in Egitto durante il quale ebbe occasione di incontrare il pascià Teofic o ancora della sua amicizia con l’ambasciatore del Giappone. Fatima Miris fu un’artista a tutto tondo. Alla biblioteca centrale di Firenze è conservato un opuscolo del 1911, pubblicato dalla tipografia mirandolese di Candido Grilli, intitolato “L’inno di Garibaldi: monologo a trasformazioni” e scritto da lei stessa.

Come scrive Giancarlo Petrini nel volume Il palcoscenico incantato, Fatima Miris si era specializzata in quattro spettacoli d’operetta nei quali interpretava tutti i ruoli, maschili e femminili: La Vedova allegra, La Geisha, Il nuovo Figaro e la Duchessa del Bal Tabarin. «Erano questi – spiegava l’artista mirandolese nel suo diario del tempo – i miei pezzi forti, ma irti di difficoltà trasformistiche e che mi costavano una fatica enorme per la rappresentazione scenica. Sostenevo, in esse, tutti i ruoli e tutti i personaggi con i rispettivi duetti, balletti, romanze da tenore, baritono… Il pubblico aveva così l’esatta impressione che l’operetta fosse eseguita da un’intera compagnia d’artisti, tanto era fedelmente ridotta ed eseguita. Malgrado il vasto repertorio, – proseguiva Fatima Miris – mi mancava tuttavia una commedia che rispondesse ai fini da me desiderati: mantenere per una ventina di minuti in costante tensione ed ilarità il pubblico, con un succedersi mirabolante di trasformazioni. In ventiquattr’ore scrissi: La Marchesa Divina, una commedia brillante, colma di equivoci e di situazioni comiche. I personaggi erano: il marito, la moglie, la suocera, l’amante della moglie, la cameriera, il cuoco, il cocchiere. La scena si chiudeva con una corsa, o, meglio, con la fuga generale di tutti i personaggi, inseguiti da un carabiniere, al quale, peraltro, toccava la peggio, poiché rimaneva decapitato da un colpo di rivoltella, sparatogli giusto, giusto dal padrone di casa. Il fuggi fuggi era così precipitoso, così incalzante per me e per tutti i miei vestiaristi, che il pubblico, preso da un riso convulso, si torceva, urlava ed infine prorompeva in un applauso fragoroso, senza attendere la calata del sipario. La scena si svolgeva in un salone dalle pareti di garza trasparente. La luce che lo rischiarava al proscenio era assai fioca al confronto di quella interna, che illuminava a giorno i vestiaristi, così che il pubblico poteva rendersi conto comodamente di quanto avveniva fra le quinte. I miei collaboratori, dietro le scene, più mia sorella Emilia, che, a capo di tutti, valeva per quattro, giungendo dove gli altri non arrivavano con la sua intelligenza e la sua prontezza di spirito. Mentre correvo essa mi sfilava i pantaloni con l’aiuto di un uomo, al collo del quale mi appendevo, spiccando un salto, mentre gli altri aiutanti stavano appostati nei punti strategici delle entrate e delle uscite. Giunta fra le quinte, mi liberavo degli oggetti che avevo in mano, buttandoli in apposite coperte, stese a terra, e mi precipitavo incontro al primo gruppo dei miei aiutanti, che sollecitamente mi toglieva parrucca e vestito. Le parrucche, fabbricate appositamente, recavano attaccato nasi e baffi e, occorrendo, barba ed occhiali, cappello e acconciatura, a seconda del vestito indossato dal personaggio. Liberata da tali indumenti, mi affrettavo verso il secondo gruppo di aiutanti, che mi attendeva con i nuovi vestiti da indossare».

In un certo periodo della sua carriera Fatima Miris fu tentata anche dal cinema, o almeno, come emergerebbe da una lettera pubblicata sul sito Internet dell’associazione “Al Barnardon”, fu invogliata da qualcuno che voleva sfruttarne il talento per realizzare un progetto (a quanto ci risulta naufragato) da portare sul grande schermo. Era il 1914. La missiva porta la firma del direttore di “Film-Corriere settimanale dei cinematografi”, una nota rivista che aveva sede a Napoli. Insieme ai rallegramenti per i «successi transoceanici», il direttore annunciava una prossima visita nella «splendida villa» di Crocicchio Zeni e chiedeva di salutare il «simpatico» padre e la «gentile» sorella Emilia. Nel 1921 fu costretta a interrompere per un periodo gli spettacoli, a causa di problemi di salute del padre. Rientrata a Bologna conobbe il conte Luigi d’Arco, che sposò lo stesso anno nell’oratorio privato della Personala. L’anno dopo ebbe una figlia, Giovanna, scomparsa di recente. Fece ancora tournée per qualche anno e si ritirò poi a vita privata fino al 1932 quando ritornò a esibirsi in Sud America, dove il pubblico non l'aveva mai dimenticata.

Gli anni della seconda guerra mondiale, quando ormai si era ritirata dalle scene, la vedranno risiedere stabilmente con la famiglia presso la villa di San Giacomo Roncole, a causa dei bombardamenti ripetuti su Bologna. Si spense a Bologna il 3 novembre 1954 ed è sepolta alla Certosa. Un suo costume di scena è conservato al Civico Museo Teatrale “Carlo Schmidl” di Trieste.

Fabio Montella

Texto en español. La vida aventurera de Fatima Miris, artista transformista famosa en todo el mundo de principios del siglo XX, merecería una novela o una película, teniendo en cuenta lo rica y aventurera que fue. Maria Frassinesi (este era su verdadero nombre) era hija del capitán Arturo y de la condesa Anna Pullè de Módena. Nació en Chiusa di Pesio (Cuneo) el 27 de octubre de 1882. En 1894 la familia compró (o heredó) la amplia ala al oeste de la villa “La Personala" en la localidad de Crocicchio Zeni en el municipio de Mirandola (Módena).

Los Frassinesi residían establemente en Bolonia y usaban la villa "La Personala" durante los meses de buen tiempo. Durante todo el año, la propiedad fue gestionada por aparceros, como por ejemplo Amedeo Garuti. El hijo de este último, Ivo, recuerda hoy muy bien a Maria-Fatima. «Mi abuelo Frandull, mi padre y mi tío trabajaban para los Frassinesi, “amos"muy queridos por todos. A María le encantaba vivir en su residencia de verano, mientras que en invierno tenía una hermosa villa en Viale Aldini, en Bolonia. Con sus espectáculos hizo fortuna y cuando se movía con su carruaje desde Crocicchio Zeni hasta la estación de Cividale, para volver a casa, llevaba consigo un revólver. A mi tío, que tenía miedo de las armas, le decía: ya sabes, en estos tiempos no te puedes fiar…». Como reconoció hace algunos años Mónica Spelta, en un ensayo publicado en el volumen “Fatti e figure della Mirandola” (ediciones Al Barnardon), Maria Frassinesi reveló desde pequeña un talento poco común. Aprendió a tocar el violín y a cantar con diferentes timbres de voz. Como escribió Simonetta Calzolari (en un artículo publicado en 2009 en “Indicatore Mirandolese”) Maria empezó poniendo en escena espectáculos domésticos para sus familiares, tomando prestada la ropa encontrada en casa e interpretando contemporáneamente diferentes papeles. Eran los “ensayos generales” del transformismo, o como ella misma explicó, de la capacidad de cambiar numerosas veces de personajes en escena «con tal rapidez que el público tenga la ilusión de asistir a una representación hecha por varias personas». Desde el marinero hasta la cantante, desde el payaso hasta el cura y la geisha: con habilidad pasaba de un papel al otro dando la impresión de que se alternaban múltiples actores. Era un tipo de espectáculo bastante de moda en Italia, en aquella época. Fue Leopoldo Fregoli quien lo hizo famoso, actor nacido en Roma en una familia modesta, tan célebre en todo el mundo que, acabó por determinar el nacimiento del término “fregolismo" para indicar un cambio prodigiosamente rápido del aspecto. Maria tenía un temperamento fuerte y decidido, de ahí que a su padre le bromeaba llamándola “il carabiniere”. Gracias a su obstinación y a su talento, Maria-Fatima logró realizar sus sueños, hasta el punto que era definida como el “Fregoli con faldas" (en aquella época le hacía competencia también la actriz Tina Parri, más joven, bautizada como “Fregolina"). A pesar de tener un diploma de profesora, prefirió dedicarse al espectáculo, alentada por el actor Emilio Zago y también por el padre, que le escribió algunas comedias, entre las cuales destacan “Ero e Leandro: comedia musico-trágico-cómico-sensacional” musicada por el maestro conde G. Bezzi. Su debut tuvo lugar en 1903: el 7 de septiembre en el Teatro Brunetti (ahora Duse) de Bolonia o el 20 de octubre en el Storchi de Módena (aquí las fuentes divergen). Fue, en cualquier caso, el comienzo de una carrera brillante. El periódico “Il travaso" a propósito de una actuación suya en el Olympia de Roma en 1904, escribió: « Esta señorita que parece un niño, se hace pasar por Fatima Miris pero en realidad es Fregoli revivido y cada noche llena el salón de Nino Cruciali». Su habilidad, unida al conocimiento de cinco idiomas, la llevó durante mucho tiempo al extranjero, junto con la hermana Emilia, una hábil violinista. En todas partes se habló sobre el episodio en el que cruzó el río Amazonas con 63 baúles a cuestas de ropa, objetos de escena y pelucas o sobre su estancia en Egipto durante la cual tuvo ocasión de encontrar a pachá Teofic o incluso sobre su amistad con el embajador de Japón. Fatima Miris fue una artista completa. En la biblioteca central de Florencia se conserva un panfleto del 1911, publicado por la tipografía mirandolesa de Candido Grilli, titulado “El himno de Garibaldi”: monólogo en transformaciones” y escrito por ella misma. Como escribe Giancarlo Petrini en el volumen “Il palcoscenico incantato”, Fatima Miris se había especializado en cuatro espectáculos de opereta en los que interpretaba todos los papeles, masculinos y femeninos: La Vedova allegra, La Geisha, Il nuovo Figaro y la Duchessa del Bal Tabarin. «Eran estos – explicaba la artista mirandolesa en su diario del tiempo – mis piezas estrella , pero estaban llenos de dificultades transformistas y suponían un esfuerzo tremendo en su representación escénica. Interpreté, en ellas, todos los papeles y todos los personajes con los respectivos duetos, bailes, romanzas para tenor, barítono… El público tenía así la impresión exacta de que la opereta estaba interpretada por una entera compañía de artistas, dado lo fielmente realizada que estaba. A pesar del vasto repertorio, - proseguía Fatima Miris – todavía me faltaba una comedia que respondiera a los objetivos que deseaba cumplir: mantener al público en constante tensión e hilaridad durante unos veinte minutos, con una increíble sucesión de transformaciones. En veinticuatro horas escribí: La Marchesa Divina, una comedia brillante, llena de malentendidos y situaciones cómicas. Los personajes eran: el marido, la esposa, la suegra, la amante de la esposa, la camarera, el cocinero, el cochero. La escena terminaba con una estampida, o mejor, con la fuga general de todos los personajes, perseguidos por un guardia civil, al cual, además,le tocaba la peor parte, ya que acababa muerto a causa de un disparo de revólver, ejecutado por el propietario de la casa. La estampida era tan apresurada, tan apremiante para mí y para todos mis colaboradores, que el público, muerto de risa, se retorcía, gritaba y finalmente estallaba en un aplauso atronador, sin esperar a la caída del telón. La escena se desarrollaba en un salón con paredes de tul transparente. La luz que lo iluminaba en el proscenio era muy tenue en comparación con la luz interior, que iluminaba a los vestuaristas, para que el público pudiera darse cuenta cómodamente de lo que ocurría entre bastidores. Mis colaboradores, entre bastidores, junto con mi hermana Emilia que valía para cuatro, llegaban a donde los otros no llegaban con su inteligencia y su ingenio. Mientras corría ella me sacaba los pantalones con la ayuda de un hombre cuyo cuello me agarraba, saltando, mientras los otros ayudantes estaban en puntos estratégicos de entradas y salidas. Una vez entre bastidores, me deshacía de los objetos que llevaba en la mano, los tiraba en mantas especiales, extendidas por el suelo, y me apresuraba hacia el primer grupo de mis ayudantes, que rápidamente me quitaba la peluca y el vestido. Las pelucas, fabricadas aposta, llevaban pegadas narices y bigotes y, además, barba y gafas, sombrero y peinado, en función del traje que llevaba el personaje. Libre de este tipo de prendas, me apresuraba hacia el segundo grupo de ayudantes, que me esperaba con los nuevos trajes que debía ponerme». Durante un cierto período de su carrera Fatima Miris tuvo la tentación de dedicarse al cine, o al menos, como se ve en una carta publicada la página web de la asociación “Al Barnardon”, se sintió atraída por alguien que quería aprovechar su talento para realizar un proyecto (por lo que nos consta naufragado) para la gran pantalla. Fue en 1914. La carta lleva la firma del director de "Film-Corriere settimanale dei cinematografi", una conocida revista con sede en Nápoles. Junto con las felicitaciones por los «éxitos transoceánicos», el director anunciaba una próxima visita a la «espléndida villa» de Crocicchio Zeni y daba recuerdos para el «simpático» padre y su «amable» hermana Emilia. En 1921 se vio obligada a interrumpir los espectáculos durante un período de tiempo, debido a problemas de salud del padre. Al regresar a Bolonia, conoció al conde Luigi d'Arco, con quien se casó el mismo año en el oratorio privado de la Personala. Al año siguiente tuvo una hija, Giovanna, desaparecida recientemente. Siguió yendo de gira durante unos años y luego se retiró a la vida privada hasta 1932 cuando volvió a actuar en Sudamérica, donde el público nunca la había olvidado. En los años de la Segunda Guerra Mundial, cuando ya se había retirado de las escenas, residió establemente con su familia en la villa de San Giacomo Roncole, a causa de los repetidos bombardeos sobre Bolonia. Murió en Bolonia el 3 de noviembre de 1954 y está enterrada en la Certosa. Uno de sus trajes de escena se conserva en el Museo Cívico Teatral "Carlo Schmidl" de Trieste. (Traduzione a cura di Sara Mohamed, 5B - nell'ambito del progetto di Alternanza scuola-lavoro 2020/21 con il Liceo Linguistico Boldrini di Bologna).

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