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Epitaffi

2 novembre 2019

Schede

Epitaffio: iscrizione tombale che dimostra chiaramente come le virtù acquisite con la morte abbiano effetto retroattivo. (Ambrose Gwynnette Bierce)

La vita di un uomo dopo la morte viene solitamente descritta in poche righe su una lapide. Un epitaffio che testimonia le lodi e gli affetti, parole che vengono scelte dai cari rimasti in vita. Ma è proprio questo che vorrebbero raccontare i defunti? Confessioni da chi non avrà mai più voce. Un percorso di immagini e suoni all’interno della Certosa di Bologna, a cura di Loredana Lo Fiego con la collaborazione di Gianluca Stevanella. La storia valica il tempo e arriva fino a noi, molteplici esseri umani sono posti dinanzi alla barriera della morte tra il defunto e chi gli sopravvive e trova le parole per dire l’indefinibile. Quando si erige una tomba e si scrive un epitaffio, lo si fa perché rimanga traccia almeno del nome di chi non esiste più e anche dell’affetto di chi lo piange. Il tema dell’epigramma tombale si sviluppa su tre caratteristiche fondamentali: il morto, chi gli erige il sepolcro e lo suggella con un nome, un verso, un ricordo, e per terzo, chi passa e legge. Legge, e leggerà generazione dopo generazione, i sepolcri scompariranno ma le parole incise sulla lapide supereranno il tempo. È al viandante, sconosciuto, che non si sa quando e come poserà gli occhi sull’epigrafe, a cui è realmente rivolto l’epigramma. Per un attimo, osservando, si fermerà e si dedicherà a pensare alla morte di un altro e forse proverà un moto di pietà e gli verrà in mente che la stessa sorte attenderà lui, poi passerà oltre preso dalle sue occupazioni. Un epitaffio è un ossequio alla memoria e un surrogato di immortalità. Negli epitaffi, l’elemento principale del ricordo e della comunicazione ai viventi è il defunto o meglio il nome del defunto. Elemento essenziale, quasi esclusivo in età antichissime, ma accanto al nome, fin dall’età più antica, compaiono altri due elementi che divengono, naturale conseguenza della basica informazione sull’identità del defunto: le sue qualità, la sua occupazione, i suoi meriti o la menzione di come sia avvenuta la morte, ma viene inciso anche il nome del familiare, o l’amico, o la città che ha curato la sepoltura, in altri termini il “committente” dell’epitaffio. Accanto al nome del defunto, dunque l’epitaffio sviluppò ben presto la tendenza, attestata già nelle epigrafi di VII sec. a.C., a descriverne il carattere, la condotta tenuta in vita, i suoi pregi, e solo questi, ovviamente, perché “non si parla mai male di un defunto”, de mortuis nihil nisi bene. Fra il 1914 e il 1915 Edgar Lee Masters pubblicò sul giornale Mirror di St. Louis una serie di storie, che narrano in forma di epitaffio la vita degli abitanti dell’immaginario paesino di Spoon River. Questo luogo immaginario ha origine dai due paesini realmente esistenti dell’Illinois, Lewistown e Petersburg. Lewistown è bagnata dal fiume Spoon, mentre Petersburg, si trova non molto lontana dalla fattoria in cui crebbe il poeta e scrittore Edgar Lee Masters. A Lewistown sorge l’Oak Hill Cemetery e alcune delle persone seppellite in questo cimitero hanno ispirato l’Antologia di Spoon River dello scrittore. La raccolta coinvolge 248 personaggi e le lo storie, ripercorrendo tutte le classi e le professioni. Masters attraverso Spoon River, si proponeva di descrivere la vita umana raccontando le vicende di un piccolo microcosmo. Ognuno dei personaggi racconta la propria vita dalla tomba in cui riposa. La caratteristica principale, è che essendo morti non hanno nulla da perdere e quindi possono raccontare la loro vita in assoluta sincerità, con i loro peccati, le loro ambizioni e i propri amori. “Prendete nota, anime prudenti e pie - dice Chase Henry, l’ubriacone del villaggio - delle avverse correnti della vita, che portano onore ai morti che vissero nell’onta”. Chiaramente i nomi utilizzati da Masters sono inventati, nessuno troverà quindi la tomba di Cassius Hueffer, Ollie MCgee, Il giudice Somers, Julia Miller, Il dottor Meyers e molti altri.

Loredana Lo Fiego


Epitaffi | Testi

Richard Bone
Appena arrivato qui / non sapevo se quel che mi dicevano era vero o falso./ Mi portavano l’epitaffio/ e restavo nella bottega mentre lavoravo / e dicevano “Era tanto buono”, “Era straordinario”,/ “Era una donna dolcissima”, “Era un cristiano coerente”./ E io gli scolpivo tutto quello che volevano, / ignorando completamente se fosse vero o no./ Poi, vivendo fra questa gente, / imparai quanto poco consoni alla vita/ fossero gli epitaffi ordinati per quei morti./ Ma continuavo a scolpire tutto quel che mi ordinavano di scolpire/ e mi resi complice di quelle cronache bugiarde sulla pietra, / come uno storico che scrive senza sapere la verità,/ o perché ha interesse a nasconderla.

Cassius Hueffer
Sulla mia pietra hanno inciso:/ “ La sua vita fu generosa.” / Coloro che mi conobbero sorridono leggendo questa vuota retorica. / Il mio epitaffio doveva essere: “La vita fu generosa con lui, tanto che ne fu ucciso”./ Da vivo ho dovuto soccombere alle malelingue,/ ora che sono morto/ mi tocca sopportare un epitaffio scolpito da uno sciocco.

Chase Henry
In vita fui l’ubriacone del villaggio;/ da morto il prete mi negò sepoltura in terra consacrata./ La cosa tornò a mio vantaggio,/ poiché i Protestanti comprarono questo pezzetto di terra/ e ci seppellirono il mio corpo,/ accanto alla tomba del banchiere e di sua moglie./ Visto? Anime pie, / come le avverse correnti della vita onorano i morti vissuti nell’onta?

Il giudice Somers
Come mai, ditemi, / io, il più dotto degli avvocati/ che feci la più bella arringa mai sentita in tribunale, / come mai, ditemi, mi trovo qui senza un segno, dimenticato, / mentre, l’ubriacone del villaggio,/ ha un blocco di marmo, sormontato da un’urna.

Il dottor Meyers
Tutti i deboli, gli storpi, gli imprudenti/ e chi non poteva pagare correvano da me. / Ero il buon dottor Meyers che non faceva storie. / Ero sano, felice, benestante, / con la fortuna d’una buona moglie e figli grandi, / tutti sposati e sistemati./ Ma una notte, Minerva, la poetessa, / venne da me nei guai, in lacrime. Cercai di aiutarla. morì / mi processarono, i giornali m’infangarono, / mia moglie morì di crepacuore./ La polmonite mi finì.

Harold Arnett
Mi appoggiai al caminetto, nausea, nausea, / pensavo al mio fallimento, guardavo nell’abisso, / spossato dal caldo del meriggio./ La campana d’una chiesa suonò lugubre lontana, / udii il pianto d’uno bimbo, / Poi la voce rabbiosa di mia moglie: “Attento, le patate bruciano!”./ Sentivo l’odore… poi mi venne un disgusto irresistibile./ Tirai il grilletto… buio… luce… / annaspai per tornare nel mondo. Troppo tardi!/ Così venni qui, con polmoni per respirare…/ ma qui i polmoni non servono.

Il Giudice Arnett
È vero, concittadini,/ che il mio vecchio registro rimasto lì per anni sullo scaffale/ sopra la mia testa e la poltrona di giudice,/ aveva un bordo di ferro / e quando cadde mi squarciò la testa/e i fogli del registro schizzarono fuori sparpagliandosi / intorno a me. / E guardai quei fogli fino all’ultimo e poi dissi:/ “Quelli non sono fogli, non vedete che sono giorni e giorni/ di settant’anni?

Il giudice distrettuale
Osservate, passanti, le profonde fessure / che il vento e la pioggia m’hanno scavato nella pietra/ – come se una nemesi o un odio inafferrabili / segnassero dei punti contro di me, / ma solo per distruggere, non per conservare, la mia memoria./ In vita fui giudice distrettuale, uno che / decideva i processi in base ai punti segnati dagli avvocati,/ non secondo la giustizia del caso./ O vento e pioggia, lasciate in pace la mia pietra!/ Perché peggio dell’ira delle vittime, delle maledizioni dei poveri,/ fu trovarsi muto.

Hortense Robbins
Il mio nome era ogni giorno sui giornali/ perché cenavo qui, o facevo un viaggio là, / o ricevevo l’aristocrazia./ Ero sempre a cena o in viaggio./ Ora sono qui/ accanto alla famiglia da cui discendo. / E a nessuno importa dove cenavo,/ o abitavo, o chi ricevevo.

Trainor, il farmacista
Solo un chimico può dirlo, e non sempre,/ cosa risulterà dalla combinazione / di fluidi o di solidi. E chi può dire / come uomini e donne reagiranno insieme, / e che figli ne usciranno? / Io, Trainor, il farmacista, mestatore di sostanze chimiche, / morto in un esperimento, / vissi senza sposarmi.

Perry Zoll
Grazie, amici dell’Associazione Scientifica della contea,/ per questa umile pietra, / e la targa di bronzo./ Due volte tentai di far parte del vostro consesso, / e fui respinto,/ e quando il mio opuscolo sull’intelligenza delle piante/ cominciò a destare interesse, foste sul punto di accogliermi./ Poi crebbi senza bisogno di voi./ Ma non rifiuto la vostra lapide commemorativa,/ capisco che, così facendo,/ vi priverei dell’onore che ne deriva.

Il Diacono Taylor
Ero membro della chiesa / e del partito proibizionista: / e nel villaggio pensarono che fossi morto/ per un’indigestione di angurie. / In realtà avevo la cirrosi epatica,/ perché ogni giorno per trent’anni, m’ero infilato dietro il bancone / nella farmacia di Trainor / e m’ero versato un bel bicchiere dalla bottiglia/ con la scritta Spiritus frumenti.

L’ignoto
Voi esseri ambiziosi, ascoltate la storia dell’ignoto/ che qui giace senza il segno d’una lapide./ Da ragazzo, temerario e sventato, / mentre giravo per il bosco imbracciando un fucile/ tirai a un falco appollaiato sulla cima di un albero secco./ Cadde con un rantolo / ai miei piedi, l’ala spezzata. / Poi lo misi in una gabbia/ dove visse molti giorni gracchiando con rabbia contro di me./ Ogni giorno io cerco nei regni dell’Ade / l’anima di quel falco,/ per potergli offrire l’amicizia di uno che la vita ha ferito/ e messo in gabbia.

Edith Conant
Noi aleggiamo in questo luogo/ noi, le memorie, e ci copriamo gli occhi per timore di leggere: / “17 giugno 1884, all’età di 21 anni e 3 giorni”. E tutto è cambiato./ E noi – noi, le memorie, restiamo qui sole,/ perché nessun occhio s’accorge di noi, / né saprebbe perché siamo qui./ Tuo marito è morto, tua sorella vive lontano, / tuo padre è curvo per gli anni,/ ti ha dimenticato./ Nessuno ricorda il tuo volto dolcissimo, / la tua voce melodiosa! / Come cantavi, persino il mattino che sei stata colpita,/ con acuta dolcezza, con dolore penetrante, / prima della venuta del figlio che è morto con te. / Tutto è dimenticato, tranne che da noi, le memorie, / che siamo dimenticate dal mondo. / E noi – noi, le memorie, restiamo qui sgomente, / gli occhi chiusi per la stanchezza del pianto/ in una stanchezza infinita.

Bibliografia: Epitaffi greci: la Spoon River ellenica di W. Peek, traduzione di Franco Mosino; a cura di Emanuele Lelli, prefazione di Giulio Guidorizzi, con la collaborazione dei ragazzi del Liceo Tasso di Roma, Milano, Bompiani; Il pensiero occidentale, 2019; Antologia di Spoon River, Edgar Lee Masters, traduzione di Fernanda Pivano, Torino, Einaudi, 1971.