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Giuseppe Cacciari

13 dicembre 1726 - 2 dicembre 1802

Scheda

Figlio dello speziale Sante, che aveva bottega addossata alla torre degli Asinelli (Guidicini, Cose Not., V, p. 228), e di Rosa Berselli, Giuseppe Cacciari era nato il 13 dicembre 1726 (Carrati, Nascite, B 874, c. 127). La madre era sorella di Gaetano Berselli, anch’egli speziale, arricchito con l’appalto dell’allume, morto a Civitavecchia nel 1770, la cui unica figlia, Antonia, sposò Giacomo Marescotti dando origine alla famiglia Marescotti Berselli (Guidicini, Cose Not., II, p. 201). All’arrivo dei Francesi Giuseppe Cacciari era già un anziano e stimato avvocato: avvocato di Camera del Senato e giudice commissario per l’archiviazione dei pubblici rogiti nel Pubblico archivio (Diario 1796, pp. 92, 96). Sposato con Orsola Arfelli, aveva due figli maschi (Giacomo e Filippo) e una femmina (Maria), ed abitava in via San Vitale all’antico n. 62 (ora n. 24), in una casa comprata dal padre per 9.600 lire nel 1728 e che lui aveva ingrandito con l’aggiunta di un arco di portico (Guidicini, Cose Not., V, p. 228).

La stima raggiunta gli permise, smantellato il vecchio ordine di cose, di essere impiegato nella nuova magistratura: fu subito nominato giudice aggiunto al Tribunale d’appello («La Gazzetta di Bologna» 19 luglio 1796), e chiamato a far parte della Giunta di costituzione, che, nella illusione di autonomia fatta balenare dal primo Bonaparte, avrebbe dovuto ideare «quella forma di governo, che nella sua sostanza si avvicini all’antica, cioè quando Bologna non era sotto la dominazione dei pontefici». Un avviso della Giunta in data 5 luglio 1796 invitava «qualunque cittadino a somministrarle in iscritto memorie e suggerimenti con portarle a casa dell’avv. Cacciari» (Guidicini, Diario, I, p. 19; «La Gazzetta di Bologna», 27 luglio 1796). Nell’ottobre dello stesso 1796 fu deputato al primo Congresso Cispadano a Modena, e nel novembre fu il primo eletto fra i senatori da aggiungere al vecchio Senato aristocratico (Guidicini, I Riformatori, III, p. 121).

Contestate dai giacobini (perché «pochi eccettuati, non essendo stati eletti per l’aggiunta popolare, che Religionarij, Papalini, ed imbecilli, se ne aumentò l’infame aristocrazia invece di diminuirsi»; «Il Quotidiano Bolognese», 8 gennaio 1798), le nomine avevano dato origine a una satira «supra dubium an placeant adjuncti ad Senatum die 7 novembris 1796». Cacciari era nel gruppo con i bolognesi Luigi Cecchelli avvocato, Luigi Palcani Caccianemici professore di filosofia, Vincenzo Brunetti notaio, e con Giuseppe Fabbri medico della Baricella, Antonio Bacchetti medico di Vergato, e Giovanni Nepomuceno Bragaldi possidente di Castel Bolognese, così giudicati: «Negative; non constare in illis de virtutibus neque theologalibus, neque cardinalibus» (Ungarelli, Il generale Bonaparte, pp. 251-252). A questi primi coinvolgimenti seguirono due rifiuti: nel dicembre 1796 Cacciari declinò la nomina a deputato al secondo Congresso cispadano (Casini, I Deputati, p. 140 in nota), e nel novembre dell’anno dopo chiese di essere esonerato dal far parte del Corpo legislativo dove era stato nominato fra i Seniori (Guidicini, Diario, I, pp. 86, 96). Nel maggio del 1798 fu chiamato a far parte del Tribunale dipartimentale, e nel settembre dello stesso anno rifiutò la carica di ministro della Giustizia (Guidicini, Diario, I, pp. 111, 140). Nel luglio del 1800, al ritorno dei Francesi dopo la parentesi austriaca, fu nominato commissario di Governo del Dipartimento del Reno, e si trovò ad affrontare una grave crisi economica, per la scarsità del raccolto, per una epidemia di epizootia bovina, per la difficoltà dei traffici, per le requisizioni, i passaggi di truppe da mantenere, e il peso fiscale sempre più intollerabile (Varni, Bologna Napoleonica, pp. 21-34). Al termine di quattro mesi di febbrili quanto vani tentativi di fronteggiare i bisogni della città garantendo al Governo centrale il pagamento delle tasse richieste, Cacciari e la sua Amministrazione si risolsero a decretare l’apertura delle casse della Finanza, e ad usare il denaro destinato a Milano per le necessità locali. Il gesto, che avrebbe comportato inevitabilmente la destituzione, piacque: «Questo decreto è giustificato, perché da qualche tempo la detta amministrazione era oppressa dalle fatiche e angustiata per trovar mezzi di sussistenza alla popolazione in un’annata di somma miseria e carestia. Tutte le sere studiava il modo di cibare il popolo e la truppa il susseguente giorno. Essa requisiva il grano dov’era, ma lo pagava in contanti. Il governo le tolse il maneggio della cassa, e con questo la risorsa di sfamare tanta gente. In una delle sedute, tenuta ultimamente di notte, non trovando più verun rimedio, emanò quel decreto, col consenso anche del commissario Cacciari, per far aprire le casse della Finanza, usando, se ne fosse stato d’uopo, la violenza, sul riflesso che era meglio attirarsi un decreto di destituzione, di quello che esporre la città a mille disordini mancando il pane. Fu ordinato a un distaccamento di guardia nazionale di portarsi a notte avanzata agli uffici situati nella località detta dello Spirito Santo, e di rompere la cassa, nel caso che il ricevitore Lodi non si fosse prestato ad aprirla. Così fu fatto, e la Centrale colle 93000 lire levate poté provvedere a sfamare la città e l’armata» (Guidicini, Diario, II, p. 100).

La punizione del gesto arrivò puntuale, e, all’arrivo del commissario straordinario Domenico Pelosi, anche Cacciari fu dimesso. Non prese ulteriore parte alla cosa pubblica, fino alla morte, che lo colse per apoplessia il 2 dicembre 1802 (Foglio sepolcrale D 18 n. 241; Zecchi, I, n. 28; Casini, Di alcuni cooperatori, p. 421). Su Giuseppe Cacciari è rimasto un altro giudizio negativo, che va a bilanciare quello del 1796 di parte “giacobina”: dando notizia dei suoi funerali in data 1 dicembre 1802 nella chiesa di San Vitale, l’anonimo estensore delle Memorie ms. B 3212 lo dice «nemico del Papa, della religione, e Corpi religiosi», e sottolinea che «tanto cooperò per l’abolizione de’ Religiosi nel tempo che era in Senato e doppo l’arrivo dei Francesi che comandava il Senato».

Silvia Benati