Arienti Carlo

Arienti Carlo

21 Luglio 1801 - 21 Marzo 1873

Note sintetiche

Scheda

Carlo Arienti nasce ad Arcore il 21 luglio 1801. Morto il padre Gaetano, a tredici anni si trasferisce a Milano e si iscrive all'Accedemia di Brera, dove segue i corsi di Luigi Sabatelli e Camillo Pacetti. Per mantenersi esegue disegni ed incisioni per privati e galleristi. Il trasferimento a Roma dal 1824 al 1828 è reso possibile grazie all'intervento di un mecenate, amico di famiglia. Il rientro a Milano nel 1831 coincide con l'esecuzione del ritratto di Vincenzo Bellini cui seguono l'Uccisione di Giovan Maria Visconti per il principe di Belgioioso, la Congiura dei Pazzi per il conte Porro Schiaffinati, la Strage degli Innocenti per Ferdinando I d'Austria (1835). Per tre anni è chiamato a sostituire Sabatelli nella cattedra di pittura. In occasione della visita dell'imperatore austriaco del 1838 esegue le decorazioni temporanee atte a coprire gli affreschi napoleonici di Andrea Appiani a Palazzo Reale. Nel 1843 viene chiamato ad insegnare all'Accademia Albertina di Torino. Qui dipinge il suo dipinto più famoso, richiesto dal re Carlo Albero per Palazzo Reale, la Cacciata del Barbarossa da Alessandria.

Elisabetta Farioli nel volume 'Dall'Accademia al vero. La pittura a Bologna prima e dopo l'Unità' (Grafis, 1983) così lo descrive: Arienti abbandona nel 1859 l'Accademia di Torino e accetta la nomina a direttore della ricomposta Accademia di Belle Arti per le Provincie dell'Emilia con sede centrale a Bologna. Cambiamento di certo voluto non soltanto per le critiche suscitate dal suo quadro L'imperatore Federico Barbarossa cacciato dal popolo durante l'assedio di Alessandria (1845-51), in cui si rappresenta nei panni dell'eroe alessandrino Gaetano Aulari, "con berretto rosso, come si usava dai popolani di quei tempi", facendo così nascere sospetti sulle sue idee politiche; ma piuttosto per l'atteggiamento ostile del marchese Di Breme, divenuto presidente dell'Accademia Albertina, che gli affianca alla cattedra di pittura il raccomandatissimo ma modesto pittore Giovanni Marghinotti. C'era già stato in precedenza un suo tentativo di essere inserito tra i professori dell'accademia bolognese, come testimonia una lettera conservata presso la Biblioteca dell'Archiginnasio di Bologna, inviata da Milano il 7 dicembre 1838 all'amico Cincinnato Baruzzi in cui, informandolo della grave malattia che ha colpito la moglie, lo prega di favorire la sua domanda per il concorso alla cattedra di pittura che gli consentirà una sistemazione "quando la catastrofe che mi sovrasta mi obbligherà a dover abbandonare un paese caro ma insieme funesto per la rimembranza della dolorosa mia sorte". Ma la sua richiesta non viene accolta, in quella burrascosa elezione alla cattedra di pittura del 1838 che vedrà vincitore, non senza code polemiche, Clemente Alberi. L'artista si trasferisce dunque a Bologna nel 1859 e vi si trattiene fino alla morte. Non sono per lui anni felici: terminato il grande quadro La barca di Caronte, già iniziato a Torino per commissione reale (che sarà esposto a Bologna nella Villa del Re a S. Michele in Bosco) nel 1861 porta a termine L'origine della lega lombarda e nel 1865 un Ritratto di Vittorio Emanuele II per il sindaco della città marchese Pizzardi che lo destina al Municipio. Di altre opere eseguite a Bologna non abbiamo notizie: anche il progetto, di cui ci informa Masini, della decorazione per la cappella di S. Abbondio in S. Petronio, la cui ideazione gli viene affidata dal marchese Pizzardi, svanisce nel nulla. Il suo nome si lega invece ad una triste sequela di polemiche, testimonianza della crisi dell'istituzione accademica, incapace di rispondere alle nuove esigenze dell'arte (per esempio, nel '63, sulle pagine del Monitore di Bologna egli deve rispondere delle accuse che "non si possono eseguire fra quattro mura quadri che rappresentano fatti accaduti all'aria aperta") che affliggono e mortificano "la dolce indole... la quale mancava, valga il vero, di quella fortezza e fermezza d'animo necessaria a mantenere forza e rispetto alla patria autorità". Ma queste sue difficoltà di inserimento nell'ambiente bolognese derivano soprattutto dalla sua posizione di artista attardato alla tradizione accademica che rifiuta le novità che si vanno affermando intorno a lui: "Io vecchio nell'arte, che posso, se non altro, gloriarmi d'amare... dico che l'arte progredirà veramente quando all'evidenza della materia non sia sacrificato il concetto e il sentimento; che nella pittura di genere i concetti insulsi, laidi e immorali non faranno mai l'onore di nessun artista; e che quando si trattano soggetti storici, bisogna trattarli in modo da far maravigliare e commuovere tutti i cuori gentili, e però prima di tutto bisogna sentirli". Il clima generale di scontento e sospetto verso la direzione dell'Accademia culmina nel 1871, in seguito all'annullamento del concorso per una pensione triennale in cui Salvino Salvini, professore di scultura, per provocare l'esclusione del saggio presentato da Enrico Barberi in favore di un suo protetto, vi aveva apportato sostanziali modifiche, fatto clamoroso in cui vennero coinvolti sia Arienti che il segretario Masini, sospettati di connivenza. Nello stesso anno, in coincidenza con questo episodio, il Ministero decide, vista la sua sempre più penosa infermità, di nominargli un supplente, l'ingegnere Luigi Protche.

La morte di Carlo Arienti non passa dimenticata, tanto che la rivista L'Illustrazione popolare di domenica 30 novembre gli dedica un ampio ricordo: Il pittore Arienti nacque in Arcore, paese della Brianza, l'anno 1801 ai 21 di luglio. Suo padre era botanico e per tale sua professione fu nel 1809 chiamato dal Governo Italico in Mantova alla direzione delle molte piantagioni che si fecero nelle regie proprietà e in quella dei giardini dei reali palazzi. – Il giovinetto Arienti ebbe occasione d'introdursi negli appartamenti degli antichi Duchi di Mantova, decorati di stupende pitture di Giulio Romano e del Mantegna; ed alla vista di quelle magnifiche opere, si sviluppò in lui il desiderio d'esercitare l'arte della pittura. – Era libera al giovine l'entrata in quelle sale, per cui trascurando gli studi letterari, a cui il padre suo voleva che si dedicasse, passava invece le intiere giornate davanti a quei dipinti, esercitandosi a farne copia in disegno, sebbene non avesse avuto alcun principio elementare dell'arte. – Morto il padre suo dopo cinque anni di soggiorno in quella città, la povera vedova si traslocò in Milano sua patria nella speranza di trovare appoggio presso i parenti ed amici per la continuazione degli studi dell'unico suo figlio. – Infatti egli potè esser tosto ammesso quale allievo nelle scuole di Brera, ed in conseguenza dell'esercizio già da lui fatto disegnando in Mantova, fu dai professori Sabatelli e Pacetti trovato idoneo per le scuole del rilievo e del nudo, evitando così il tirocinio delle scuole elementari. – La sua condotta in quell'Accademia, ed il saperlo strettissimo di finanze, fra breve gli procurò d'essere sussidiato per qualche anno di piccola pensione all'Accademia stessa: ma non essendo questa sufficiente a sopperire ai bisogni di lui e della povera vedova, dovette ben presto far uso del poco che aveva appreso nell'arte disegnando per intraprenditori di opere e negozianti di qualunque cosa venivagli ordinata. - Non sono descrivibili gli stenti da lui sofferti in quell'epoca; continuò però alla meglio i suoi studi approfittando delle lunghe sere nell'inverno e delle ore che sarebbero destinate al riposo nel caldo estate. – Giunte all'orecchio di generoso signore, antico amico del padre suo, tanto le strette di lui circostanze, quanto la passione che egli aveva per lo studio dell'arte, che volle vederlo, e con gentili modi fu da questo accolto, e con denaro incoraggiato, e dal medesimo, dopo qualche tempo inviato a Roma, ove si trattenne per quattro anni in circa, in compagnia della già attempata sua madre. Ma la debole pensione assegnatagli da quel signore non gli permise mai durante il di lui soggiorno in Roma, di porre in esecuzione qualche parto della sua immaginazione, e solo potè, come l'ape, girare da museo, da galleria, da monumento a monumento a fare studi e ricordi, aggiungendo ciò che si poteva studiare dal vero nelle pubbliche Accademie di San Luca e di Francia. – Tornato in patria nel 1828, trovò la famiglia del suo buon Mecenate involta nelle sventure, e quindi nell'istante senza appoggio e senza mezzi, dovette prontamente darsi al guadagno, esercitando l'arte per vivere come meglio poteva. - Per molto tempo si procurò ben misera esistenza facendo ritratti a qualunque prezzo, e lavorando continuamente, non potendo mai compier l'anno senza far debiti. Però in quell'epoca incontrò la conoscenza dello insigne maestro Bellini, ed a questo fece il ritratto per amicizia, unico ch esiste di quel grande musicista, che non permise mai nè prima nè dopo di lui che artista alcuno lo effigiasse nè in pittura nè in scultura. Questo ri tratto esiste presentemente nel Conservatorio di Napoli presso il maestro Cosimo intimo amico del defunto Bellini, e questo lavoro migliorò la condizione del giovine pittore, perchè attirata l'attenzione di alcuni giovani patrizi milanesi, onorarono tosto l'Arienti della loro amicizia, ed in seguito assecondarono il desiderio che manifestava di dedicarsi all'arte storica, commettendogli alcuni piccoli quadri di questo genere. – Fu primo tra essi il conte Antonio Belgiojoso, poscia il cav. Morbio ed il marchese Visconti, per il quale specialmente eseguì la morte di Bernabò, quadro che cominciò a procurargli qualche distinzione. – Però l'esercizio dell'arte storica, lo teneva sempre in basse acque; molto tempo costavano all'artista queste sue prime opere, ed essendo le prime, erano ancora come primizie compensate, per cui molti lavori di nessun conto dovette eseguire ancora per dar passo ai bisogni della vita. – Vennegli finalmente commesso dal conte Porro Schiaffinati il quadro la congiura dei Pazzi, e sebbene anche con quest'opera non migliorassero gran fatto le di lui finanze, tuttavia potè col mezzo di questa aprirsi nuova e più onorifica strada, incontrando la relazione di rispettabilissime persone. – Ed infatti il cav. Londonio, in allora presidente dell'Accademia di Milano, così validamente lo appoggiò presso il Governo nell'istanza che il prof. Sabatelli faceva, proponendo l'Arienti a supplirlo nella scuola di pittura durante alcuni anni, dovendo egli assentarsi da Milano per eseguire in Firenze grandiosi affreschi, che dal Governo fu ben presto accettato e con lettera onorifica nominato. Supplì in fatti per tre anni con soddisfazione del Corpo accademico e della scolaresca; e mentre la di lui carriera si faceva brillante, e pareva che la fortuna volesse sorridergli, gravemente s'ammalò la di lui povera moglie, e dopo molti mesi di penosa malattia morì. L'Arienti amava tenerissimamente questa donna, che fin dal suo primo giunger da Roma aveva conosciuta, per cui tanto egli soffrì per la di lei perdita e per le fatiche lunghe da lui sostenute facendole da infermiere nella lunghissima malattia, che da tutti si credeva finita con questa sventura la di lui carriera artistica. – Qualche anno egli stette inoperoso e malandato in salute, ma finalmente sortì col di lui quadro la Parisina, il quale rinnovò nel pubblico milanese la memoria di lui, ed alquanto si riebbe dall'abbattimento lungamente sofferto; e così potè in seguito eseguire un episodio della strage degli innocenti, commessogli già da qualche tempo dall'imperatore Ferdinando d'Austria, e poscia l'Amedeo VIII, quadro di due figure al vero che eragli pure stato commesso dal re Carlo Alberto. – Questo lavoro fu dallo stesso artista portato in Torino; ed il Re saputo l'arrivo dell'opera e dell'autore, volle veder l'una e l'altro. Il quadro incontrò l'approvazione del Re, che il giorno appresso fece tosto interpellare dal suo gran ciamberlano, il marchese Spinola, l'autore, se avrebbe accettata la carica di professore di pittura nell'Accademia Albertina. L'Arienti era già intenzionato di lasciar Milano e voleva stabilirsi in Roma. La di lui patria eragli divenuta oggetto di tristezza: ogni sasso ricordavagli la perdita fatta, della quale non sapeva darsi pace, ed il suo umore era tristissimo, e sperava che ritornando in mezzo agli antichi compagni dell'arte, nella città ove aveva passato i più begli anni della sua gioventù, avrebbe riacquistato nuova vita, e migliorata la condizione di sua salute. L'offerta fattagli dal Re fu dunque tosto da lui accettata, perchè in parte corrispondente alle di lui intenzioni di voler assolutamente espatriare, e perchè vedeva con questa assicurata non tanto la di lui esistenza, ma quella ancora della di lui figlia, memoria cara e preziosa della perduta sua consorte. – L'anno 1843 l'Arienti si stabili in Torino e nel 1845 gli venne commesso da Carlo Alberto il Barbarossa, quadro che serve ora di ornamento alla sala dei Paggi del reale palazzo, nella quale fu collocato soltanto l'anno 1851, perchè i torbidi politici degli anni antecedenti non lo permisero. In quell'epoca l'Arienti trovò nuova fonte di dispiaceri: egli aspettava quell'occasione, come la più logica, per essere introdotto ad ossequiare il suo nuovo signore re Vittorio Emanuele, ed avendo manifestato al sig. march. di Pamparà, allora Intendente della real Casa e presidente dell'Accademia, il di lui desiderio, da questo gli fu più volte bensì promesso che lo avrebbe soddisfatto, ma il giorno non venne mai. – L'Arienti aveva in quella tela effigiato sè stesso sotto la foggia di Galiaudo Aulari eroe alessandrino, con berretto rosso in testa, come si usava dai popolani di quei tempi; fosse un pretesto per tenerlo lontano dalla real presenza, o fosse perchè veramente così si pensasse di lui, fatto è che si sparse voce, che l'artista con quella figura volle mostrare il di lui colore politico, nè si trascurò ancora di indagare le di lui antecedenze, e trovato che egli amò costantemente la patria sua, ed ebbe sempre in odio la dominazione straniera, fu questo per lui un delitto, che gli procurò gravissimi dispiaceri nel momento che sperava invece qualche soddisfazione. – L'Arienti è di principi assolutamente liberali, ma sa piegarsi alla necessità dei tempi, limitando le di lui aspirazioni a quanto si può sperare oggi; solo egli desidererebbe sgombra la sua patria dallo abborrito tedesco, ed affida il resto alla civiltà ed al tempo. – Da quell'epoca egli diventò maggiormente solingo, nel progetto di evitare per quanto fosse stato possibile nuovi dispiaceri: i suoi amici sono pochi. – Dopo il Barbarossa, eseguì il quadro degli Angioli del Calvario, che fu acquistato dal suo amico cav. Antonio Gargantini di Milano, e nell'occasione che questo suo lavoro si vedeva nel suo studio, che era aperto a chi voleva entrare, fu insignito dell'ordine dei santi Maurizio e Lazzaro: forse qualche distinto personaggio, od il signor conte Nigra, ministro della real Casa, fece presente a S. M. che quest'uomo era stato dimenticato. Eseguì parimenti un episodio della persecuzione cristiana, per commissione del signor marc. Antonio Busca di Milano, e due o tre altri quadri che finora non sortirono dal suo studio. Nel corso di tredici anni che egli diresse la scuola di pittura della reale Accademia Albertina, possono contarsi molti allievi suoi che onorano lo stabilimento, e chiaramente comprovano che la scintilla del genio per le arti belle in Italia si sviluppa dalle Alpi al Mare. Però in conseguenza delle imperfette istituzioni della cessata Direzione di quest'Accademia, essi non ebbero mai campo di render conto alla nazione degli studi da essi fatti e delle cognizioni apprese. Nessun grande concorso, nessuna esposizione annuale dei loro lavori, nessuna pensione per l'estero, e poco e nessun incoraggiamento nè dal Governo, nè dai particolari, che loro prestasse i mezzi di far mostra del loro sapere. Per cui molti forniti di propri mezzi, o di particolari pensioni, si recavano altrove a compiere i loro studi, ed a vuotare il sacco di quanto avevano appreso nella reale Accademia di Torino; e quelli meno fortunati furono sinora costretti di darsi al guadagno appena usciti dall'Accademia, e perdersi così in mezzo alla folla di quegli artisti che restano nello stadio della mediocrità, piuttosto per mancanza di mezzi, che per mancanza di ingegno. Tuttavia possono contarsi come di lui allievi un Degiorgi, che presentemente gode buon nome in Roma, i due fratelli Gauthie, un Sereno, un Lupetti, un Fagnani, l'Ajdù ed il Barucco, ed anche l'Enrico Gamba, ora professore di disegno nell'Accademia stessa ed il Giuliani di lui supplente, e molti altri che dovettero cambiar cielo per guadagnarsi il pane. Questi cenni biografici scrisse di sè stesso l'Arienti, quando nel 1856 il marchese Ferdinando di Breme, assunta la presidenza dell'Accademia Albertina, volle conoscere il passato dei professori che in essa educavano la gioventù al culto dell'arte. Noi li abbiamo trovati nella Vita che dell'Arienti scrisse, con molto amore, Cesare Masini; il quale fa precedere e seguire a questi cenni, altre completare la biografia. L'Arienti era autore d'altre molte tele, di cui ricordiamo Beatrice Tenda con un vecchio Solitario nel momento che Ode lontano il canto d'Orombello Egisto che porge a Clitenestra il coltello parricidaGli Angioli del Calvario Geremia seduto all'ombra d'un fico al dissopra d'una fonte dissecata, il quale predice, a chi andava per attinger acqua, che la mancanza di questa era il segnale dell'ira divina contro Gerusalemme. A Torino ebbe a soffrire dolore per quistioni d'arte, ma venuto il 1859 fu noviziato, l'anno di poi, direttore dell'Accademia di belle arti di Bologna. Ivi portò seco quadri non pochi da lui fatti in varie epoche e rimastigli nello studio, notabili: un Oreste che giura sulla tomba di AgamennoneFedra ed Ippolito il figliuol prodigo la strage degli innocentila figlia di Jefteun episodio della guerra di Missolungii profughi di Tortonai fuggiaschi milanesila congiura di PontidaFrancesca da RiminiNello della Pietra – la Pia de' Tolomei i Comaschi dopo la guerra coi milanesi la vedova di un capitano il perdono, ed alcun altro, non che diversi studi di teste, bozzetti d'invenzioni e ritratti, fra i quali quello di sua madre, quello della defunta sua moglie e diversi del proprio (destinatone uno alla fiorentina galleria degli uffici), e insieme a tutte queste opere piene di distinti pregi e di non comuni bellezze, recò pure con sè una grandiosa tela, nella quale aveva dipinta la barca di Caronte, lavoro di commissione regia, da lui già molto inoltrato, che quivi compiuto, fu poi messo ad ornare una sala della villa reale di S. Michele in bosco. A questa commissione ne susseguì altra pur regia di altro quadro destinato per la stessa villa a far riscontro al predetto, e nel quale rappresentò l'origine della lega lombarda, e fu l'ultima opera sua. E ben fu lieto e soddisfatto che poco dopo averla finita, fosse trasportata insieme all'altra, ed entrambe collocate negli appartamenti del real palazzo del Quirinale, quando furono allestiti pel re Vittorio Emanuele, che in Roma compieva l'unità d'Italia. Come direttore, lasciò a tutti i professori libertà d'insegnamento, solo cercando che le buone tradizioni dell'arte nostra servissero non a vano vanto di cose passate, ma a far sì che lasciassimo noi pure ai nostri nipoti, come i nostri avi a noi, nobili tradizioni di vita artistica vera, reale e non semplice vegetazione che assomiglia più a una dormiveglia che a una vita reale; tentò qualche riforma, ma in generale gli fà difetto l'indole troppo dolce e debole. La sera del 20 luglio 1869 fu colpito da emiplegia. Rimasto paralizzato negli arti superiore e inferiore della parte destra del corpo, e conservata intatta e lucidissima la mente, potè questa, dopo tutte le cure che l'arte medica suggerisce e tenta in simili mali pur troppo insanabili, dedicarla alle cose dell'Accademia. Negli ultimi dell'ottobre del 1872 la sua malattia ebbe un rincrudimento tale che fu chiamato il prete, e parea che poche ore gli rimanessero di vita; ma per la robustezza di sua tempra potè riaversi, e continuare ancora in quel suo stato di compassione. Ma deperendo sempre, e già consumato nelle carni, rottesi in diverse parti pel lungo giacere, lo assalirono gagliardissime febbri, che a quando a quando, dopo i brividi, diffondevano in quel corpo sfinito mortifero sopore. Inutili ormai gli aiuti e i ristori dell'arte salutare, un buon sacerdote, da lui desiderato, gli fu d'accanto, col quale si acconciò per le cose dell'anima. Con cristiana rassegnazione ricevette l'unzione santa de' morienti, dopo la quale rimase ancora quattro dì a lottare con la morte, finchè, perduti i sensi ed i polsi, rese l'ultimo respiro in su la mezzanotte del 21 al 22 di marzo dello stesso anno. Fu l'Arienti grato a quanti gli furono prodighi di soccorsi, e ricordava sempre con grandissimo affetto la casa di Savoja a cui doveva l'artistico onorato esser suo.

Anche il periodico 'L'arte della stampa' nel maggio 1873 dà notizia del pittore in occasione della morte: L'Arienti apparteneva a quella illustre scuola di pittori che sdegnando il tritume, le macchiette, i gingilli da salottini, le scenette insulse o lubriche che fan la gioia dei nostri nababbi in diciottesimo, ha sempre conservato il culto del grandioso, l'amore al quadro storico. – La Cacciata di Federigo Barbarossa, Un Episodio della guerra di Missolungi, I Fuggiaschi milanesi, Parisina, La Congiura di Pontida e tanti altri grandiosi quadri, potentemente pensati, largamente disegnati e dipinti, lo collocano tra i primi in quel gruppo di veri maestri che onorarono la pittura nella prima metà del secolo, quali un Bezzuoli, un Podesti, un Haiez e pochi altri. (...) Nel 1843 ebbe la nomina di insegnante la pittura a Torino, nel 1860 passò a Modena e quindi a Bologna come direttore di quell'Accademia. Molte amarezze ebbe a soffrire il degno artista specialmente a Torino e Bologna; ed in ultimo lo afflissero non poco gli scandali nei quali furono impigliati i professori Salvini e Masini, ed il collocamento a riposo dell'ultimo che era stato per lunghissimi anni il più valido aiuto dell'ormai vecchio ed infermo Direttore. Ad eternare la memoria dell'Arienti bastano i suoi quadri; ma la sua seconda moglie, Lorenzina Pisani, volle aggiungervi, con gentile pensiero, un modesto monumento da collocarsi nella celebre necropoli bolognese. Già il disegno fu fatto dal prof. Massimiliano Putti, e si sta eseguendo dal giovane Enrico Barberi, allievo del prof. Salvini.

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Quadro socio politico della Bologna post unitaria nel periodo 1859-1900. Intervista ad Alberto Preti. A cura del Comitato di Bologna dell'istituto per la storia del Risorgimento italiano. Con il contributo di Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna. www.vedio.bo.it

Documenti
Atti della Regia Accademia
Tipo: PDF Dimensione: 3.33 Mb

Atti della Regia Accademia Centrale delle Belle Arti dell'Emilia in Bologna per la sua premiazione, Masini Cesare, Bologna, Regia Tipografia, 1860.

Certosa di Bologna (La)
Tipo: PDF Dimensione: 160.28 Kb

Angelo Raule, La Certosa di Bologna - Guida; Nanni, Bologna, 1961, INDICE DEI NOMI.