Salta al contenuto principale Skip to footer content

Nicola Martino Capelli

20 settembre 1912 - 1 ottobre 1944

Scheda

Nicola Martino Capelli, 32 anni, sacerdote. Nato a Nembro (Bergamo) il 20 settembre 1912 da Martino e Teresa Bonomi. Nel 1943 residente a Bologna. Cresciuto in una famiglia di modeste condizioni economiche, entrato a 12 anni nella Scuola apostolica dei Sacerdoti del Sacro Cuore di Albino (BG), fatta la prima professione religiosa nel 1930 nel noviziato di Albisola Superiore (SV), completati gli studi nel seminario regionale Benedetto XV di Bologna, venne ordinato sacerdote il 26 giugno 1938, nello Studentato delle Missioni di Bologna. Dal 1939 al 1942 frequentò a Roma il Pontificio istituto biblico e il Pontificio ateneo di Propaganda Fide, conseguendo con lode la licenza in teologia.

Nel 1943-1944 insegnò sacra scrittura nello Studentato teologico di Bologna, sfollato, dal settembre 1943 a Castiglione dei Pepoli e, poi, dal 6 luglio 1944 a Burzanella (Castiglione dei Pepoli). Qui, il 18 luglio 1944, con padre Enrico Agostini, chiese grazia per i cinque partigiani arrestati e giudicati dai tedeschi. Confessò uno dei due condannati, Sirio Fabbri , ricoprendo poi i cadaveri con un lenzuolo. Nello stesso giorno si recò a rintracciare altri partigiani caduti nei dintorni. Durante l’estate, dal 24 giugno 1944, «fece il predicatore itinerante nelle piccole comunità dell’Appennino». Fu a Veggio (Grizzana), Vedegheto (Savigno), Montasico (Marzabotto), Venola (Marzabotto), Casaglia (Marzabotto), Montorio (Monzuno), Caprara (Marzabotto). «Scambiato per un cappellano militare repubblicano fu minacciato di morte». «Il suo casco di capelli rossi, il suo accento forestiero, il suo carattere atipico rispetto alla gente del luogo, lo metteva facilmente al centro di sospetti». «Chiarito l’equivoco», «gli venne rilasciata una dichiarazione scritta come salvacondotto per non essere inquietato nei suoi spostamenti. Si instaurò, anzi, un rapporto di stima e di apertura all’ascolto», anche se «non esitò a contestare atteggiamenti e metodi che portavano a colpire inconsultamente persone innocenti e a scatenare terribili ritorsioni». Il suo rendersi «disponibile a un dialogo fraterno e sacerdotale [...] di vera e propria catechesi» lo portò ad «essere incriminato e condannato a morte dai nazifascisti, come filopartigiano».

Dal 20 luglio 1944 si era stabilito a Salvaro, nella canonica di mons. Fidenzio Mellini , divenuta una «città di rifugio». Vi incontrò don Elia Comini , con il quale rimase, rinunciando - nonostante gli inviti pressanti e ultimativi ricevuti dai superiori - a rientrare a Burzanella . Con don Comini, tra l’altro, forzando il blocco delle SS, il 28 settembre 1944 recuperò le salme di tre uomini uccisi. Il 29 settembre 1944 venne arrestato mentre, sempre in compagnia di don Comini, andava «caritatevolmente a soccorrere le altre persone uccise e bruciate». «Accorsero insieme, allo sbaraglio, portando con sé - come usavano fare in quei giorni di emergenza assoluta - la stola e l’olio degli infermi», alla Creda (Grizzana), dove si stava consumando l’eccidio di 70 vittime. Le SS, «ritenendoli spie e maltrattandoli, si servirono di loro come giumenti per il trasporto di munizioni, facendoli più volte scendere e salire per il monte sotto la loro scorta». Uniti ad altre 109 persone rastrellate vennero rinchiusi nella chiesa di Pioppe di Salvaro (Grizzana). Il 30 settembre 1944 padre Capelli venne accusato da Cacao, un ex-partigiano collaborazionista dei nazifascisti. Rinchiuso nella scuderia davanti alla chiesa di Pioppe, insieme con don Comini, trascorse l’ultimo giorno. Furono inutili i tentativi fatti di salvare i due sacerdoti, anche perché essi risposero: «O ci libera tutti o nessuno».

La domenica 1 ottobre 1944, insieme con altri 44 uomini, venne ucciso dai «tedeschi nella botte d’acqua dello stabilimento» delle Industrie Canapiere Italiane. I corpi delle vittime vennero «lasciati lì a galleggiare, impedendo il loro recupero». Uno degli scampati, Pio Borgia, «potè scorgere p. Martino che con uno sforzo immane si alzava dal fango della botte; e premendosi con una mano il ventre orribilmente squarciato, con l’altra tracciava un segno di croce ampio e solenne sulle vittime della carneficina». Il 13 settembre 1976 è stata chiesta «l’apertura del processo canonico per la dichiarazione dell’eroicità delle virtù e del martirio», quale testimone della fede. Alla sua memoria è stata decretata il 23 febbraio 82 la medaglia d’argento al merito civile, con la seguente motivazione: «Sacerdote di non comune carità cristiana e profondo spirito apostolico, non esitava, con coraggio ed eroismo, a portare conforto a civili presi in ostaggio per rappresaglia dai tedeschi. Nell’estremo tentativo di ottenerne la liberazione, veniva catturato e condannato a morte come spia, coronando con il supremo sacrificio un’esistenza dedita al prossimo». - II 1 ° ottobre 1944 in Pioppe di Salvaro (Grizzana Bologna). [A] [AP]

Nicola vide la luce il 20 settembre 1912 nella ridente Val Seriana poco distante da Bergamo. Era l’ultimo di sei fratelli e la sua famiglia era molto povera. Il papà faceva il falegname e la mamma accudiva i piccoli. Frequentò le scuole elementari a Nembro, il suo paese di origine, e a dodici anni, su consiglio del parroco, fu iscritto alla Scuola apostolica di Albino per potere proseguire gli studi. Durante questi anni maturò la sua vocazione e al termine del ginnasio entrò nel noviziato dei padri del Sacro Cuore ad Albissola Superiore. Vestì l’abito religioso e assunse il nome di Martino, come il papà che già aveva raggiunto il Signore in cielo. Terminato l’anno canonico, fece la sua prima professione il 23 settembre 1930 e fu trasferito a Bologna presso lo Studentato delle Missioni. L’anno seguente ritornò ad Albino come prefetto degli apostolini. In quei mesi gli morì la mamma. Fu per padre Martino un grande dolore. Egli si affidò con ancora più slancio alla Vergine Maria sua madre del Cielo. Ritornò a Bologna per proseguire gli studi di filosofia. Il 23 settembre 1933 fece la professione perpetua. L’anno seguente fu di nuovo designato come prefetto degli studenti, questa volta a Trento: solo nel 1935 poté rientrare a Bologna e proseguire gli studi di teologia. Il 26 giugno 1936 fu ordinato sacerdote. L’8 agosto celebrava la sua prima messa allo Zuccarello, il santuario della sua fanciullezza, dedicato alla Vergine addolorata. Non aveva ancora completati gli studi, e così riprese la sua vita di studente. Presentò ai superiori la richiesta di andare in un paese in missione. Intanto un terribile avvenimento stava scuotendo l’Europa: la Germania aveva attaccato la Polonia, lo spettro della guerra si stagliava sempre più nitido. Terminò gli studi con una media alta, oltre il nove, e i superiori decisero di mandarlo a Roma per prendere la laurea in Sacra scrittura e in Storia ecclesiastica, presso l’Istituto biblico, che raggiunse nell’ottobre del 1939. Quando l’Italia entrò in guerra, Martino si trovava ancora a Roma. Dopo la licenza in teologia, ritornò a Bologna come insegnante presso lo studentato, durante le vacanze, che trascorse a Castiglione dei Pepoli. Ritornò ancora a Roma, ma ad un passo dalla laurea venne chiesto a padre Martino di rinunciarvi, per insegnare agli studenti a Castiglione dei Pepoli Sacra scrittura e Storia della Chiesa.

Siamo nell’anno 1943! I tedeschi invadono il piccolo centro e si insediano anche nella casa dei Padri del Sacro Cuore. Infatti, dopo lo sbarco di Anzio e l’arrivo degli alleati, i tedeschi erano stati costretti a risalire verso il nord, e tutto l’Appennino tosco-emiliano era divenuto zona di aspri combattimenti. Dopo il bombardamento del paese il 5 luglio, si rese necessario sfollare la comunità dello studentato da Castiglione dei Pepoli a Burzanella. Gli scontri tra i tedeschi e i numerosi partigiani che popolavano quelle montagne si erano fatti sempre più ravvicinati. Padre Martino assistette più volte a esecuzioni capitali sulla piazza del paese. Incurante del pericolo, padre Martino decise di andare a Salvaro per aiutare il vecchio parroco mons. Fidenzio Mellini e, arrivato in canonica, vi trovò don Elia Comini, salesiano. Da questo momento le loro vite furono unite fino al martirio. Ogni giorno padre Martino faceva lunghi chilometri per andare a trovare i contadini della montagna. Per una serie di equivoci i partigiani lo credettero una spia, lo fermarono e lo interrogarono a lungo. Una volta liberato, continuò poi ad andare da loro per parlare del Signore. Era evidente che la sua situazione era sempre più compromessa: da Bologna salì un confratello per esortarlo a scendere in città, ma egli non accettò. Il 26 settembre ci fu uno scontro fra nazisti e partigiani: un tedesco rimase ucciso. Come ormai era consuetudine i tedeschi misero in atto una rappresaglia e tre civili rimasero uccisi, don Elia con padre Martino corsero in aiuto per cercare di placare i tedeschi.

Il venerdì seguente, 29, all’alba, i tedeschi iniziarono un rastrellamento a tappeto di tutto il versante di Salvaro. Fu una strage. Un centinaio di uomini riuscì a scappare e cercò rifugio nella canonica. Alcuni furono nascosti nella sagrestia, altri sotto il pavimento della cucina. Le donne si rifugiarono in chiesa a pregare. I tedeschi arrivarono e non riuscirono a trovare nessuno. Poco dopo arrivò un uomo dalla Creda (Grizzana) e raccontò, sconvolto, delle tante vittime della strage. Padre Martino e don Elia decisero di andare lassù, ben sapendo a quale pericolo si esponevano. Vennero arrestati lungo la strada da un battaglione tedesco, portati a Pioppe e rinchiusi nella casa adibita a scuderia. Sono in tanti, tutti ammassati, infreddoliti e affamati, sorvegliati dai tedeschi, nessuno può avvicinarsi a loro. Verso mezzogiorno del 30 arriva un ufficiale fascista e con lui un ex partigiano, il quale, conoscendo bene i suoi ex compagni può far valere la sua accusa. Il processo ha inizio! Ad uno ad uno vengono giudicati e assegnati ai due gruppi precedentemente costituti. I due padri sono destinati a quello dei vecchi e inabili. I giovani e gli uomini validi vengono portati nella chiesetta accanto. Nel pomeriggio il cav. Veggetti, commissario prefettizio di Vergato, cerca di ottenere clemenza per i prigionieri, ma non è ascoltato, riesce però ad ottenere la libertà per uno dei due sacerdoti. Nessuno dei due accetta, vogliono condividere fino in fondo la sorte dei loro compagni di prigionia. Arriva l’alba dell’1 ottobre. È domenica!

I soldati distribuiscono, dopo tre giorni, un po’ di cibo e questo riaccende un poco la speranza dei prigionieri, ma quando vengono loro tolti i documenti, gli orologi ecc. capiscono che le ore sono ormai contate. Don Elia e padre Martino si confessano a vicenda. Poi vengono fatti fermare davanti alla “botte”, una grande vasca che raccoglie le acque per alimentare le turbine della canapiera. Un primo gruppo viene fatto salire su di una passerella, i soldati puntano le mitragliatrici. Si odono ancora le preghiere intonate dai due sacerdoti poi gli spari. Poi è il turno del secondo gruppo. Alla fine vengono lanciate tra i corpi alcune bombe a mano. Scende un grande silenzio, rotto da tenuti lamenti. Dopo alcune ore un uomo ferito cerca di uscire dalla vasca e si aggrappa alla veste di padre Martino. Egli è ancora vivo, ma ferito gravemente, cerca di sollevarsi e con la mano destra traccia ampi segni di croce sui corpi ormai inermi poi ricade con le braccia in croce. Nei giorni seguenti alcuni sacerdoti cercarono di recuperare i corpi - quello di padre Martino era ben visibile con la talare disteso sopra gli altri - ma non fu loro permesso. Poi furono aperte le paratie della botte e i corpi scesero a valle travolti dalle acque.

[NN]