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Basilica di san Domenico

Di rilevanza storica

Schede

La Basilica di san Domenico è una delle chiese bolognesi più ricche di storia d'arte. Patriarca fondatore dei Frati Predicatori (o Domenicani), lo spagnolo san Domenico di Guzman arriva a Bologna intorno al 1200 dove acquisisce la chiesa e la canonica di San Nicolò delle Vigne, zona in cui oggi sorge la basilica a lui dedicata. Dopo la morte del santo, avvenuta nel 1221, saranno gli stessi frati del suo ordine a voler dare vita ad una chiesa più grande in cui poter conservare le sue spoglie, ancora oggi presenti nell'incantevole cappella di san Domenico all'interno di un arca marmorea.

La splendida arca è oggi considerata una delle più pure creazioni dell'arte plastica italiana, impreziosita dalle sculture di Nicola Pisano nell'urna (1267), di Alfonso Lombardi nella predella (1532) e di G.B. Boudard nel paliotto (1768) e sormontata da una splendida cimasa marmorea modellata nel 1469-73 da Niccolò da Puglia detto "dell'Arca". La basilica si affaccia sulla piazza di san Domenico con una sobria fronte romanica ed è fiancheggiata dalla rinascimentale cappella Ghisilardi eretta su disegno di Baldassarre Peruzzi. L'interno è stato ristrutturato tra il 1727 e il 1732 da Carlo Francesco Dotti, che fuse i due primitivi nuclei medievali in un unico organismo di linee corrette e luminose, e presenta inestimabili opere d'arte fra cui dipinti del Guercino (S. Tommaso), di Luca Cambiaso (Natività), di Filippino Lippi (Sposalizio mistico di S. Caterina, 1501), di Lodovico Carracci (S. Raimondo), di Giunta Pisano (Crocifisso).

Di rilievo anche l’angelo reggi candelabro di Michelangelo, i santi Petronio e Procolo (nel retro), la smagliante decorazione pittorica della cappella (la Glorificazione di S. Domenico nel catino è di Guido Reni), i suggestivi chiostri del convento e la cella di San Domenico. Capolavoro dell'intarsio rinascimentale è il coro ligneo di Fra' Damiano da Bergamo (1528-51), definito dai contemporanei l'ottava meraviglia del mondo e ammirato anche dall'imperatore Carlo V.

Il testo seguente è tratto da Cent'anni fa Bologna : angoli e ricordi della città nella raccolta fotografica Belluzzi, Bologna, Costa, 2000.

Nel 1874 la facciata della chiesa di San Domenico subì l’abbattimento dei due bracci di portico della piazza: quello del Seicento, addossato al convento, e quello frontale, opera settecentesca di Carlo Francesco Dotti. 

Nella demolizione fu coinvolto anche il protiro quattrocentesco, «gioiello rinascimentale [...] rimasto quasi intatto fra le ali del portico del Dotti» (A. D’Amato, 1996, p. 256). In quegli anni il complesso domenicano si trovava in una zona interessata da spinte politiche e interessi economici diversi e contrastanti. Da una parte, infatti, nel 1866 la comunità religiosa era stata soppressa per la seconda volta nel corso di un settantennio (la prima era stata nel 1798), perdendo la proprietà dei molti immobili posseduti nella zona, passati all’amministrazione comunale. La piazza stessa - omonima della chiesa che doveva il suo nome alla tomba del santo lì conservata - con delibera del 3 dicembre 1874 divenne piazza Galileo, «con così scoperto intento polemico da far scrivere all’Albicini, uomo non incline a simpatie “clericali”, che tale mutamento costituiva “un calembour che, se non altro, è puerile” da riserbarsi “pour la bonne bouche”» (M. Fanti, 2000, p. 330). La piazza avrebbe ripreso la denominazione originaria un cinquantennio più tardi, mentre a Galileo sarebbe stato intitolato lo spazio che attualmente si trova di fronte alla Questura. Avanzata in Consiglio comunale il 30 gennaio 1868, la proposta di abbattere la statua del santo, che domina l’area dall’alto di una colonna, fu invece respinta a maggioranza.

D’altra parte, l’area si trova nella zona interessata dai primi lavori di sventramento per l’apertura di via Farini, affacciando la piazza su via Garibaldi, che collega piazza Cavour a palazzo Grabinski (oggi di Giustizia), sul tracciato delle antiche vie Egitto e San Domenico. Intitolata all’eroe risorgimentale nel 1867 su proposta - approvata all’unanimità - del consigliere Giuseppe Ceneri, la strada è significativa di come il Comune procedesse nell’opera di rinnovamento urbano sotto la spinta di esigenze e pressioni diverse da quelle richieste per una pianificazione complessiva, rischiando di sacrificare bene pubblico ad interessi privati. Infatti la proposta di aprire una nuova via che unisse il centro cittadino al palazzo del conte Enrico Grabinski, proprietario di molti edifici nella zona, fu avanzata fin dal 1858 dallo stesso conte, con il palese obiettivo di rivalutare le sue proprietà. L’ambizione di valorizzare quel palazzo con un intervento urbanistico di rilievo era stata accarezzata anche dai precedenti proprietari - il conte Annibale Ranuzzi prima, il principe Felice Baciocchi poi -, che volevano costruire un vasto piazzale antistante, arrivando a incorporare piazza San Domenico. Nel corso dell’Ottocento il grandioso progetto si ridimensionò, dando vita alla più modesta piazza Baciocchi (1824-1826). In seguito il nuovo proprietario, Enrico Grabinski, spregiudicato uomo d’affari e abile speculatore, riuscì a far inserire l’apertura di una strada di collegamento importante, adiacente al suo palazzo, tra i “grandiosi lavori straordinari” degli anni Sessanta. Infine, nel 1872, durante l’esercizio provvisorio che seguì la caduta della Giunta progressista - detta “azzurra” perché il malva era il colore di Minghetti – la famiglia Grabinski cedette il suo palazzo all’amministrazione comunale, che avrebbe collocato gli uffici giudiziari lì anziché nell’ex ospedale della Morte (il palazzo che oggi ospita il Museo civico archeologico e la biblioteca del Museo del Risorgimento), come da tempo si diceva. La cifra ottenuta per la transazione fu giudicata così alta, da indurre Carlo Berti Pichat, sindaco facente funzioni, alle dimissioni.

Alla fine dell’Ottocento i rapporti fra Comune e domenicani si distesero, tanto che la comunità, malgrado legalmente non esistesse, ottenne la concessione dell’uso della chiesa e dei locali annessi. In cambio l’amministrazione pretese il restauro della facciata, già studiato da Raffaele Faccioli nel 1894 per conto dell’Ufficio regionale per la conservazione dei monumenti dell’Emilia. Quel vecchio progetto fu ripreso, nel 1909-1910, da Alfonso Rubbiani - incaricato del restauro dal Comitato per Bologna storico-artistica - che avrebbe portato la facciata allo stato attuale, imitandone l’aspetto originario.

In collaborazione con Bologna Welcome