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Avventura a Via Nuova

1950 | 1955

Schede

Nei primi anni ‘50 si cominciava a parlare di vacanze anche per le categorie meno benestanti. O si andava da parenti abitanti in collina o si affittava un appartamento e si portava da casa quanto possibile per contenere le spese. Trascorsi le mie prime vacanze fuori casa da una zia che abitava nella colonia del manicomio dove mio zio esercitava l’“arte” del boaro, aiutato dai malati dei quali si tentava il recupero. Ero magro e nel mese estivo ingrassavo qualche chilo. Negli anni successivi andai al mare con mia zia e le cugine, poi da solo in albergo vicino ad un amico, in seguito in uno a basso costo (900 lire al giorno).

La vacanza era comunque sempre un impegno economico rilevante che la famiglia con un figlio che studiava faceva fatica a sostenere. Per questo i miei genitori cercavano per me una attività che consentisse un minimo introito tale da coprire alcune spese e un breve periodo di vacanza. Fu così che dopo vari tentativi trovarono la raccomandazione giusta da persona imprevedibile per un lavoro contenibile nel periodo delle vacanze estive. Il lavoro non era assolutamente faticoso in quanto consisteva nella sorveglianza del corretto prelievo del campione dal carro con cui i contadini della zona portavano le bietole, nel sigillare il prelevato, nel controllo della pesatura del carro prima e dopo avere caricato la merce sul vagone. Tutto ciò avveniva a Via Nuova sotto il controllo di ben quattro operatori, due per lo zuccherificio e due per i coltivatori. Io (fiol ad Gustèn) e l’amico Carlo (Priletto, fiol ad Manaròn) eravamo i garanti per i coltivatori; Pasi (Pèsi) e Gennaro (al bidèl dla scola media) garantivano per lo zuccherificio. La pesatura doveva essere corretta (lordo e netto) e il campione doveva rappresentare veramente l’insieme del carico. Tutta questa alquanto impegnativa e responsabile attività avveniva tra la pesa pubblica e la stazione ferroviaria di Via Nuova dove il contenuto dei carri veniva caricato sui vagoni per essere trasportato allo zuccherificio di Molinella. I campioni prelevati sigillati venivano inviati allo zuccherificio dove tecnici misuravano il contenuto zuccherino, anch’essi sotto il controllo degli agricoltori, evidentemente molto sospettosi nei confronti dell’industria. Così dai primi di agosto fino a metà settembre tutte le mattine alle sette meno dieci arrivavo assieme agli altri tre alla pesa di Via Nuova per svolgere insieme la nostra mansione con serietà. L’impegno consentiva ampi spazi di manovra e concedeva molto tempo per chiacchiere, per mangiare l’uva che ci portavano i contadini con il pane fresco che compravamo alla bottega di Cenesi (Zneis), per decorare le pareti bianche della pesa e anche per qualche scherzo fra noi. Un giorno capitò che Priletto stava scrivendo sulla mia Lambretta con la carta carbone mentre io avevo in mano un barattolo di vernice rosa da parete; lo invitai a smettere minacciandolo che gli avrei versato in testa la vernice se non smetteva: lui non smise. Dopo lo accompagnai a lavarsi la testa. Il nostro luogo di lavoro (per così dire) era distante qualche centinaio di metri dalla bottega e da un minimo agglomerato di case chiamato Via Nuova (la Vi Nova). Rari passeggeri salivano sui pochi treni che transitavano per andare a Bologna (credo che nessuno sia mai salito per andare a Massalombarda) e quasi tutti erano abitanti della zona conosciuti.

Immaginate quindi (eravamo nel 1955) l’effetto che ci fece vedere una mattina passare davanti alla pesa diretta alla stazione una ragazzina con pantaloni scuri attillati, maglietta bianca aderente che faceva risaltare le pur modeste prominenze del seno, labbra evidenziate da un rosso intenso, capelli scuri pettinati a coda di cavallo, busta per documenti che teneva con due dita facendola pendere dietro la spalla destra. Io e Priletto entrammo subito in azione, sostenuti anche dai nostri controllati. La seguimmo in stazione e iniziammo subito l’approccio. Priletto era meno timido di me e lo condusse. La lingua locale poteva essere solo il dialetto. Priletto chiese con il voi dialettale come si usava allora: “ad chi siv vo sgnurina?”, che tradotto in italiano è “a quale famiglia appartenete?” La risposta fu immediata: “a son d’chi um per” ovvero “non ve lo dico”. E Priletto senza demordere: “cum av ciamiv?” ovvero “come vi chiamate?”, “am ciam cum um per” ovvero ancora “non ve lo dico”; poi “indun stiv?” ovvero “dove abitate?”. Risposta “a stag induv um per” ovvero “non ve lo dico”; e Priletto: “quent an aviv?”, “quanti anni avete?” e lei “aiò qui ch’aiò” ancora non ve lo dico”. E ancora: “induv andiv?”, “dove andate?”; “a vag induv um per”, sempre chiaramente “non è affare vostro, ma solo mio”. Il colloquio continuò per un po’ con queste caratteristiche finché si ebbe lo sblocco quando Priletto indovinò finalmente la domanda giusta: “che lavurir andiv a fer?”, “che lavoro andate a fare?” e la risposta finalmente positiva “a vag a fer un lavurir ch’as fè cun la bocca”, “vado a fare un lavoro che si fa con la bocca”. La risposta ci fece subito ridere perché, com’è ovvio, la interpretammo con malizia. In realtà chiarimmo subito che andava a Bologna a lezione di canto, come poi, una volta sbloccatasi, ci disse diffusamente. La rividi altre due volte alla stazione ed in paese. Non mi risulta che la ragazza che allora aveva quindici anni abbia mai fatto carriera nel canto, ma non ho mai dimenticato quello che nel ricordo è diventato un simpatico incontro.

Giancarlo Caroli

Testo tratto da "Brodo di serpe - Miscellanea di cose medicinesi", Associazione Pro Loco Medicina, n. 10, dicembre 2012.