Scheda
Nato, nel 1820, nel Canton Ticino, in una famiglia di umili condizioni, Vincenzo Vela iniziò, giovanissimo, a lavorare come scalpellino nelle cave di Besazio. Nel 1832, si trasferì a Milano, dove fu impegnato, sempre come scalpellino, presso la Corporazione di marmisti del Duomo. Al contempo seguì i corsi dello scultore Benedetto Cacciatori e del pittore Luigi Sabatelli all’Accademia di Brera. Fu tuttavia il Naturalismo di Lorenzo Bartolini ad affascinarlo, ed è ad esso che si ispirò già nelle opere giovanili, tra cui la celeberrima Preghiera del mattino (1846, Milano, Ospedale Maggiore). Recatosi a Roma nel 1847, conobbe Pietro Tenerani, massimo esponente del Purismo in scultura, e si dedicò soprattutto allo studio dei marmi di Michelangelo e di Bernini. Al rientro a Milano combatté durante le Cinque Giornate e rifiutò la cattedra all’Accademia di Brera che gli fu offerta dal governo austriaco. Le sculture di questi anni, tra cui lo Spartaco (esposto a Brera nel 1851) e la Desolazione, riflettono, oltre ad una vasta cultura in campo scultoreo, un forte impegno politico. Queste opere furono particolarmente apprezzate dagli esponenti milanesi dell’aristocrazia e della borghesia di ispirazione liberale, che condividevano i contenuti ideologici e patriottici espressi dall’artista. Nel 1852, in seguito a contrasti con l’ambiente politico austriaco, si trasferì a Torino dove divenne docente all’Accademia Albertina, incarico che mantenne fino al 1867, quando decise di rientrare definitivamente a Ligornetto. Autore di numerosi monumenti pubblici e funerari, Vela si impose a livello europeo partecipando a numerose Esposizioni. Tra le molte opere scolpite in questi anni, da ricordare almeno il suggestivo e celeberrimo Napoleone morente (Parigi, Louvre), presentato e premiato all’Esposizione Internazionale di Parigi del 1867. Nel 1882, in occasione dell’apertura del Gottardo, eseguì l’altorilievo Vittime del Lavoro (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna), capolavoro del Realismo sociale di cui può essere considerato una sorta di manifesto. Vela si spense nella città natale, il 3 ottobre 1891.
Emanuela Bagattoni
Così viene segnalato da Angelo De Gubernatis in 'Dizionario degli artisti italiani viventi', ed Gonnelli, 1906: scultore famoso e gagliardo, nacque in Ligornetto nel Cantone Ticino da poveri genitori. Fu per qualche tempo garzone scalpellino nelle cave di Besazio, indi fu mandato a Milano sotto un marmista, e studiò a Brera, e poi sotto il prof. Cacciatori, allora rinomato. In quel tempo essendosi aperto per gli studiosi di Brera un concorso sul tema: Il ritorno di Ulisse a Itaca, da farsi in bassorilievo, il modello di Vela fu giudicato il migliore, e ottenne il premio. Poco dopo si cimentò nel gran concorso bandito a tutte le città del regno lombardo-veneto, e che dovea essere giudicato a Venezia; il tema era: Cristo che resuscita la figlia di Jair. Il modello del Vela destò sopra tutti l'ammirazione della commissione giudicante, la quale gli assegnava il premio stabilito: una medaglia d'oro e 60 zecchini. Profittando di quei denari, si portò a Roma a studiare e a lavorare. E non ci voleva meno della voce della patria per fargli gettare, dopo qualche mese di dimora nell'eterna città, i disegni e le stecche. Nato in un Cantone svizzero che fu staccato all'Italia, egli si sentiva italiano. La rivoluzione contro l'Austra era scoppiata, e il giovane scultore tornò in Milano a farsi soldato della libertà. Compressa la rivoluzione dalle armi austriache, Vela, non potendo combattere col fucile, gettava in faccia ai tiranni un'opera nuova, che era, nella mutezza del marmo, un'imprecazione al dispotismo e un fiero inno alla libertà. Quell'opera era Spartaco nell'atto che spezza le catene. Fu un successo clamoroso; il gagliardo concetto Vela lo avea svolto con alto magistero di forma. Il pubblico e la critica salutarono nello Spartaco non solo un lavoro di gran polso, ma un esempio luminoso del nuovo indirizzo della scultura italiana. Lo Spartaco fu acquistato dal duca Litta di Milano. D'allora in poi Vela percorse la linea ascendentale della sua valentia e della sua celebrità. Commissioni, onori, premi, onori ne ebbe quanti, nella sua modestia non sognava neppure. Però il premio più caro al suo cuore fu l'affezzione onde l'hanno sempre circondato i suoi allievi e i suoi compagni dell'arte. Il Vela avendo rifiutato l'offerta dei pretoriani austriaci di entrare nell'Accademia di Belle Arti di Milano, fu preso di mira dalla polizia e sospettato, a giusta ragione, di caldi sentimenti liberali e di odio al governo straniero. Espulso da Milano tornò al natio Ligornetto a consolare la vecchiaia dei suoi genitori. A Ligornetto ricominciò a lavorare e fece la statua del carabiniere Francesco Carloni, ucciso dal piombo austriaco a Sommacampagna, e fece anche la statua del Guglielmo Tell per Lugano. Nel 1852, accettò l'offerta di professore all'Accademia Albertina di Torino, dove esercitò come maestro un'influenza benefica, e come scultore ricominciò un nuovo periodo di creazioni. Fece la Rassegnazione, per la contessa Loschi di Vicenza; la statua del matematico Piola; quella del poeta Tommaso Grossi, quella del filoso Rosmini; una Minerva, per Lisbona; la statua di Cavour, per l'atrio della Borsa di Genova; il monumento a Donizzetti, al quale sovrasta la figura allegorica dell'Armonia, personificata in una donna di elettissime forme, piangente sul ritratto del grande maestro. Fece anche la Speranza, pel monumento sepolcrale della famiglia Prever di Torino; il Cesare Balbo, per i pubblici giardini di Torino; le statue delle due regine Maria Adelaide e Maria Teresa; la bellissima Primavera, per la famiglia Bottaccini di Trieste; l'Alfiere combattente, che sta davanti al Palazzo Madama a Torino (simbolo dell'eroismo patriottico). Fece pure il monumento a Manin, inaugurato in Torino per iniziativa franco-italiana dopo il 1859. Sono del Vela: il Vittorio Emanuele, per il palazzo civico di Torino; il Carlo Alberto, per lo scalone della reggia subalpina; la statua di Gioacchino Murat, commessagli dalla famiglia Pepoli, pel camposanto della Certosa in Bologna: il Dante e Giotto, che sono al Prato della Valle a Padova; la Pregante, la cui mistica bellezza inspirava bellissimi versi ad Andrea Maffei. All'Esposizione francese, del 1863, c'era il gruppo del Vela: L'Italia riconoscente alla Francia, dono delle signore milanesi all'imperatrice Eugenia. La stessa imperatrice ordinava poi al Vela la statua di Cristoforo Colombo che, fusa in bronzo, fu innalzata a Vera Cruz in America. All'Esposizione Universale di Parigi, il Napoleone moribondo, di Vincenzo Vela, in mezzo ad infinite opere di artisti di ogni parte del mondo, meritava il grande premio e l'universale ammirazione. In quel tempo il Vela, malcontento per alcune contrarietà incontrate nell'Accademia torinese, stanco di una vita rumorosa e piena di emozioni, sazio di onori, volle lasciar Torino, l'Accademia, l'insegnamento, e ristabilirsi al suo paesello natio. E tornava nel suo eremo di Ligornetto dove lavorava sempre. A Ligornetto mise assieme, in bell'ordine, una collezione di tutti i modelli delle sue statue che formano una magnifica pinacoteca a cui aggiunge i lavori che va di mano in mano compiendo. Fece in questi ultimi tempi la statua del conte Turconi per l'ospedale di Mendrisio; il monumento Kramer, rappresentante la Scienza dolente; il monumento ai fratelli Ciani, personificato nella Libertà. Entrambe quest'ultime opere, sono nel cimitero di Milano. E' opera sua il sepolcro della contessa Giulini, rappresentante: La Preghiera dei morti, che sta a Verate in Brianza, e ultimamente fece un gran progetto di monumento funebre pel duca di Brunswich, e la statua del Correggio. Fece inoltre un Ecce Homo, che espose a Roma nel 1883, e un monumento al fanciullo Tito Palestrini, che trovasi nel camposanto di Torino, e molti altri monumenti funebri e statue e bassorilievi che lungo sarebbe enumerare. Il Massarani, nel suo libro, L'Arte a Parigi, così scrive di lui a proposito dello Spartaco: "Viene quasi sempre quando una inclinazione è diffusa, un'occasione che dà ansa a sfogarla; e venne un valoroso ignoto, il quale con una semplice statua iconica, trattata senza ombra d'affettazione, anzi con una sincerità a cui nel suo ambiente si era poco avvezzi, ebbe subito intorno una curiosità ansiosa a ammirata; e bentosto anche ebbe nome e credito di trovatore. Egli aveva voluto fare il ritratto di un Santo, e gli era riuscito così schietto e così vivo, che a molti parve di dovere oramai compendiare in quella schiettezza e verità iconica tutta quanta la poetica dell'arte. Non parve peraltro a lui. Ingegno troppo robusto e anima troppo ardente da volersi contentare della entrinseca imitazione del vero, il Vela, poichè è proprio di lui che si parla, aspirò presto a maggiori palme, e le seppe strappare di mano alla stessa alata vittoria. Condensò negli sdegni generosi sul suo Spartaco gli sdegni d'una generazione; e diede alle divine speranze, che mareggiavano allora negli animi, l'ali e il sorriso di quell'altra Speranza divina, la quale non sembra già consolare una tomba, ma evocarne fuori lo spirito della seconda vita." Il De Renzis, nelle sue Conversazioni Artistiche, a proposito dell'Ecce Homo, così scrive: "Rivolgete infatti lo sguardo verso l'Ecce Homo del Vela; è semplice, è pietoso, è dolce; ma se trova nel publico il meritato plauso, egli è meno per la modesta rassegnazione del viso, che per la solidità dello scheletro, reso con sicurezza grande dall'insigne artista. La commozione qui nasce dalla verità dell'uomo raffigurato. Ad esso potrebbero applicarsi i versi del Varchi sul Crocifisso del Cellini: - Io non credea che un marmo e morto e vivo Esser potesse sì pietoso e tristo." E sul monumento del fanciullo Tito Palestrini, ecco quanto scrive un valente critico nell'Emporio Pittoresco, del 6 maggio 1865: "Questo monumento, insigne lavoro del celebre Vela, è una delle più belle opere d'arte che si ammirano nel camposanto di Torino. Che soave, alta, potentissima idea, divinamente scolpita, non invade lo spettatore alla vista di quell'angiolo che già librato sull'ali, solleva dal funereo drappo, che da ogni lato gli ricade, intorno, un altro angioletto cui la morte spiccò dalle rive terrene? La Rissurrezione non poteva con più vivi atti adombrarsi: le due vite congiungentesi l'una all'altra coi loro supremi attributi non potevano con più singolar significazione rivelarsi all'occhio mortale."