Scheda
"La sera dell'8 novembre moriva in Bologna il dottor Vincenzo Valorani professore di medicina teorico-pratica, e membro del Collegio Medico-Chirurgico nella nostra Università, Accademico Benedettino dell’Istituto di Bologna e socio di altre accademie. Fu pure buon letterato e si dilettò di poesia. La di lui perdita è stata sentita con cordoglio dalla città". Così riferisce Enrico Bottrigari nella sua Cronaca di Bologna al volger del 1852, anno che termina con la morte di numerosi uomini illustri in Italia e all’estero — come aggiunge l’attento cronista — tra i quali Vincenzo Gioberti nella sua residenza parigina. Sia la notizia riportata con sobria partecipazione nel diario del notaio e patriota bolognese, fonte preziosa per quanto di più importante accadde in città e fuori dal 1845 al 1871, sia il cursus honorum in essa messo in risalto, inducono a ritenere che la vita di Vincenzo Valorani non trascorse inoperosa, né tantomeno oscura. Ne sono una riprova i pur brevi profili biografici a lui dedicati in alcuni repertori, mentre era ancora in vita, e le commemorazioni post mortem, più ampie. Nella più estesa, recitata il 20 gennaio del 1853 in una sessione dell’Accademia delle Scienze dal suo successore nella cattedra Giovanni Brugnoli, futuro rettore dell’Universita (anno 1889-90), sono poste in luce le peculiarità dell’uomo e dello studioso, illustrate con una certa propensione narrativa per ogni minima umana vicissitudine. In linea peraltro con lo stile che il Valorani stesso seguì nel raccontare di sé, specialmente per quanto riguardava l’adolescenza.
Nato il 5 maggio 1786 a Cantiano, paesino tra Umbria e Montefeltro, dal dottor Francesco, medico di notevole prestigio, e da Candida Ovidi, venne allevato nel paese avito, Offida, presso Ascoli Piceno, dalla troppo indulgente nonna paterna, crescendo perciò privo di una tutela rigorosa. Quando ormai andava per gli undici anni, il padre pensò bene di riprenderselo per educarlo più severamente: a questo brusco cambiamento di rotta sembrò poi doversi imputare un certo ritardo nel raggiungere la pubertà, e uno sviluppo del fisico non adeguato a quanto lasciava presagire la sua costituzione. Anche la capacità d’apprendimento segnò il passo, sfavorita dal continuo mutar di maestri dovuto ai frequenti trasferimenti di condotta del padre. Finalmente questi stabilì la famiglia a Iesi, dove Vincenzo quindicenne poté frequentare il locale Collegio Seminario fino ai diciotto anni, rifiorendo nel corpo e nella mente, sotto la guida del canonico Ignazio Belzoppi, al quale si sentì sempre legato da sentimenti di affetto e stima, pienamente ricambiati. Su istanza del padre, alla fine di novembre del 1808 venne a studiare medicina a Bologna, in un ambiente a quel tempo culturalmente più vivace e stimolante della stessa Roma. ll suo esordio fu così poco soddisfacente da indurlo a pensare di abbandonare l'università, decisione che non attuò solo per il timore di disonorarsi e di demeritare agli occhi paterni. Riuscì comunque a resistere, progredendo in seguito a tal punto da guadagnarsi il favore di Antonio Giuseppe Testa, professore di clinica medica, non solo grazie all’abilità terapeutica, ma anche per la facile vena letteraria con cui sapeva sia descrivere i più gravi casi affrontati, sia ridurre in forma di dissertazione le lezioni settimanali che il Testa improvvisava in latino. Infatti anche a Bologna, come in altre famose sedi universitarie — Pavia, Padova, Pisa e, per certi aspetti, Roma stessa — sopravviveva quello stretto legame, di matrice illuministica, tra cultura scientifica e cultura letteraria, che soprattutto i professori di medicina, in gran parte di estrazione borghese, riconoscevano come specifico del proprio sapere.
Una volta laureato ed intrapresa la professione attiva, ottenne ben presto un’ampia e altolocata clientela, non solo bolognese. Ebbe inoltre vari riconoscimenti ufficiali della sua perizia in campo professionale, alcuni dei quali potrebbero però far sospettare anche un certo desiderio di allontanarlo da Bologna: nel 1817 venne designato dalla Commissione di Sanità per arginare l'epidemia di tifo imperversante in Ascoli, incarico non accettato per un’improvvisa — ma forse provvidenziale — malattia, mentre nel 1818 venne fatto anche il suo nome, insieme a quelli del Rasori e del Moreschi, per succedere al Borsieri nell’incarico di medico in Faenza. Nel 1824, quando con la bolla "Quod divina sapientia" vennero riformati gli studi superiori, Valorani fu ascritto al Collegio Medico-Chirurgico dell’università felsinea; non risulta invece che abbia mai fatto parte della Società Medica Chirurgica, che raccoglieva il fior fiore dei professionisti, e ciò desta qualche stupore. Nel 1829, alla partenza da Bologna del famoso Giacomo Tommasini, successore del Testa nell’insegnamento di clinica medica, venne nominato professore supplente, mentre la titolarità della materia spettò a Giovan Battista Comelli; finalmente due anni dopo poté assidersi in cattedra, succedendo nella docenza di medicina teorico-pratica a Gioacchino Barilli. "Nell'insegnamento seguì in gran parte le dottrine del Tommasini; il che prova che in taluna di quelle non pur dissentì da quel sommo, ma ebbe eziandio il coraggio di dissentirne pubblicamente". Sia l'affermazione del Brugnoli, tesa a sottolineare l'indipendenza di giudizio del Valorani, sia l’accelerazione che alla carriera di quest'ultimo si impresse alla partenza del Tommasini, spingono a credere che il Valorani, pur seguace della cosiddetta "Nuova Dottrina Medica Italiana" — basata sulle teorie browniane dello stimolo e del controstimolo, riprese e modificate dal Rasori, che il Tommasini propugnava dalle pagine dell’omonimo Giornale — non avesse poi troppo da lagnarsi dell’allontanamento dell’"inclito amico, a cui diè in sorte il Cielo / vena immensa d’ingegno e d’intelletto". Fu inoltre in relazione con Maurizio Bufalini, egli pure dedicatario di rime celebrative, che era avverso al Tommasini sia per differente dottrina, sia per essere stato da lui soppiantato nella successione al Testa sulla cattedra di clinica medica.
Una volta divenuto docente, il Valorani dovette rinunciare ad esercitare contemporaneamente anche la professione, persistendo la precarietà delle sue condizioni di salute, compromesse, come abbiamo accennato, fin dall’infanzia, e aggravatesi per alcuni incidenti che hanno del romanzesco: dall’incendio del pagliericcio nella stanza dove dormiva, che poco mancò l’asfissiasse, alla caduta da un calesse trainato da cavalli imbizzarriti, che gli lasciò una tremenda nevrosi per tutta la vita. "Natura arcana e me fu sì madrigna, / che quel che giova altrui, nuoce a me sempre, / e mi diè corpo di strane tempre / che il ben non mai, ma solo il mal v’alligna", ebbe a dire di sé. Nonostante la salute malferma, o forse proprio per opporsi alle continue avversità, egli ebbe gusto per la ricerca scientifica e pubblicò svariate trattazioni dei più interessanti casi medici osservati; ebbe inoltre l’onore di leggere numerose memorie al riguardo durante le sessioni dell’Accademia delle Scienze, della quale fu Socio benemerito e, succedendo a Dionigi Strocchi, Accademico Benedettino. "Lasciando adunque di favellare del medico, io verrò a parlare del gentilissimo poeta e dell’ottimo cittadino, poiché il Valorani fu l’uno e l’altro". Nelle parole di un biografo ed amico, nonché esecutore testamentario, Enrico Sassoli, questa multiforme personalità è sintetizzata in tre principali aspetti: medico, poeta ed optimus civis.
Veniamo dunque al poeta. Fin dai primi anni del suo trasferimento, Bologna gli aveva aperto le porte dei più esclusivi salotti, grazie alla sua riconosciuta bravura nel verseggiare, arte allora fortemente tenuta in considerazione. "qui (...) non si sa altro che far sonetti, e letterato e sonettista son sinonimi", scriveva Giacomo Leopardi nel gennaio 1826, durante il suo primo soggiorno bolognese, al cugino Pietro Melchiorri. E proprio allora le esistenze dell’illustre recanatese e del valente medico si incrociarono per un breve tratto, quando quest’ultimo ebbe l’onore di invitarlo personalmente ad una adunanza dell’Accademia dei Felsinei. Dove peraltro, stando alla Cronaca del conte Francesco Rangone, il Valorani annoiò tutto il prestigioso uditorio, discettando con molta abilità ma troppo a lungo su come i libri — teste Diodoro Siculo — siano un sicuro rimedio per l’animo. Tale Accademia, di cui il Valorani era stato nominato segretario perpetuo fin dalla fondazione, nel 1819, si era costituita dalla "commissione" dedita alla poesia tra le quattro attivate all’interno della Società del Casino, circolo che radunava nobiltà e alta borghesia come diretta prosecuzione della Società degli Amici e dell’antecedente Casino dei Nobili, chiuso all’avvento delle armate napoleoniche. Assunto ad insegna Apollo in Parnaso circondato dalle Muse (in esergo: "dulces ante omnia Musae"), questa associazione di letterati contava al suo interno figure come Dionigi Strocchi — direttore perpetuo, affiancato in tal ruolo dal 1826 da Massimiliano Angelelli -, Giovanni Marchetti, Paolo Costa, Carlo Pepoli, Rinaldo Baietti, Gaetano Gibelli, Francesco Tognetti, e molti altri; tra i soci "corrispondenti", Vincenzo Monti, Giulio Perticari e Pietro Giordani. Con molti di loro il Valorani ebbe stretti contatti anche d’amicizia, come attestano numerosi suoi versi a loro affettuosamente dedicati. Le riunioni dell’Accademia vennero sospese dall’autorità pontificia, come del resto ogni altra similare associazione, a seguito dei moti insurrezionali del 1831. Più tardi, anche quando le altre ripresero a funzionare, l’Accademia Felsinea non risorse più, in quanto, "già di fatto assai decaduta per la morte e per l'esilio di tanti, non pensò mai a far pratiche per esser riammessa ne’ suoi primi diritti", scriveva il Valorani al Conte Francesco Rangone nel 1838. "Non giova a noi letterati di essere in fama di liberali", aveva affermato, riguardo alla propria esperienza, Dionigi Strocchi, come Pietro Treves ci ricorda analizzando la specifica condizione degli intellettuali soggetti al potere della Chiesa, ma formatisi culturalmente e politicamente durante il dominio napoleonico, e, una volta caduto quello, rimasti orfani di uno stato in cui senso della storia e realtà politica si potessero di nuovo conciliare. Un analogo ripiegamento su una dimensione extra-professionale di pura letteratura fu forse il morso con cui il Valorani intese frenare le proprie aspirazioni, non certo volte ad istanze di pura restaurazione, lui che aveva inneggiato alla nascita del Re di Roma, e che insieme con il busto di Pio IX si teneva in casa anche il ritratto di Napoleone.
Con prudente saggezza preferì interessarsi di politica solamente attraverso il filtro moralistico della narrazione storica, come attestano, tra gli autori della sua biblioteca, Colletta, Pages, Botta, Sismondi, e il Naudé delle Considerazioni politiche sopra i colpi di stato. Di conseguenza non stupisce lo scarso entusiasmo per la sollevazione che portò al Governo delle Province Unite, da lui espresso, senza però alcuna riprovazione, nel sonetto A Giovanni Marchetti - 1831: "e tu dal santo colle or t’allontani, / e per la carità della tua terra / nel mar t’involvi de’ negozi umani? // Pensa che il vizio alla virtù fa guerra / trionfalmente, e agl’intelletti sani / Cirra una gioia non mortal disserra". D’altra parte non aveva del tutto rinunciato a sperare: parecchi anni più tardi, con idealistica fede necessaria all’uomo e non al personaggio pubblico, e, del pari, con attitudine gratulatoria consentanea invece al letterato, egli plaudì a Pio IX, all’indomani dell’editto del Perdono, con il sonetto "avvallar monti ed asciugar paludi", di cui si ebbe una puntuale, lusinghiera registrazione nella Cronaca del Bottrigari. Tenendosi distante dall’agone politico, poté coltivare invece con ardore la poesia, i cui risultati meglio consentono di farsi vicini all’uomo, per coglierne il vero modo di sentire. Secondo Mario Petrucciani, nei versi del Valorani si afferma un’istanza principalmente lirica, di confessione diretta, che muovendo da una dolorosa introspezione tende ad una sua autonoma dimensione, mediante l’"amaro linguaggio", peraltro strettamente connesso ai modi espressivi della Scuola classica romagnola, o romagnolo-marchigiana, come corregge Augusto Campana, alla quale il Valorani appartenne e il cui drappello bolognese — in senso lato sia per nascita, sia per adozione, sia per adusata frequentazione — ritroviamo tutto nei ranghi dell’Accademia Felsinea. "Misere sorti fur della mia vita / donde l'alma rifugge e scruta orrore / come se or fosse dal periglio uscita", scriveva riguardo all’avverso destino; e ancora, descrivendo le condizioni in cui si dibatteva, "infermo il petto, inferma l’alma, in guai / traggo la vita alle lusinghe, al canto / chiusa, e alla speme [...]". A connotarlo, a distinguerlo dagli altri più conosciuti classicisti, sono proprio questi accordi in minore, a volte contemperati dalla forte devozione religiosa che sempre lo sorresse e che gli ispirò queste pie offerte all’Onnipotente, "se passar d'uno in altro aspro martoro / da Te, giusto Signor, mi si destina, / bacio la man che mi percote, e china / la fronte, i tuoi santi consigli adoro"; e alla Madonna "non aureo voto io t'offro, e non altero / gemmato fregio; abbiti invece, o Diva, / ogni senso dell’alma, ogni pensiero".
Anche per il mestiere intrapreso il Valorani si differenziò dal gruppo dei "romagnoli", nel quale è riscontrabile invece una certa omogeneità professionale incentrata sull’insegnamento umanistico e la filologia militante. Ma come lo stesso autore non si stancò di ripetere, furono soprattutto le angustie di un vivere crudelmente imperfetto, al quale la malferma salute lo aveva condannato e consacrato ad un tempo, ad influenzare il suo estro poetico: "potrebbe dirsi, non senza apparenza di verità, essere state mie Muse le malattie, mio Febo il dolore". Non gli fu estraneo l’idillio, come genere poetico, e non è da tacere poi — e anzi merita la maggior attenzione, nonostante il giudizio critico riduttivo che ne ebbe lo stesso Valorani — la sua abilità di traduttore della poesia latina umanistica, dal Petrarca al Flaminio, senza contare il Bembo, il Navagero e l’Ariosto, come ci ricorda ancora il Petrucciani, che avvalorò l’apprezzamento espresso poco dopo l’inizio di questo secolo dal Lamma. "Gozzi! dei sessanta anni ormai compiti, / trenta e più ancor, ne' mali ho consumato, / lasso! e senza aver nulla al mondo oprato / dovrò vedere i giorni miei forniti. // E ben di tempo e numero infiniti / i mali avrei più volentier portato, s’opra compir m’avessero lasciato, / che non indegno agli avvenir m’additi". In questi versi, che precedettero di pochi anni la morte, al consueto lamento si aggiunge l’acuto rimpianto di non aver potuto legare il proprio nome a qualcosa di imperituro. Questa considerazione si era già fatta strada nella mente del poeta vent’anni prima: "ore oziose, / nell’amor delle genti unqua non muore / chi lascia eredità d’opre famose", e nel frattempo numerose pubblicazioni di carattere medico e non pochi componimenti avevano reso illustre il suo nome. Ma ciò evidentemente non doveva bastargli: così nel 1851, l’anno prima di morire, si risolse a pubblicare presso lo stampatore Sassi la raccolta dei Versi, in cui oltre alle poesie sue troviamo risposte e versioni latine di vari rappresentanti della Scuola classica romagnola, della quale il volumetto viene quindi ad essere una sorta di interessante florilegio. Nel sonetto d’apertura, devotamente dedicatole, la Poesia, secondo il più intimo desiderio dell’autore, viene chiarnata a testimone ultima d’imrnortalità: "e se la speme a tanto alzar ne lice, / forse che ancor sull’umil sepoltura / tu a guardia siederai della mia fama!". Voti, verso i quali andarono i riconoscimenti subito dopo accordatigli dal Papa: una medaglia d’oro di benemerenza e l’ordine equestre di S. Gregorio Magno.
Se a questo punto poteva sentirsi pago il poeta, non lo era altrettanto l’uomo di scienza; per questo il Valorani, nelle sue ultime volontà, commise al suo "ripetitore" Brugnoli di vagliare i suoi scritti scientifici e di darne i più meritevoli alle stampe a spese della sua eredità, incarico che con modestia venne girato all'Accademia delle Scienze. Si ebbe così nel 1855 la Raccolta di dissertazioni mediche, stampata presso la Tipografia governativa alla Volpe, alla quale venne premessa la già citata biografia del Brugnoli. E l’ottimo cittadino? Quale altro contributo poteva egli dare all’edificazione del futuro monumento ideale, a parte, ovviarnente, l’assodata, e imprescindibile, integrità dei costumi? Solamente uno: destinare con filantropia le proprie sostanze a vantaggio della collettività; e così fece. Con testamento del 31 luglio 1852 consegnato al notaio Francesco Marchignoli il 22 agosto successivo — due mesi prima di morire — Vincenzo Valorani istituì la patria città di Offida erede dei propri averi, che consistevano nell’arredo di una dignitosa casa borghese, in un piccolo appezzamento di terreno nel paese d’origine, e soprattutto in crediti, fruttiferi e no. Singolarmente, i suoi principali debitori risultano sia un esponente di spicco della nuova e rampante classe imprenditoriale, il marchese di fresca nomina Camillo Pizzardi, sia gli appartenenti ad una delle più note famiglie dichiaratamente liberali, i fratelli Rocco, Carlo ed Enea Bignami "anche come eredi e successori del zio loro Giulio Cesare". Di là dalle effettive motivazioni che lo avevano indotto a tali prestiti, bisogna riconoscere che gli eventuali rischi erano ben bilanciati. Le disposizioni testamentarie a pro della cittadina marchigiana riguardarono l’istituzione di un insegnarnento di filosofia, ed elargizioni in occasione della Pasqua, della Pentecoste e del Natale a venticinque famiglie povere ed oneste, con precedenza a quelle portanti il suo stesso cognome.
Alla patria adottiva, alla città di Bologna, che lo aveva accolto benignamente quarantaquattro anni prima e dalla quale egli poteva ora dire di essere sempre stato fatto oggetto di ampia considerazione e segnalati onori, lasciò l’ornamento più bello della sua casa, i paesaggi — più di una ventina — appesi nell'"anticamera verde", a condizione che fossero conservati in perpetuo in una sala dell’Archiginnasio, e che ne fosse eternato il lascito, nelle parole del testatore, con "una modesta memoria allusiva", oggi irreperibile. In questo modo egli seguì l’esempio di altri noti medici che avevano destinato i propri libri e manoscritti, ma anche opere d’arte, al Comune di Bologna, e di conseguenza all’Archiginnasio: ricordiamo i lasciti di Antonio Giuseppe Testa (1843) e di Luca Sgarzi (1851), e la donazione di Matteo Venturoli (1846). Il Valorani possedeva una biblioteca non troppo vasta, povera di rarità e composta principalmente di testi medici utili alla sua professione e all’insegnamento, oltre ad un certo numero di libri di varia cultura necessari ai suoi "ozi". Solo la quadreria poteva dunque essere un dono sufficientemente decoroso, tale da consentire al suo nome di entrare ufficialmente e per sempre in quello che allora con molta enfasi era stato definito "santuario delle scienze", e in cui andava costituendosi una sorta di proto-museo cittadino. Non va dimenticato poi che una decina d’anni prima il palazzo dell’Archiginnasio aveva accolto anche la Società Medica Chirurgica, ai cui membri più farnosi proprio in quegli anni cominciavano ad essere dedicate memorie celebrative sulle pareti delle sale a pianterreno. Il professor Valorani non apparteneva a quel sodalizio, e con apparente distacco, che celava — ci piace credere - una punta di malizioso snobismo, si adoprò perché in quell’immenso repertorio di stemmi, cartigli, monumenti ed iscrizioni, che affollavano la vecchia sede universitaria, figurasse anche il suo nome. A futura memoria non solo del suo innegabile gusto di collezionista, ma anche di un’intera vita idealmente trascorsa nel segno di Apollo, il dio della medicina, della poesia, della bellezza.
Saverio Ferrari
Testo tratto da "Collezionisti a Bologna nell’Ottocento: Vincenzo Valorani e Luigi Pizzardi, Bologna, 1994.