Scheda
"Prima che si chiuda la presente annata, non è fuor di luogo che questa Rivista registri tra i fatti più salienti che hanno commosso la città, anche quello a cui riverente ha preso parte tutto il popolo bolognese, la traslazione cioè dalla Certosa alla Basilica di S. Petronio della Salma di un umile sacerdote. I giornali cittadini ne hanno parlato diffusamente, ed è giusto e doveroso che anche su queste colonne se ne tenga un breve cenno. Il Capitolo di S. Petronio, mentre il 28 gennaio 1925 presentava istanza all'E.mo Cardinale perché si degnasse di introdurre la causa di beatificazione a favore di Monsignor Giuseppe Bedetti, chiedeva contemporaneamente al Sindaco di Bologna che la venerata Salma di lui dal Cimitero venisse trasferita nella cappella del Crocefisso di S. Petronio. E tale trasferimento fu concesso mediante deliberazione della Giunta Municipale presa in forma di Consiglio il 16 febbraio 1925 ratificata nella Seduta consigliere del 5 marzo successivo e resa esecutiva per disposizione prefettizia del 18 aprile.
Il 5 ottobre si è proceduto all'apertura del sepolcro e alla esumazione e ricognizione delle sacre spoglie, presenti, per la Curia Arcivescovale, il Cardinale G. B. Nasalli Rocca, Arcivescovo; pel Municipio, l'Assessore avv. cav. uff. Giuseppe Vittorio Simonini. L'11 dello stesso mese avvenne la importante traslazione per immenso concorso di popolo, e il giorno seguente l'imponentissimo funerale nella Basilica Petroniana coronò l'ultima cerimonia, la tumulazione nel nuovo sepolcro. Mons. Giuseppe Bedetti, nato a Bologna, sul finire del sec. XVIII, ha spesa tutta la sua lunga vita di novant'anni in mezzo ai poveri dei quali era l'amico e il benefattore, fra i derelitti, i tribolati, gli infelici e gli afflitti di cui era la provvidenza vivente e il consolatore; in lui la vedova trovava un appoggio, l'orfano un padre. La sua vita si potrebbe riassumere in una sola parola: carità! Ed è per effetto di questa sua immensa carità, unita alla più esemplare modestia, da preferire che tutti continuassero a chiamarlo, in luogo di Canonico o Monsignore – che forse per lui aveva del pomposo – col vezzeggiativo di Don Iusfein, che egli ha goduto fino alla morte di una popolarità quanto mai nessuno ebbe. Sebbene siano già trascorsi oltre trentasei anni dal suo transito vi sono ancora molti che lo ricordano piacendosi di narrare ai figli e ai nipoti con entusiasmo misto a venerazione le di lui virtù di uomo e di sacerdote pio, umile e caritatevole. Gli ospedali e i tuguri del povero erano il campo delle sue sollecitudini; non prendeva riposo la sera se non aveva sciugato una lagrima, alleviato un dolore o soccorso un indigente. La sua carità senza limiti non si arrestava soltanto al sollievo di una sola specie di miseri, ma estendeva il suo ardente eroismo anche ad altre, verso coloro, e forse i più derelitti che erano abbandonati nel carcere. Quando il Card. Opizzoni con lettera 8 gennaio 1828 lo nominava deputato della congregazione di Carità per le carceri egli ne accettò con indicibile entusiasmo il grave peso, e sappiamo che spendeva le intere giornate ad istruire i carcerati a consolari, a versare su quei cuori disperati il balsamo della speranza, e a farsi l'ultimo amico dei condannati all'estremo supplizio che la giustizia umana aveva abbandonato alla disperazione.
Chi volesse accingersi ad una completa biografia di questo umilissimo fra gli umili, dovrebbe aver sotto mano tutto il suo interessante carteggio, del quale io traggo ora questi brevissimi particolari. Non si possono leggere senza commuoversi le lettere a lui dirette per richieste di sussidi da parte di padri di famiglia, privi di ogni mezzo di sussistenza che implorano dal sacerdote beneficio un sollecito aiuto di danaro, di cibo e di vestiario. La ricca nobiltà bolognese, alla quale mai inutilmente egli chiedeva la elemosina pei suoi poveri, professionisti di grido e signore della borghesia, che spontaneamente gli facevano dono per sé di commestibili oggetti di vestiario, cose tutte che finivano in una completa distribuzione ai bisogni, furono concordi nel proclamarlo d'umanitario tipo, il filantropo per eccellenza. Che fosse poi tenuto in grande venerazione di uomo santo ce lo dimostra chiaramente la lettera direttagli il 17 gennaio 1860 dal Vescovo di Recanati e Loreto: “Eccomi qua dal mio carissimo Mons. Bedetti, ma in ginocchio col corpo, ma in ginocchio con lo spirito, tanta è la venerazione e la stima in cui lo tengo”. Chi ha avuto la fortuna di leggere la corrispondenza epistolare che Mons. Giuseppe Bedetti ha conservato e che ora, riordinata, forma in diversi fascicoli una minuscola raccolta sì di carte, ma un immenso tesoro di documenti umani, si è certamente formata la convinzione che egli fosse non un uomo comune, ma venuto di cielo in terra a miracol mostrare
Fra le molte lettere di cordoglio pervenute ai parenti, nell'occasione della morte del Monsignore non è da tacere quella del Sindaco di Bologna, Senatore Gaetano Tacconi inviata il 7 gennaio 1889 alla signora Anna Bedetti Ved. Ponti con le seguenti nobilissime espressioni: “La perdita di questo uomo, esempio raro di carità e di filantropia, tipo vero di sacerdote nobilmente pieno della sua evangelica missione, lascia un vuoto che difficilmente potrà essere colmato. Ben lo sanno tutti coloro che Egli fu largo di aiuto, di consiglio e di conforto, e che trovano sempre in Lui un amico, un fratello: ben lo sa la città nostra che lo vide ognora dedicarsi tutto al bene altrui, non d'altro curante che di soccorrere gli infelici e consolare gli afflitti. Possa lenire il dolore di V. S. Ill.ma e degli altri parenti la eredità di affetti che lascia quel buono e il pensiero che la sua memoria vivrà finché sia nel popolo il culto della virtù e la sua gratitudine pie benefattori”. La imponente dimostrazione di affetto e di gratitudine verso il Grande Scomparso con strepitoso concorso di popolo svoltasi l'11 ottobre per la traslazione delle sue ossa venerate, e gli imponentissimi funerali del giorno successivo nella maggiore Basilica, ci ha convinti che il culto della virtù non è ancor spento nel cuore di questo popolo, il quale attende con ansia che il benefattore dei suoi padri possa presto ascendere, mercè il divino respondo, agli onori degli altri. ATTILIO SALVIATI" (Testo tratto da 'Un degno figlio di Bologna', nella rivista 'Il Comune di Bologna', ottobre 1925. Trascrizione a cura di Zilo Brati).
Il 4 gennaio muore a Bologna, quasi novantenne, mons. Giuseppe Bedetti (1799-1889), Arciprete della Collegiata di San Petronio e chiamato dal popolo Don Jusféin. Era apprezzato anche dagli anticlericali come prete degli ultimi. Si adoperava infatti con visite agli ammalati e ai carcerati, occupandosi soprattutto dei facchini, una categoria sociale particolarmente emarginata. Aveva importato a Bologna il modello delle scuole notturne di don Bosco. Dopo il fallimento, nel 1838, del Comitato per la fondazione di asili infantili, inaugurò, per ragazzi "privi di chi debba o voglia educarli", la prima scuola in un palazzo di via Zamboni e aprendone poi una decina in vari luoghi della città. Queste scuole ospitavano nelle ore serali bambini tolti “dalla strada, dalla nudità, dallo squallore” e li impegnavano con attività scolastiche e oratoriali. Spesso gli stessi sacerdoti procuravano loro piccoli lavori. Già nel 1858 le scuole serali accoglievano più di 80 alunni, figli di artigiani e operai tra i 10 e i 14 anni. Erano impartite lezioni di lettura, scrittura, artitmetica, disegno e canto. Durante l'inverno era insegnato il catechismo, mentre la domenica, con le Congregazioni festive, i ragazzi erano condotti a messa, intrattenuti con attività ricreative ed infine invitati a una modesta cena gratuita. Dopo la morte di don Bedetti, per tre giorni continui, migliaia di persone accorrono a vegliare la salma. Nel lasciare la sua povera stanzetta tutti ripetono: "E' morto un santo".
In collaborazione con 'Cronologia di Bologna' della Biblioteca Sala Borsa.